MONDO

Palestina, due giorni di lotta nel villaggio di Nabi Saleh

We refuse to die in silence

Venerdì 6 Novembre, la gente di Nabi Saleh, un villaggio sito a nord-ovest di Ramallah, riunita all’interno del Comitato di Resistenza Popolare, ha nuovamente marciato unita ed in maniera non-violenta contro l’occupazione sionista della West Bank.

La storia dei Comitati è ormai decennale. Era infatti il 2003 quando, mentre la Seconda Intifada era ancora attiva, gli abitanti di Budrus, un villaggio situato sempre nel distretto di Ramallah, iniziarono a manifestare contro il pericolo di essere tagliati fuori dal resto della West Bank a causa della costruzione della barriera di separazione pianificata da Israele (dal 2004 la Corte Internazionale di Giustizia intima ad Israele di sospendere la sua costruzione, che se completata correrà per l’85% all’interno della Green line, la linea che segna i confini del 1967). Gli abitanti di Budrus, forti del sostegno di decine di attivisti israeliani ed internazionali, scelsero allora come forma di resistenza la lotta popolare e non violenta. Ed in effetti il governo di Israele, dopo più di un anno di lotta e decine di manifestazioni, decise di riportare il muro all’interno dei confini del 1967. La tattica si diffuse così ad altri villaggi: Ni’lin, Bili’in, Kufr Qaddum, Al Ma’asara. Insieme queste piccole lotte riescono ancora oggi, dopo gli esiti nefasti della Seconda Intifada, a provocare diversi problemi allo Stato israeliano.

Nabi Saleh è stato uno tra gli ultimi villaggi a mobilitarsi, ma in breve tempo è divenuto uno dei più attivi nella West Bank. Il villaggio sorge in buona parte su quella che, per gli Accordi di Oslo, Israele considera Area C (ovvero il 61% della West Bank, area sotto totale controllo civile e militare israeliano) e sulla collina di fronte, dal 1977, sorge la colonia illegale di Halamish, in continua espansione.

Nell’estate del 2008 i coloni presero il controllo anche della piccola fonte d’acqua chiamata Ein Al-Qaws, da sempre appartenuta alla famiglia Tamimi (tutti i 550 abitanti di Nabi Saleh sono legati da vincoli di sangue o di matrimonio e condividono lo stesso cognome, Tamimi). Questo episodio segnò un punto di non ritorno. Dovette passare più di un anno perché gli abitanti riuscissero ad organizzare la loro prima marcia, non contro il furto della fonte in sé ma contro il sistema di controllo attraverso cui Israele controlla la West Bank.

In quattro anni di lotta Nabi Saleh ha dovuto sopportare circa 500 feriti (di cui 200 minori e 70 donne) e 200 arresti (di cui 15 donne, 10 bambini con meno di 14 anni e 30 ragazzi di età compresa fra i 14 ed i 18). Due ragazzi, Rushdie e Mustafa, sono stati uccisi.

Questo venerdì il comitato ha ricordato il secondo anniversario della morte del giovane Mustafa Tamimi, ucciso a sangue freddo dalle forze d’occupazione israeliane nel 2011, mentre partecipava con i suoi compagni alla consueta marcia del venerdì. La sua morte è documentata in un video che mostra chiaramente l’accaduto: c’è un soldato per strada che lancia lacrimogeni, fino a quando non rientra nella sua jeep. Dalla stessa si apre la porta posteriore, emerge una mano che spara un ultimo lacrimogeno. La porta si chiude e la jeep va via, lasciando Mustafa steso a terra.

Il 5 Dicembre 2013, il giorno prima della manifestazione, Israele si è autoassolto, dichiarando che il soldato non poteva vedere dove sparava. Verrebbe da chiedere ad Israele se le regole d’ingaggio dei suoi soldati permettono di sparare lacrimogeni ad altezza d’uomo senza avere una corretta visuale, specialmente durante una manifestazione non violenta (la decisione segue quella presa per l’omicidio di Bassem Abu Rahme di Bili’in, documentata nel pluripremiato “5 Broken Cameras”), ma la domanda, seppur coerente, non troverebbe risposta.

A fianco degli abitanti, questo venerdì hanno marciato persone dei villaggi vicini, nonché attivisti israeliani ed internazionali, condividendo la stessa rabbia e la stessa volontà di porre fine all’occupazione sionista. La marcia, partita come consuetudine dopo la preghiera di mezzogiorno dal centro del villaggio, è passata davanti casa di Ekhlas, la madre di Mustafa, intonando i cori della resistenza palestinese. Durante la marcia la foto di Mustafa è stata deposta nel punto dove il giovane è stato ucciso, ad indicare la costante azione del suo popolo per il suo sacrificio. Qualche centinaia di metri più avanti sono state le donne del villaggio a fronteggiare i soldati, che numerosi attendevano la marcia sin dalle prime ore del mattino. Il corteo è stato attaccato con lacrimogeni, bombe sonore e proiettili rivestiti in gomma, senza dare rilevanza al gran numero di bambini che partecipavano alla marcia.

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Il movimento ha inoltre espresso profondo cordoglio per la morte del combattente per la libertà Nelson Mandela, considerato padre della resistenza palestinese, e lo ha ricordato nella sua lotta contro le ingiustizie, definendo la perdita di Mandela una grave perdita per l’umanità nel suo difficile cammino che ancora l’attende verso la libertà.

