Post-office. Cronache dal lavoro che c’è

Nella pancia di Poste Italiane tra finanziarizzazione, speranze e illusioni appese a un badge.

“Non diventare un ricoverato come noi”. Beppe mi guarda negli occhi come un lampo, tira fuori il fiato che gli resta dall’ennesima sigaretta divorata in corridoio, accanto alla macchinetta del caffè. Lui ha quasi 56 anni, da trenta lavora alle Poste, “quando si entrava senza ‘beggiare'”. Bastava firmare un foglio per avviarsi a consumare le (allora) canoniche sei ore. Si entrava alle otto, ma era concessa una tolleranza di mezz’ora che naturalmente approdava alle nove meno un quarto, per concludersi spesso alle nove spaccate. Avete presente l’affannata corsa olimpionica di Fantozzi nel corridoio aziendale per timbrare il cartellino? Ecco, diciamo che non era lo stesso film.

La sede di Tor Pagnotta è la parente povera di quella dell’Eur, che ospita la direzione e le attività qualificate di Poste italiane. Qui, sulla via Laurentina, a due passi dal raccordo, ci sono sia le attività di recapito che quelle finanziare, attorno al settore BancoPosta. Questo è il core-business di una società formalmente privata, ma con il ministero dell’economia come unico azionista. La società è posta sotto il controllo e la vigilanza del ministero dello sviluppo economico, ad oggi conta 144 mila dipendenti, impiegati in 21 centri di meccanizzazione postale e oltre 13 mila uffici postali. Insomma, il più grande gruppo economico italiano.

Un pachiderma che da sempre ha rappresentato, nel bene e nel male, il tipico modello burocratico italico, sospeso tra spartizione lobbistica, partitocratica e sindacale, e strumento di garanzia di un servizio pubblico essenziale. Come analoghe esperienze di enti statali o parastatali, le Poste, dal dopoguerra in poi, hanno rappresentato un particolare bacino produttivo-assistenziale, una sorta di “ammortizzatore sociale” anomalo. Ma con una rigida struttura gerarchica professionale, che stride decisamente con lo stereotipo diffuso dell’impiegato pubblico imboscato e iper-tutelato: da una parte, l’apparato amministrativo, tecnico e contabile; dall’altra, il personale dedicato al recapito o all’organizzazione operativa, che svolge da sempre un lavoro duro e scarsamente retribuito.

Tutto cambia all’inizio degli anni novanta, quando il disavanzo di bilancio (4.500 miliardi di lire nel 1993) e l’aumento dei costi del personale, circa il 90 per cento delle entrate correnti, non risultano più sostenibili. La crisi economica del 1992, la svalutazione della lira e l’ubriacatura liberista, sancite dall’accordo governo-sindacati sulla “politica dei redditi”, rappresentano le condizioni di fondo in cui si avvia il processo di privatizzazione, ratificato dalla legge 71 del gennaio 1994. Poste italiane passa così da Amministrazione autonoma a Ente pubblico economico, per diventare definitivamente una Società per azioni nel 1998.

La nuova direzione si pone tre obiettivi, “il rilancio dell’efficienza produttiva, il recupero della qualità dei servizi e il risanamento economico-finanziario”. Tradotto: riduzione dei costi del personale (tagli e pre-pensionamenti), aumento dei ricavi dalla vendita di servizi alla pubblica amministrazione, “riordino” del sistema tariffario. Nel 2001, per la prima volta dopo non si sa quanto tempo, il bilancio registra un risultato positivo. Nel maggio del 2002 viene nominato amministratore delegato Massimo Sarmi, poi confermato altre tre volte, fino ai giorni nostri. L’azienda, per dieci anni consecutivi, chiude i bilanci in utile con profitti crescenti. Si aprono nuove aree di business (telecomunicazioni mobili, Postepay) e nuovi prodotti finanziari: mutui, prestiti personali, prodotti assicurativi, fondi comuni d’investimento, che si aggiungono ai classici libretti di risparmio e ai buoni postali fruttiferi.

Nel frattempo, dal primo gennaio 2011, il settore postale viene completamente liberalizzato in gran parte dei paesi dell’Unione europea. In Italia, fino al 2016 (con possibilità di proroga per altri dieci anni), la società sarà tenuta ad erogare il “servizio universale”, servizi essenziali di consegna ad un prezzo controllato, i cui oneri sono in parte a carico dello stato e in parte a carico di un fondo di compensazione. Nel 2012 il Gruppo consegue ricavi per 24 miliardi, la cui ripartizione spiega perfettamente l’incidenza dei prodotti finanziari e assicurativi (rispettivamente 5,3 e 13,8 miliardi) rispetto ai servizi commerciali e di recapito postale (4.65 miliardi).

La ricetta del “miracolo” è chiara: una società formalmente privata, con unico azionista pubblico, che gode di un monopolio di servizio strutturato in migliaia di sportelli territoriali, che offre servizi bancari e finanziari molto competitivi e che mantiene un costo del lavoro più basso rispetto la media italiana. Facile, no? Ma non è tutto oro quel che luccica. Come, ad esempio, le migliaia di vertenze perse con tutti quei lavoratori intermittenti – “trimestrali”, come venivano chiamati – chiamati di corsa nei primi anni duemila, come forza lavoro precaria e grimaldello concorrenziale per abbattere le “rigidità operaie” conquistate negli anni sessanta e settanta. Oggi la maggior parte di questi lavoratori-fantasma sono stati reintegrati dai giudici del lavoro, che hanno ritenuto illegittima la gestione delle “risorse umane”.

“Sono entrato che avevo 25 anni – conclude Beppe, in vena di confidenze – Ero giovane ma già sentivo addosso un senso di inutilità. Ora posso dire con certezza che i successivi trent’anni li ho proprio buttati. Sentimi bene: se hai le idee chiare puoi sopravvivere, magari scegliendo un part time che ti lascerebbe la possibilità di coltivare altri interessi e passioni. Ma se pensi di entrare credendo di uscirne quando vuoi, lascia perdere: io sono uno di quelli intrappolati nella lotta continua contro un mutuo, per tirare su una famiglia, comprarsi la macchina. La vita poi arriva, ma sembra sempre una parentesi”.

Chissà cosa ne pensano i nuovi arrivati, tutti giovani tra i 25 e i 30 anni che, ogni giorno, si presentano all’ingresso ben prima delle 8. I miracolati della crisi, così si definiscono, legittimamente, descrivendo l’inferno di precarietà e povertà da cui provengono: lavori in nero, stage e apprendistato infiniti, studi interrotti e la disoccupazione come un’ombra che ti accompagna fedele. Una sigaretta, due parole tra “colleghi”, il badge in mano e un calendario, nella testa, ossessivo, che si ferma al 27 di ogni mese. 1000-1100 euro, l’indennizzo del “ricovero”.