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Non “M.”, ma i processi politici e istituzionali del fascismo nel suo primo decennio

Nell’ultimo libro di Frosini una selezione ragionata di discorsi e scritti mussoliniani fra il 1921 e il 1932, filologicamente curata, che li sottrae all’uso apologetico e li usa per individuare una via reazionaria alla modernizzazione

L’introduzione di questa insolita antologia mussoliniana curata da Fabio Frosini (La costruzione dello Stato nuovo, Marsilio, pp. 525, euro 25) prende le mosse da una revisione dei giudizi che in tempi diversi (per non parlare dell’aperta indulgenza prima del 1924) Benedetto Croce diede del fascismo, sempre apprezzandone la funzione di argine alla crisi di autorità e alle pulsioni sovversive del primo dopoguerra e soprattutto al comunismo, inteso come giacobinismo rozzo e irriducibile a qualsiasi assimilazione al liberalismo, come pure sarebbe stato possibile a quell’imitazione canagliesca che ne fu il fascismo nostrano.

Posizione non dissimile, con le ovvie cautele post-belliche (cfr. I testi del 1945) da quella assunta negli anni ’30, quando futurismo, razionalismo astratto, bolscevismo e fascismo erano stati ricondotti a un’unica istanza antistoricistica semplificatrice, ostile al divenire e che nell’ambiente culturale mistico e autocratico dell’Oriente non si sarebbero mai diluiti in una ripresa liberale, come con il tempo avrebbe potuto capitare ai suoi gemelli occidentali. Ancora nel 1932, decennale della marcia su Roma, «Croce distingue, con accuratezza, il fascismo italiano dal bolscevismo, ricordando che una parentela tra fascismo e liberalismo sussiste comunque», auspicando una “normalizzazione”.

I giudizi più drastici del 1945 tradiscono non un grado più intenso di antifascismo, ma paradossalmente una maggiore preoccupazione per il successo mondiale del comunismo nel costruire direttamente o per contraccolpo una società massificata.

A queste oscillazioni Frosini (p. 26) contrappone una lettura assai più radicale del ruolo storico del fascismo anche prima della generale svolta comune alle dittature europee e al New Deal rooseveltiano dopo il crollo del 1929: «Se infatti lo squadrismo aveva avuto (verso l’esterno) la funzione predominante di difesa armata dello Stato borghese e di ristabilimento dell’ordine mediante l’uso della forza, tutto ciò non era andato disgiunto, al più tardi dal 1921, da un’intensa attività di organizzazione sindacale, prima nelle campagne e poi, gradualmente, nelle fabbriche. Ciò comportò non più il solo mantenimento dell’ordine, ma anche la ricerca di come fosse possibile produrre un nuovo ordine; non più il solo uso della forza, ma anche la ricerca del consenso delle masse lavoratrici.

Questo doppio lato fu colto da Gramsci nei Quaderni del carcere. Egli nota infatti (Q, I, § 43) che il regime corporativo ha avuto origini di polizia economica, non di rivoluzione economica». Polizei in senso cameralistico e hegeliano, regolamentazione economica più ancora che tutela dell’ordine pubblico, così che il corporativismo ambisce a funzionare, meglio del vecchio sindacalismo, «da strumento di unità morale e politica». Più tardi Gramsci parlerà esplicitamente di “sindacalismo di stato”, essendo il corporativismo fu in effetti sia un progetto di ristrutturazione di tutti i poteri economici e politici, sia un apparato burocratico centralizzatore che negli anni si fece sempre più complesso, sia infine un modo per organizzare la relazione tra capitale e lavoro (Frosini, p. 26). Un’ambiguità (e in parte un autentico pluralismo di interpretazioni) che divenne, a sua volta, uno strumento per ampliare i margini del consenso.

Adottando questo profilo interpretativo, Frosini fa del il corporativismo un termine che, nella polivalenza dei suoi significati, tiene insieme livelli molteplici, da quello economico-produttivo a quello del modello di Stato, comprese la cultura e l’arte.