The Third Intifada will be global

Il 7 Dicembre gli abitanti di Nabi Saleh, insieme al Coordinamento dei Comitati di Resistenza Popolare (PSCC) e agli attivisti israeliani hanno organizzato un grande evento con una forte valenza simbolica. Il 7 Dicembre è, infatti, la data che segnò l’inizio della Prima Intifada nell’ormai lontano 1987, nonché la prima manifestazione popolare del villaggio di Nabi Saleh.

L’evento è stato dedicato alla memoria di Rushdie e Mustafa. Dal palco allestito al centro del villaggio, nella Martyr’s square, dopo l’intervento di Ekhlas, la madre di Mustafa, sono intervenuti, oltre ad i membri del PSCC ed agli attivisti israeliani, i rappresentanti dei drusi in Israele, che hanno ricordato l’incarcerazione ad inizio settimana di Omar Sa’ad, rifiutatosi di prestare il servizio di leva obbligatorio. Hanno preso parola, inoltre, esponenti della lotta contro il Prawer Plan e Muhammad Barakeh segretario generale di Hadash (il partito socialista israeliano che unisce ebrei e arabi palestinesi e che siede nella Knesset). Nessuna bandiera di partito era presente nella piazza, soltanto la gigantografia dei due ragazzi uccisi. La partenza del corteo è stata preceduta dalla , danza tradizionale palestinese, eseguita dai bambini del villaggio. Insomma, un evento che ha tenuto insieme tante anime, unite dalla resistenza popolare.

Dietro all’evento sta la volontà del PSCC di realizzare, a partire da questa data, eventi simili un sabato al mese in ogni villaggio coinvolto nelle settimanali manifestazioni del venerdì. Lo scopo è far sentire gli abitanti meno soli nella dura lotta, con la consapevolezza di essere l’unica resistenza attiva nella West Bank, anche se limitata a pochi villaggi, e che desistere oggi dalla lotta comporterebbe l’accettazione definitiva dell’occupazione. Questo è infatti il periodo peggiore che gli abitanti dei villaggi si ritrovano a vivere: i sacrifici compiuti in questi anni sono stati enormi e la tentazione di abbandonare tutto per rifugiarsi nella vicina e più sicura Ramallah è forte. Inoltre, le condizioni di vita sono molto peggiorate dallo scoppio della Prima Intifada: check point, raid notturni, il sistema dei permessi, le prigioni, hanno provocato quotidianamente più umiliazioni di quante ogni uomo possa sopportare.

Tutti, almeno 300 persone, si sono dunque mossi in corteo, ma appena partito questo è stato subito attaccato dall’esercito con un fitto lancio di lacrimogeni. La marcia si è subito riorganizzata e pacificamente è avanzata fino al gate posto davanti alla torretta militare sulla strada. Qui c’è stato un primo confronto corpo a corpo con i soldati, che intimando di arretrare, avevano esposto un’ordinanza militare con cui si dichiarava “area militare chiusa” il territorio del villaggio per l’intera giornata . Ci sono stati 3 fermi, tra cui quello di Bilal Tamimi, che in ogni manifestazione si occupa delle riprese video, indossando un gilet verde fluorescente. I 3 sono stati rilasciati dopo poco.

Gli shebab, i giovani palestinesi, sono invece passati per i campi ai lati della collina ed incuranti dei lacrimogeni sparati massicciamente e dei proiettili rivestiti di gomma, hanno ingaggiato un duro confronto con l’esercito che è durato fino al tramonto.

In questo costante confronto le pietre non hanno tanto il valore di arma, raramente riescono a ferire i soldati, ma assumono una forte valenza simbolica: sono il simbolo della lotta palestinese, sono una sfida, un rifiuto di sottomettersi all’occupazione indipendentemente dalle probabilità di successo. Anche i soldati simboleggiano qualcosa con le loro armi: lo strapotere economico e tecnologico dello Stato sionista.

I Comitati respingono fermamente ogni questione morale sulla violenza. La resistenza popolare e non violenta è per loro è una scelta strategica, che non lascia la decisione politica a pochi gruppi armati che durante la Seconda Intifada hanno portato la causa palestinese sull’orlo della catastrofe. Secondo Bassem Tamimi, uno dei più importanti leader della causa palestinese non solo a Nabi Saleh, il diritto di resistenza dei palestinesi è assoluto ed inalienabile. Egli è fermamente convinto che una terza Intifada possa dilagare ed attraverso i Comitati vuole offrire un modello per l’agire della sua gente.

Il primo ferito oggi è stato Oday Tamimi, il fratello di Mustafa, a cui un proiettile rivestito in gomma ha rotto la mascella. Il giovane è stato subito portato in ospedale per essere operato. Il confronto ha visto gli shebab correre su ogni lato della collina, spinti sempre più lontani dai proiettili e dal vento carico di gas. Poco prima del tramonto, dopo ore di confronto l’ultimo assalto dell’esercito, partito dagli ulivi sopra il villaggio, arrivava fin dentro le case, intossicando tutti, donne e bambini compresi. Numerosi a fine giornata i ragazzi lievemente feriti dai rubber-coated bullet e molti di più quelli intossicati.

L’evento odierno ha ricordato non solo a parole la sollevazione del 1987. È stata una grande giornata di lotta portata avanti con le stesse armi di allora: le pietre, le barricate, la determinazione, la solidarietà e l’autorganizzazione popolare all’interno dei Comitati, i quali ancora oggi ci ricordano che “our destiny is to rexist”.

*attivista Sci italia