MONDO

I palestinesi al margine della farsa politica tra Emirati Arabi Uniti e Israele

Con i regimi arabi che vedono Israele come un alleato nelle loro lotte di potere, i palestinesi dovrebbero contrastare la normalizzazione tagliando finalmente il cordone ombelicale con il processo di Oslo.

Dall’annuncio dell’“Accordo di Abramo”, mediato dagli Stati Uniti, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti di due settimane fa, i funzionari pubblici di tutti e tre i paesi lo hanno descritto come un passo senza precedenti verso la “pace” nella regione. L’accordo prevede che gli Emirati Arabi Uniti riconosceranno e normalizzeranno le relazioni con Israele (il primo stato arabo a farlo formalmente dopo l’Egitto nel 1978 e la Giordania nel 1994) in cambio della “sospensione” dei piani di annessione israeliana nella Cisgiordania occupata. Ciò significa che i due paesi apriranno il commercio, faciliteranno i legami culturali e aumenteranno il coordinamento sul piano militare e della sicurezza.

Nonostante la spettacolarizzazione dell’accordo, queste relazioni in realtà non sono qualcosa di nuovo; a lungo c’è stata una normalizzazione sottobanco, a vari livelli, tra molti stati arabi e Israele. Tuttavia, questo atto di normalizzazione ufficiale, che rompe le fila della Lega Araba, minaccia non soltanto di mettere la causa palestinese da parte, ma anche di avere gravi ripercussioni per le società arabe in tutta la regione.

 

Fino a oggi, sul piano ufficiale, la normalizzazione pubblica spingeva sempre verso un progresso della fine del conflitto israelo-palestinese.

 

Ad esempio, è stato solo dopo gli Accordi di Oslo del 1993 che i regimi arabi hanno iniziato ad aprire uffici commerciali e relazioni di altro tipo con le istituzioni israeliane, con la scusa che stavano sostenendo il processo di pace. Quando con la Seconda Intifada del 2000 si rese evidente il fallimento delle negoziazioni, molti stati arabi fecero marcia indietro su queste aperture di normalizzazione. L’Iniziativa di Pace Araba del 2002, guidata dall’Arabia Saudita, ha ribadito gli impegni arabi nei confronti del processo di pace affermando che la normalizzazione sarebbe subordinata alla creazione di uno stato palestinese.

Oggi quella politica è stata buttata fuori dalla finestra. Nonostante siano tangenti al conflitto e non siano mai stati in guerra con Israele, gli Emirati Arabi Uniti sono andati contro gli standard fissati dalla Lega Araba offrendo la normalizzazione senza concessioni significative da parte di Israele. In sostanza, ha gettato alle ortiche una delle poche monete di scambio rimaste in mano araba, e aperto la strada affinché altri paesi nella sua orbita (inclusi, potenzialmente, Bahrein e Sudan) possano fare lo stesso.

Israele può rivendicarsi presso la comunità internazionale di aver rinunciato a qualcosa di importante “sospendendo” l’annessione (anche se Netanyahu insiste sul contrario con i suoi elettori). Ma questa affermazione è ridicola: l’annessione non è una data sul calendario ma un processo continuo che procede senza vincoli, de facto se non de jure. Quindi, cosa hanno ottenuto davvero gli Emirati?

Una convergenza di forze antidemocratiche

In realtà, la questione dei diritti e dell’autodeterminazione dei palestinesi è una nota a margine di questa farsa politica e non è mai stata l’obiettivo di nessuna delle due parti.
La connotazione del titolo dell’accordo, che prende il nome dal profeta Abramo, tenta di dipingerlo come una soluzione spartiacque di un conflitto religioso più ampio piuttosto che un cinico accordo politico. Questo, in parte, è un messaggio progettato per allettare i sostenitori evangelici dell’amministrazione Trump in vista delle elezioni del 2020 e per suggerire che gli Emirati Arabi Uniti abbiano una qualche legittimità storica per le proprie azioni. Legittimità che nei fatti è gravemente mancante.

 

Netanyahu, da parte sua, può rivendicarsi una vittoria in politica estera di fronte al proprio pubblico interno, già amareggiato dalla sua cattiva gestione dell’economia e della crisi del coronavirus.

 

Per gli Emirati, l’accordo è un mezzo per guadagnare punti con gli Stati Uniti nella gara con gli altri regimi del Golfo, tutti in corsa a favore dell’amministrazione Trump (soprattutto perché la probabilità che Trump venga rieletto a novembre si riduce giorno per giorno). Questo, a sua volta, alimenta il principale obiettivo della politica estera degli Emirati Arabi Uniti di affermarsi come potenza regionale, per proiettare la propria influenza e la propria visione autocratica oltre confine.

Nell’ultimo decennio gli Emirati Arabi Uniti si sono affermati come forza controrivoluzionaria, intenta a impedire che lo spirito della Primavera Araba prenda piede nei principali paesi arabi. Una delle principali paure di tale mobilitazione di massa (oltre a minacciare l’ordine politico autoritario) è che potrebbe portare a un aumento di gruppi politici islamisti. Le tensioni del Golfo con Iran e Turchia, compreso il loro coinvolgimento negli affari degli stati arabi, alimentano questo allarme. Questo ha portato gli Emirati a intervenire in un certo numero di stati che stanno vivendo disordini politici, come il Sudan e lo Yemen, per aiutare i rispettivi regimi a reprimere i manifestanti.

