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Paesaggi s-valutati: una controriforma sul territorio

Quando “valorizzare” i beni culturali significa solo metterli a profitto : il progetto di legge che trasformerà il Mibact.

Autonomie speciali per alcuni musei e aree archeologiche di interesse nazionale, un percorso pedonale per collegare l’aeroporto di Fiumicino con il Porto di Traiano, la possibilità per i sindaci di ricorrere contro il parere di una soprintendenza per sbloccare una grande opera urbana e la fusione tra archeologia, belle arti e paesaggio in un unico ente con un’evidente riduzione delle competenze: queste le manovre principali contenute nella drastica quanto repentina riforma del Mibact.

Più che una riforma sembra a tutti gli effetti una controriforma che ricostruisce antiche prassi affidandosi a modelli del passato, come la dipendenza funzionale delle soprintendenze dall’autorità prefettizia (una legge del 1860) o il silenzio assenso (legge Madia), per cui, se entro 90 giorni la soprintendenza incaricata non dà risposta, il vincolo paesaggistico cade immediatamente, e giù via con piscine e sale da ballo sulla Via Appia Antica. Anche il paesaggio e i beni culturali vanno così gestiti da potere poliziesco e palazzinari, in pieno stile dei tempi.

Questa “riforma” segue una linea di tendenza iniziata qualche decennio fa e volta al completo smantellamento del sistema di tutela e di conservazione. Negli ultimi quindici anni si sono infatti susseguite cinque riforme, in pratica chiunque passasse per quel dicastero (alcuni proprio per caso) cambiava qualcosa e passava la scure sui conti del ministero. Parliamo, nell’ordine, di Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009), tutti statisti di chiara fama ovviamente, a dimostrazione di quanto stia a cuore la cultura in questo paese. È facile dunque immaginare quale possa essere l’attuale stato di salute degli organi addetti alla gestione dei beni culturali: al caos e al definanziamento si devono aggiungere un innato e pachidermico sistema burocratico, lo scarso numero di funzionari, la cui maggior parte è quasi ormai arrivata all’età della pensione, una completa mancanza di ricerca e innovazione nel campo della promozione e della narrazione dei beni archeologici e storico-artistici, dovuto al progressivo e parallelo definanziamento del comparto universitario, e infine una politica (di cui questa controriforma è l’ultima ciliegina sulla torta) che negli ultimi vent’anni ha promosso la valorizzazione dei territori e dei siti “sensibili”, a scapito della conservazione dei paesaggi.

Se è vero che in passato si è ecceduto con la riduzione dei monumenti isolati a vuoti simulacri della storia passata e dunque gli studiosi più avveduti preferiscono parlare di tutela più che di conservazione, è altrettanto evidente che in paesi ad alta complessità paesaggistica e culturale non si possa e non si debba solo pensare a fare cassa

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A tal proposito appaiono chiare le dichiarazioni del Ministro che definisce la riforma: «Un’importante e necessaria riorganizzazione che supera la contrapposizione ideologica tra tutela e valorizzazione e permette di investire nel settore della cultura e del turismo come fattore trainante della ripresa economica del paese». Su questo Franceschini ha ragione: la contrapposizione si è davvero rotta, perché la tutela è stata completamente eliminata dai fini programmatici del ministero. Il ministro dovrebbe però sapere che, come ci ricorda Settis, uno dei pochi accademici che ha preso parola su questo scempio, la parola valorizzazione è un termine relativamente nuovo nel dibattito sui beni culturali, comparso quando il paradigma comune si è unicamente concentrato sul profitto economico. In sostanza, dunque, l’intera gestione di enti e soprintendenze si focalizzerà in modo definitivo solo sul fare cassa, sullo spremere più denaro possibile da pochi siti ad alta densità turistica, abbandonando di fatto la gestione dei luoghi meno conosciuti. Si verrà così a creare una frattura difficilmente sanabile fra luoghi di serie A e di serie B. Prendiamo l’esempio emblematico dell’area archeologica romana: se prima Colosseo, Foro e Palatino (il solo Colosseo è il secondo monumento più visitato subito dopo la muraglia cinese) redistribuivano gli introiti anche a siti e musei meno fortunati, ma di pari valore storico-culturale, oggi l’autonomia imposta a quest’area fa sì che il Colosseo faccia cassa solo per sé: solo se fai profitto conti, se invece resti indietro nel mercato del turismo di massa sei destinato a morire.

Del resto anche la decisione di staccare i musei dalla gestione delle Soprintendenze ha come unico obiettivo creare grandi hub per turisti sprovveduti che a osservare preferiscono fotografare e che soprattutto non devono comprendere il valore storico delle opere che vedono, ma solo spendere e consumare. Peccato che la maggior parte dei musei (archeologici, per lo meno) siano vecchi, mal organizzati e poco fruibili da un pubblico medio, cosa che decreterà la loro morte, o al massimo una nuova vita come centri-congressi. Questa Controriforma sancirà purtroppo l’irreparabile perdita di molti luoghi, testimonianze del composito panorama culturale italiano, andando tra l’altro contro le direttive della Commissione europea che sostengono la promozione dei beni culturali come mezzo per la partecipazione e la condivisione sociale.

Unendo insieme i comparti di tutela del paesaggio (archeologico, architettonico, storico-artistico e paesaggistico) di fatto si diminuiscono le capacità di intervento degli addetti ai lavori per confusione delle competenze. A questa situazione di totale sconforto, si deve aggiungere il silenzio assoluto che ha accompagnato la riforma. Pochissimi gli studiosi che hanno preso posizione, mentre i funzionari pubblici sono stati ridotti al silenzio tramite una circolare che impone loro di non commentare i provvedimenti riformatori, per non parlare dei giovani lavoratori del comparto ai quali (a parte un concorso da 500 funzionari che suona come semplice palliativo) vengono solo offerti bandi di volontariato, di lavoro gratuito. Sembra così regnare sovrana la consueta retorica renziana per cui chiunque si opponga alle riforme è un conservatore, uno snob che non ama il futuro. È stato però già detto non c’è niente che vada più indietro di questa riforma.

In un’intervista a un quotidiano nazionale Franceschini, conoscendolo male, ci fa intendere che Ranuccio Bianchi Bandinelli, da grande riformatore qual era, non avrebbe avuto problemi con queste nuove regole: peccato che quasi 50 anni fa l’archeologo senese si lamentasse della mancanza di organico e di archeologi professionisti nelle sovrintendenze, ricordando che la complessità paesaggistica dell’Italia era un bene unico e prezioso e come tale andava difesa e tutelata, che il lavoro delle soprintendenze doveva camminare di pari passo con quello della ricerca in un connubio virtuoso (bisogna dire mai realizzato, per colpa di entrambi). Qualche decennio fa sulle pagine dei Quaderni di archeologia, rivista fondata da Bianchi Bandinelli, un gruppo di giovani archeologi (oggi vecchi e molto meno avveduti, purtroppo) scriveva che non poteva esistere tutela e conservazione che non avesse come mezzo primario la condivisione e la gestione collettiva dei luoghi e dei paesaggi culturali. Ancora oggi questa è l’unica scelta da sposare, ne è esempio virtuoso il parco della Caffarella nato soltanto grazie allo sforzo della società civile e degli abitanti del quartiere autorganizzatisi in comitato per il parco. Alla miseria e al buio della valorizzazione dei beni culturali solo per fini economici e turistici l’unica risposta risiede nella partecipazione delle persone e nella gestione collettiva. Solo i luoghi così riempiti e attraversati riusciranno dal basso a difendere in maniera strenua questo ennesimo attacco ai paesaggi storico-culturali italiani.