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Da Emmett Till a George Floyd

Una analisi delle politiche della rappresentazione a partire dal caso controverso di Dana Schutz fino alla richiesta in questi giorni di riot di #hireblackphotographers. Le questioni della rappresentazione della comunità nera, della violenza delle immagini e del rapporto tra estetica e politica rimangono cruciali anche per i movimenti di queste settimane

A partire dal caso controverso di Dana Schutz che in occasione della biennale del 2017 al Withney Museum di New York aveva da bianca rappresentato la morte di Emmett Till e dalla richiesta in questi giorni di riot di #hireblackphotographers, le questioni della rappresentazione della comunità nera, della violenza delle immagini e del rapporto tra estetica e politica rimangono cruciali anche per i movimenti di queste settimane

In occasione della biennale del 2017, il Withney Museum di New York aveva deciso di esporre, per il tramite dei due curatori Christopher Y. Lew e Mia Locks, la tela dell’artista Dana Schutz intitolata Open Casket (2016, Oil on canvas, 99 × 134.6 cm, collection of the artist). Il soggetto del dipinto è tra i più drammatici e raffigura la bara aperta di Emmett Till, un ragazzo afroamericano di 14 anni originario di Chicago, accusato di flirtare con una donna bianca, Carolyn Bryant, brutalmente massacrato e ucciso da due uomini bianchi, Roy Bryant, il marito della donna, e J.W. Milam, suo cognato, nel 1955, a Money, Mississipi.

Emmett Till fu picchiato, mutilato, gli spararono in pieno volto e il suo corpo annegato nel fiume Tallahatchie. Il soggetto della tela riprende, o meglio si richiama, come dichiara l’artista, alla scioccante fotografia pubblicata all’epoca dalla rivista “Jet”, su richiesta della madre del ragazzo, che mostrava, in tutta la sua crudezza, la bara lasciata aperta durante il funerale e il volto sfigurato del giovane Emmett. La scelta della madre, come molti hanno osservato, fu profondamente coraggiosa e coraggiosamente politica: «There was just no way I could describe what was in that box. No way. And I just wanted the world to see».

 

La brutalità di quell’assassinio, la violenza razzista che sfigura e distrugge corpi e vite non potevano essere dette a parole, ma non solo: dovevano essere mostrate, largamente diffuse e rese visibili proprio perché dissimulate dalla loro presenza endemica e radicata nella società americana.

 

Di quelle terribili fotografie, lo sguardo della madre, dignitosamente e dolorosamente rivolto verso il corpo del figlio, è forse la cosa più difficile da sostenere ma anche la più politicamente potente e attuale. L’assassinio di Emmett e quelle fotografie sono stati una spinta fondamentale per l’allora nascente American Civil Rights Movement; la ferita è ancora vistosamente aperta nel movimento Black Lives Matter, quello sguardo sempre più determinato a chiedere giustizia per Trayvon Martin, Eric Garner, Michael Brown, Ahmaud Arbery, Breonna Taylor, George Floyd.

Dana Schutz è un’artista bianca, realizza il suo dipinto nel 2016, lo concepisce a partire dalla fotografia del 1955, ma non intende, come dichiara, sostituirla o offuscarla con il suo quadro: «More than the photograph of Emmett Till, I relied on listening to Mamie Till Bradley’s verbal account of seeing her son, which oscillates between memory and observation. I thought of this as a social painting. This happened in America, and it’s still happening […] I did not know if I could make this painting. I questioned who this subject belonged to. Was it the mother’s? The Black community’s? Is it all of our pain? Mamie Till Bradley, in her act of leaving the casket open, I believe wanted her son’s death to be America’s pain».

 

 

Parker Bright protesting Emmett Till painting at the Whitney in New York. Photograph: Twitter (provider has asked not to be identified) – Fonte The Guardian

 

Sebbene pensato e realizzato, nelle intenzioni dell’artista, come un social painting per l’America di oggi, il quadro e la biennale del 2017 che lo ospitava sono stati al centro di aspre polemiche e accese proteste: molti artisti appartenenti alla black community (Parker Bright, Pastiche Lumumba, Hannah Black, tra gli altri) denunciarono l’oltraggio che una simile scelta rappresentava nei confronti della loro comunità e richiesero non solo la rimozione del quadro, ma ne auspicarono la distruzione.

 

Il problema del suprematismo bianco, della supremazia della cultura bianca e occidentale, si annida insidiosamente anche nelle rappresentazioni della blackness così come di tutte quelle alterità rese soggetti passivi dallo sguardo dominante.

 

L’accusa, anche in questo caso, era quella di spettacolarizzare la morte di un giovane nero, su cui lo sguardo di una bianca non poteva che essere non solo esteriore e superfluo, ma soprattutto complice e colpevole di perpetrare la violenza inflitta sull’altro, assoggettato, come scriveva Edward Said, nella rappresentazione. Le pennellate espressionistiche che raffigurano il volto sfigurato del giovane Emmett sono state accusate di nascondere e dissimulare proprio ciò che le fotografie del 1955 volevano mostrare: tutto l’orrore della violenza razzista. Lo sguardo di Dana Schutz non poteva aggiungere niente a quello della madre di Emmett, che scelse di fare del suo sguardo colmo di lutto una questione politica, attraverso la diffusione di quelle fotografie, trasformando così la passività del corpo morto del figlio e il suo dolore privato in una forza agente.