 

Nasser Ishtayeh / Flash90

 

In questo contesto, gli Emirati Arabi Uniti sono alla ricerca di alleati che possano condividere competenze, vendere strumenti di sorveglianza e aumentare la loro capacità di repressiva a livello nazionale e regionale (e hanno trovato questo alleato in Israele). Come gli Emirati Arabi Uniti, anche Israele è contrario alla democrazia nella regione perché i cittadini arabi hanno dimostrato la loro capacità di spingere verso un cambiamento trasformativo, e teme che i gruppi islamici che potrebbero riempire i vuoti politici che ne derivano rafforzerebbero uno dei suoi principali nemici, Hamas, con supporto politico e materiale.

 

Inoltre, l’opinione pubblica araba ha dimostrato un impegno costante per la causa palestinese (qualcosa che i loro leader autoritari sostengono a parole ma che, nella pratica, hanno sempre ostacolato).

 

I dati più recenti dei sondaggi del 2017-2018 dell’Arab Opinion Index, condotto dall’Arab Center for Research and Policy Studies [dove sono una ricercatrice – nda], mostrano che l’87% degli intervistati arabi, provenienti da 12 paesi diversi, non è d’accordo alla normalizzazione dei loro governi nei confronti di Israele. La stragrande maggioranza (77%) crede anche che la causa palestinese sia la causa di tutti gli arabi, e sostengono l’autodeterminazione palestinese e la fine dell’occupazione israeliana.

Quell’opposizione pubblica è venuta allo scoperto a seguito delle dichiarazioni degli Emirati Arabi Uniti. Nonostante le pressioni del governo sui cittadini affinché non si esprimessero sull’accordo e nonostante le crisi economiche e sanitarie in corso che affliggono molti paesi, attivisti dalla Tunisia al Bahrein si sono espressi contro l’accordo, mentre la società civile del Sultanato di Oman respingeva a gran voce il messaggio di congratulazioni agli Emirati Arabi Uniti da parte del proprio governo.

Attivisti di tutti i paesi del Golfo stanno anche organizzando una campagna unitaria contro la normalizzazione, anche se il contesto politico diventa sempre più restrittivo; hanno iniziato tenendo sessioni di brainstorming e trasmettendo grafiche educative sui rischi della normalizzazione e stanno sviluppando una strategia comune per l’intero Golfo.

Tagliare il cordone con Oslo

Questi attivisti arabi sanno che l’Accordo Emirati Arabi Uniti-Israele, che si basa sull’emarginazione dei palestinesi, non è un passo significativo verso la pace nella regione. Israele deve ancora vedersela con i milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania, Gaza e Israele che continua ad opprimere, uccidere e occupare. Le iniziative di “pace” con despoti irrilevanti non fanno nulla per risolvere il problema fondamentale che Israele ha in patria.

 

Per quanto riguarda i palestinesi, questa notizia è una vera e propria battuta d’arresto. I palestinesi sono oggi più emarginati e i loro alleati nell’opinione pubblica araba più repressi come mai prima d’ora (e con la crescente cooperazione tra Israele e i paesi del Golfo, questa repressione non farà che aumentare).

 

Nella regione cominciano a manifestarsi segnali di criminalizzazione dell’attivismo filo-palestinese, un fenomeno a cui si assisteva principalmente in Europa e negli Stati Uniti. Ad esempio, il governo degli Emirati Arabi Uniti ha inviato messaggi ai numeri WhatsApp degli Emirati Arabi Uniti minacciando azioni contro chiunque critichi l’accordo, e ha ribadito pubblicamente tale impegno su Twitter, tacciando le critiche all’accordo di “antisemitismo”, motivo per il quale i cittadini e residenti degli Emirati sono tenuti a riferire le autorità.

Eppure forse questo momento è un’opportunità per la leadership palestinese di tagliare il cordone con il processo di Oslo, per re-immaginare un futuro al di fuori dei limiti dell’impraticabile soluzione dei due stati. E forse è un’opportunità per gli alleati arabi per impegnarsi di nuovo con più serietà e innovazione per la questione palestinese, come imperativo morale e strategico.

Le macchinazioni dell’amministrazione Trump e dei suoi alleati autoritari offrono la possibilità di impegnarsi di nuovo con la società palestinese, mobilitare i palestinesi e rilanciare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina: non come un corpo stagnante e tangente al governo provvisorio dell’Autorità Palestinese, ma come un movimento di piena liberazione. I palestinesi non possono aspettarsi che regimi autoritari completamente privi di rappresentatività dei propri popoli e dei loro interessi (compreso il loro) facciano qualcosa di diverso dal normalizzarsi con i loro oppressori. Devono invece cogliere l’attimo come un’opportunità per ribaltare del tutto lo status quo.

 

Articolo pubblicato il 27 agosto 2020 su 972magTraduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress

Dana El Kurd è ricercatrice presso l’Arab Center for Research and Policy Studies e assistente professoressa presso il Doha Institute for Graduate Studies. È autrice di Polarized and Demobilized: Legacies of Authoritarianism in Palestine.

Immagine di copertina: Un uomo sventola una bandiera degli Emirati Arabi Uniti fuori dalla residenza ufficiale del Primo Ministro israeliano a Gerusalemme, il 19 agosto 2020 (Yonatan Sindel / Flash90). Foto nell’articolo: Palestinesi protestano contro l’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti nel villaggio di Haris, vicino alla città di Nablus in Cisgiordania, il 14 agosto 2020 (Nasser Ishtayeh / Flash90)