Ciò vale in modo diverso nelle differenti fasi attraversate dal regime, dagli anni di formazione al consolidamento nel triennio 1927-1929, alla risposta alla crisi del 1929: «Resta però vero che, nelle oscillazioni, latenze e riemersioni, il punto agglutinante del progetto fascista sta nell’obiettivo di collegare il ristabilimento dell’ordine alla costruzione di un nuovo tipo di ordine: un ordine non rivolto al passato ma capace di interpretare le esigenze e i conflitti tipici del XX secolo, di risolvere i problemi scaturiti dalla grande guerra e dall’immenso spostamento delle masse verso la sindacalizzazione e la partecipazione alla vita politica» (p. 28). Come retrospettivamente osserverà nel 1931 Margherita Sarfatti, la spinta alla razionalizzazione e l’organizzazione consortile della fase “fordista” del fascismo sorse dalla sindacalizzazione coatta delle masse. Numero e massa sono le uniche forme possibili di vita sociale delle masse e il fascismo l’interpreta benissimo, fornendo per di più un supplemento retorico di individualismo “spirituale” (e, beninteso, il culto del Capo).

Il nesso fra masse novecentesche e nazione, già presente in tutta la fase interventista pre-bellica, si rafforza con l’appello all’aristocrazia del valore sperimentata nelle trincee. Nel prisma della guerra Mussolini coglie subito il formarsi di una democrazia di massa non-rappresentativa. Fin dal discorso del teatro Augusteo dell’8 novembre 1921 gli aveva insistito da un lato sul nesso tra nazione e Stato, dall’altro sullo Stato come comunità fusionale («lo Stato siamo noi»). Ripristino dell’autorità dello Stato (i prefetti) e di un partito centralizzato a salda guida mussoliniana, senza ras. Sullo sfondo il tema, che poi resterà irrisolto fino al crollo bellico, alla dissociazione dalla Monarchia e alla Rsi, del rapporto dicotomico regime-movimento, anche se negli anni del consenso prevalse la linea del primato dello Stato, ovvero dell’iscrizione della politica totalitaria nelle regie strutture statali.

La politicizzazione estrema di tutte le sfere della vita pubblica e privata avrebbe dovuto compensare psicologicamente questa scelta istituzionale – ma ciò spesso restò a livello di retorica e di intenzioni più o meno goffe.

Le contraddizioni interne del fascismo, che ovviamente cresceranno con l’accesso al potere e il decennio di consolidamento, saranno oggetto di una riflessione originale in un articolo di pochi giorni dopo sul “Popolo d’Italia”, riferito a un saggio di Adriano Tilgher, in cui Mussolini teorizza l’incoerenza strategica e ideologica con un elogio del relativismo “per intuizione”, inteso come rifiuto di una scienza astratta di stampo positivistico e ispirato al primato dell’attivismo contro ogni ideologia storicistica: Nietzsche, Bergson e il mito sorelliano sono i numi tutelati del nuovo stile politico. Argomentazioni sbrigative, ma ancora indipendenti dall’assunzione ufficiale dell’attualismo gentiliano.

Passata la crisi Matteotti del 1924 e avviata la stabilizzazione del regime nel 1925-1926 Mussolini considera la rivoluzione fascista ormai irreversibile e cerca di definirne in positivo i tratti strutturali. Frosini, abbastanza indifferente agli elementi pittoreschi e auto-ipnotici del regime, cerca piuttosto di cogliervi un progetto di modernizzazione autoritaria che ha i suoi cardini nella nazionalizzazione delle masse e nel controllo disciplinare e medico-demografico della popolazione mediante un combinato di previdenza e provvidenza e di una gestione delle idee e dei corpi, addirittura del tempo e dei suoi rischi intrinseci. Siamo sulla linea della creazione di un “uomo nuovo” che accompagna, con maggiore o minore efficienza, tutta la pianificazione degli anni ‘30 – dal New Deal ai governi totalitari dell’Europa centrale all’esperienza staliniana.

