Non esiste una cosa chiamata individuo

Rovesciando un aforisma di Iron Lady, dichiarare guerra ai proprietari.

Forse nulla, meglio degli aforismi di Margaret Thatcher, esemplifica la violenza ideologica, l’offensiva padronale che, a partire dai primi anni ’80, ci ha portato fin dove ci troviamo oggi. Sì, Iron Lady è stata la voce e la protagonista politica più ostinata dell’efferata risposta capitalistica ai tumulti degli anni ’60 e ’70. Aforismi, nella loro semplicità (ma la semplificazione era ed è arma di battaglia), perché carichi di istanze etiche, non solo di indicazioni politiche legate alla contingenza.

Parto dal più famoso: «non esiste una cosa chiamata società: esistono solo individui». E gli individui, si sa, sono proprietari e produttori, ma soprattutto proprietari. Siamo all’origine della scossa neoliberale che dal Regno Unito agli US di Reagan invade il mondo, ha la fortuna di incontrare la compiacenza, la corruzione e la debolezza delle forze politiche socialdemocratiche e laburiste (da Mitterand a Blair e ai suoi epigoni italici), rade al suolo il muro di Berlino e compete, combinandosi a volte, con quell’Ordoliberalismo che in Germania ha fatto nido fin dal 1948. La guerra alla società in nome dell’individuo/shareholder è innanzitutto guerra di classe: la società da negare è quella che si organizza collettivamente e sciopera, impone la riduzione dell’orario di lavoro, respinge le mansioni ripetitive, conquista il tempo libero e fa del salario una variabile indipendente. Non è casuale che, dopo aver steso le Falkland e riacciuffato, grazie alla shockterapia bellica, tanto del consenso perduto nei primi tre anni di governo (’79-’82), la Thatcher definisca i minatori in sciopero «nemici interni e pericolo per la libertà».

Liberi dunque sono i proprietari e solo loro, liberi perché sciolti da ogni legame sociale, concorrenti nella libertà (dalle regole ovvero dalle rigidità imposte dalle lotte proletarie). Guardiamo, materialisticamente, agli smottamenti che stavano investendo il mondo: liberalizzazione dei tassi di cambio (a partire da Nixon, 1971) e dei tassi di interesse (a partire da Volcker presidente della Fed, 1979); espansione smisurata dei mercati finanziari (che a Londra significa boom della City); esternalizzazione della manifattura e progressiva deindustrializzazione dell’Occidente; distruzione dei sindacati e precarizzazione selvaggia del mercato del lavoro. Margaret Thatcher condensa in poche battute il cambio d’epoca: «l’eguaglianza è un miraggio»; ancora, «le opportunità non significano niente se non includono il diritto di essere disuguali e la libertà di essere diversi». Allora la libertà, che è libertà dei proprietari, è possibile solo nella disuguaglianza tra ricchi e poveri: il nocciolo duro, sanguinario nella sua sincerità, delle formule algide che oggi ci presenta il gergo dei tecnici.

Due ideologie ben si sono combinate con la guerra neoliberale: il pensiero debole (o molle), che, nel far fuori il soggetto della Modernità, non ha smesso di proporre un carnevale delle differenze senza rapporti di produzione, e dunque senza conflitto di classe; le neuroscienze, che hanno fatto dell’individuo con il suo corredo di istinti (in primo luogo il linguaggio e la sua grammatica generativa) il centro assoluto della scena, rincorrendo, un gene dopo l’altro, la causa naturale di ogni contingenza storico-sociale. La Thatcher semplificava, è vero, ma semplificando lasciava i morti sul campo, perché la semplificazione, come dicevamo, la stessa che ha reso la Storia, nelle scuole medie-superiori inglesi, materia facoltativa, è diventata un’arma spietata.

Con la morte di Iron Lady diventa sensato tornare a riflettere sulla macchina di morte neoliberale. A maggior ragione oggi che quella macchina di morte, nonostante la crisi economica che ha imposto al mondo tutto a partire dal 2007, continua ad agire senza freno. Peggio, se negli anni ’80 e ’90 si accompagnava con l’utopia del «capitale umano» e dell’autoimprenditorialità, nella catastrofe in cui siamo immersi il dispositivo neoliberale ha riconquistato, materialmente e nel lessico, la violenza dell’«accumulazione originaria». Non c’è rinnovato keynesismo che riesca a tenere a bada la durezza della guerra capitalistica contro la società, la cooperazione intelligente, le forze produttive. Nell’Europa Ordoliberale, in particolare nei PIIGS, questa guerra è quotidianamente sotto i nostri occhi, affligge le nostre vite precarie, tra una sottoretribuzione e l’altra, nella paura di non arrivare a fine mese, nell’orrore della disoccupazione.

Torno all’inizio, rovesciando l’aforisma thatcheriano: non esiste una cosa chiamata individuo. Occuparsi seriamente, da materialisti, dell’ontogenesi significa cogliere che siamo innanzi tutto sociali, da subito immersi in una fitta trama di relazioni affettive e di cura senza le quali non sopravviveremmo. Ciò che conta, ma davvero ciò che solo conta, è il comune, la dimensione preindividuale, emotiva e linguistica, all’interno della quale l’individuo, come emergenza temporanea e sempre cangiante, di volta in volta fa la sua comparsa. Il nostro è un pensiero verbale, la lingua storico-naturale che lo organizza viene da fuori, non è frutto di una nostra geniale invenzione. I nostri affetti sono delle modificazioni, transizioni intensive, testimoniano che le relazioni ci precedono, ci costituiscono. E il comune sono le forme di cooperazione sociale, storicamente determinate, che rendono possibili la riproduzione della nostra vita. Non esiste l’individuo, esistono concatenamenti collettivi e variazioni singolari.

La proprietà capitalistica, in questo senso, è un furto, è sempre distruzione del comune, comando parassitario della cooperazione produttiva, oggi resa intelligente dalle macchine linguistiche. Comando che, all’apice della crisi globale, si esprime ed esercita la sua forza sempre più attraverso la finanza e l’indebitamento, meglio, attraverso la potenza di fuoco della rendita, ridefinisce le misure dello sfruttamento, rinnova la povertà e la disuguaglianza. La guerra che, nella catastrofe, il capitale ha sferrato contro i poveri sarà ancora molto lunga e sanguinaria. Resistere alla guerra di classe significa in primo luogo riconquistare il comune, come premessa e posta in palio della prassi, contro l’individuo, il merito, la competizione, la disuguaglianza. La potenza dei poveri è la loro comune capacità di produrre il mondo nella cooperazione, nell’uso libero dei saperi, degli spazi e delle opere, nell’uguaglianza.

I movimenti che si stanno battendo contro la barbarie neoliberale hanno messo al centro della loro prassi il comune, nella riappropriazione della città e dei saperi, ora si tratta di strappare verso il basso la ricchezza. Esercizio del comune vuol dire offensiva precaria contro lo sfruttamento e per il reddito sociale.