Il contesto in cui il quadro di Schutz è stato esposto, la biennale di arte contemporanea del Withney Museum, tradizionalmente impegnata a fornire il quadro complessivo della produzione americana più recente, era ed è anch’esso problematico, per diverse ragioni, non da ultimo per il suo aspetto mondano coniugato, più o meno efficacemente, con l’impegno politico manifesto dei curatori dell’edizione del 2017. «The exhibition – diceva la curatrice Mia Locks – emerges out of, or at least alongside […] societal context, and many of the works address concerns about racial injustice, or violence, economic inequities, or structural asymmetries. And sometimes these ideas are addressed very directly, and other times much more obliquely».

Sebbene esposto in una cornice che si proponeva di restituire la complessità della società americana e malgrado fosse realizzato con l’intento di dire che quell’assassinio interpellava ogni singolo cittadino, con il suo quadro Dana Schutz si appropriava da bianca della rappresentazione di un giovane nero assassinato e risollevava, pungente, il problema del rapporto tra arte e politica.

 

Questo episodio conteneva quindi in nuce due questioni che sono tornate in primo piano anche in questi giorni: il tema della rappresentazione della black community e il tema correlato della valenza politica delle immagini, mediatiche o artistiche e del loro prendere posizione.

 

Il video, ripreso con un cellulare, che mostra la morte di George Floyd ha la forza dirompente di una testimonianza diretta e immediata, di una denuncia e ha avuto il fondamentale compito, nella calma apparente del lockdown, di riaccendere le proteste negli Stati Uniti e nel mondo attorno al movimento Black Lives Matter, in maniera trasversale e multirazziale. Come voleva la madre di Emmett Till, anche queste immagini sono, per riprendere quanto scritto da Pietro Bianchi su Dinamopress qualche giorno fa, «un gesto di chiarificazione politica: rendere finalmente visibile e mettere in scena il processo strutturale di produzione razziale della disuguaglianza su cui da sempre si è basata la democrazia americana e che normalmente rimane nascosto».

Le politiche della rappresentazione nell’America che brucia passano anche da una rinnovata consapevolezza della necessità di rivolgere l’obiettivo di macchine fotografiche e cineprese non tanto verso il basso, ma di orientarlo verso il mondo dal basso, come diceva Allan Sekula già negli anni ‘70. Le richieste, sostenute da una larga parte della comunità artistica anche bianca, di preferire le rappresentazioni mediatiche e fotografiche prodotte dalla stessa comunità nera, sono apparse di nuovo anche per i riot e le proteste che proseguono da giorni in seguito alla diffusione del video e della notizia dell’assassinio di George Floyd: #hireblackphotographers è uno degli hashtag che corre oggi su Instagram. Se, infatti, il cambiamento che si reclama a gran voce è strutturale, esso passerà anche dalla possibilità di visualizzare, come scriveva Nicholas Mirzoeff, di non subire ancora lo sguardo dell’altro ma di esercitarlo, di affermare il proprio diritto di guardare il mondo e rappresentarlo, di rappresentarsi, dirsi e narrarsi.

Tornando a Dana Schutz e al suo quadro, il problema della politicità dell’arte si pone con particolare insistenza per l’arte contemporanea e per i luoghi deputati a ospitarla. L’opera di Schutz, sebbene maldestra, dimostra che il rapporto tra estetica e politica non è certo semplice, ma è pur sempre inaggirabile, oggi. Nel campo dell’estetica si sostiene ancora, che politicizzare l’arte equivarrebbe a strumentalizzarla, a piegarla di volta in volta ad esigenze etiche e politiche sempre particolari, perdendo così quel carattere di universalità e autonomia che l’aveva definita nel periodo moderno. Si dimentica in questo caso che l’artista non vive separato dalla realtà, che l’arte che egli produce vive di uno scambio continuo col mondo, che è un pezzo stesso di quel mondo poiché, immesso nello spazio pubblico e collettivo, contribuisce a definirne il senso.

Con il quadro di Schutz ci si chiedeva che diritto potesse avere una donna bianca a rappresentare la morte di un giovane nero. L’artista rispose alle polemiche affermando che certamente non sapeva cosa volesse dire essere nero in America ma che sapeva che cosa volesse dire essere madre e quella era la prospettiva da cui guardare il suo quadro. La questione è controversa, ma quella di Schutz resta una precisazione insufficiente, in un momento in cui s’iniziava a rivendicare la necessità di riconoscere la specificità di essere nera o nero oggi negli Stati Uniti, di essere madre e nera. In questo senso andavano le proteste contro Schutz e in questo senso vanno le richieste avanzate oggi nel mondo dell’arte e della fotografia, a partire dalla documentazione degli eventi di questi giorni: la questione è estetica, poiché riguarda la messa in forma di quegli eventi, e politica, poiché riguarda non solo la rappresentazione che se ne può dare, ma soprattutto lo spazio, anche istituzionale, che lo sguardo agente della black community può avere e rivendicare.

 

WHEN ASKED WHAT HE WANTS TO BE WHEN HE GROW UP, THE BLACK BOY SAYS: “I WANT TO BE A WHITE MAN CAUSE MY MAMA SAY ‘A NIGGER AIN’T SHIT'”

Carrie Mae Weems, Ain’t Jokin’, 1987-1988