I momenti più significativi di tale tendenza sono rintracciati nel “discorso dell’Ascensione” (26 maggio 1927), un punto di svolta nella definizione del progetto di uno Stato fascista, cioè di un «regime totalitario», come viene qui definito, passando per una politica demografica pro-vita, ruralista e tendenzialmente eugenetica, per un potenziamento della polizia intesa anche quale ordine morale e “igiene sociale” per salvaguardare, come fa la medicina preventiva con le malattie, il corpo sano della Nazione. Nel discorso al terzo congresso del sindacato dei medici fascisti (22 novembre 1931, cfr. pp. 468 ss.) l’indirizzo biopolitico è esplicito, non solo nel raffronto fra medico e sacerdote, terapeuti del corpo e dell’anima, ma nell’impostazione olistico-preventiva più che “repressiva” a posteriori, che copre tutto lo spazio fra la bonifica integrale, l’incremento della natalità, la riduzione della mortalità infantile e la lotta contro gli eccessi del dimagrimento – un programma di efficienza eugenetica e igienica sintonico a quello di Ford negli Usa, con la singolare e sintomatica analogia fra totalitarismo del corpo e totalitarismo dello Stato fascista (p. 473).

In generale la modernizzazione coincide con la soppressione dell’individualismo liberale e il disciplinamento delle masse immesse nello Stato, previo riconoscimento di alcuni loro bisogni (non diritti). Il trinomio che lo contrassegna (autorità ordine giustizia) è «il risultato fatale della civiltà contemporanea, dominata dal lavoro e dalla macchina» (discorso all’assemblea nazionale del Pnf, 14 settembre 1929, p. 429) – versione produttivistica del sogno futurista.

La liquidazione di un’opposizione, ormai superfluo relitto della defunta democrazia parlamentare, e audacemente concepita quale momento di democrazia sostanziale – oggi diremmo di “democrazia illiberale” – il cui tratto emergente è l’inquadramento subalterno delle masse nello Stato, che ora non possono più assaltare dall’esterno. Riferimenti decisivi antecedenti (e qui ricapitolati) sono il discorso di Perugia (6 ottobre 1926), in cui si afferma che «se mai vi fu nella storia un regime di democrazia, cioè uno stato di popolo, è il nostro […] non una democrazia rinunciataria e vile e condiscendente agli istinti meno nobili delle masse», e ancor più la lapidaria definizione del discorso alla Scala del 28 ottobre 1925: «tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato». «Non so nemmeno pensare nel secolo XX un individuo che possa vivere fuori dello Stato; se non allo stato di barbarie, allo stato selvaggio» (p. 344). Al XIX secolo dell’individualismo liberale è succeduto il XX, quello «”collettivo” e quindi il secolo della Stato» (p. 490). Anche il Partito verrà assorbito in questa logica e diventa organo dello Stato (cfr. pp. 386 e 425); in prospettiva il Gran Consiglio (forma già costituzionalizzata di movimento) e il Consiglio di Stato saranno i due pilastri del regime (pp. 456-457).

Frosini, eminente studioso di Gramsci, ne ha seguito le orme affrontando con serietà il ruolo strutturale del fascismo, al di là dei suoi aspetti grotteschi e delle ragioni immediate di scontro frontale, ma teniamo conto anche del ruolo dei suoi elementi più sfacciatamente reazionari e, con l’esperienza del poi, cogliamone la sopravvivenza postuma.

Oggi i pacifisti hanno vita grama, schedati dai Riotta e Gramellini di turno, sbeffeggiati come sognatori pericolosi quando non subdoli infiltrati dai nemici dell’Occidente: ebbene, diamo i giusti meriti alla fonte della stampa mainstream e della maggioranza di governo.

Il fascismo – scrive Mussolini nella voce a questo dedicata nell’Enciclopedia italiana nel 1932 – «non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla». Non solo gloria ai martiri, ecc., ma (dedicato ai Letta futuri) un netto distanziamento dal basso materialismo di chi si oppone alla guerra per ragioni di bollette, energia e costo della vita: «Una siffatta concezione della vita porta il fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta d’interessi fra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione». Fattori reali ma non esaustivi: «il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce» (pp. 483-485). E, detto in soldoni a uso comiziale e oggi televisivo: «Nessuno è nemico peggiore della pace di colui che fa di professione il panciafichista od il pacefondaio» (p. 511). Riconosciamo i meriti genealogici…

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