Non basta una “rivoluzione civile” per fare un paese democratico (anche se aiuta)

Crisi della rappresentanza, democrazia bloccata e l’orizzonte del cambiamento.

Non si può certo dire che la situazione sia eccellente. Eppure la confusione regna più che sovrana ormai da diverso tempo. Quindi se dire “che fare?” è quantomeno ambizioso, trovare almeno una bussola potrebbe aiutarci nel dibattito in corso sulla costruzione di una forma nuova di rappresentanza parlamentare alimentato dalle varie iniziative di Alba prima, di “Cambiare si può” dopo e della Lista Ingroia ora. Un percorso complicato come avviene sempre quando il nuovo prova a nascere dal vecchio, ma nondimeno un percorso necessario, di cui ormai è intrisa la società italiana e che prima o poi finirà per democratizzare le forme istituzionali nonostante gli stop and go a cui è sottoposto. Dirlo significa innanzitutto riconoscere valore di tendenza – e quindi di appartenenza oltre le piccole identità – ad un processo di natura continentale in cui ormai si riconosce gran parte della ex sinistra sociale e radicale.

D’altro canto è pur vero che, come spesso accade, in assenza di un elemento catalizzatore della pressione sociale e della sensibilità culturale che si vanno accumulando, i tempi di questa tendenza potrebbero diradarsi in una ricerca lunga e defaticante. Così come i passaggi cruciali che avvengono possono dare a questa necessità caratteri diversi fino a snaturarne del tutto la natura. Ma questo non significa che l’obiettivo è sbagliato, solo che i tempi di questa necessità non sono quelli che immaginiamo noi.

Questo per dire che quello che veramente stona negli approdi ultimi di questa vicenda, cioè nella costituzione della neo-sinistrarcobaleno “rivoluzione civile”, non è tanto che qualcuno è riuscito a sovrapporre la sua esperienza politica a questo processo, ma che altri potevano solo immaginare che non ciò non avvenisse. La realtà dello schieramento sociale e politico d’opposizione del nostro paese è talmente intriso di elementi della vecchia politica da costituire un blocco culturale non indifferente a un reale rinnovamento. Tutto il paese è in questa condizione di mezzo, non più seconda repubblica non ancora altro. E questo perché ancora nulla di serio è intervenuto ad interrompere questo perverso meccanismo: non una mobilitazione generale della società in grado di far rinascere una nuova cultura di opposizione, né uno spiazzamento politico derivante da una proposta in grado di imprimere un rivoluzionamento culturale.

Per questo i nostri sforzi migliori producono eventi politicamente insignificanti sul piano generale, operazioni di piccolo cabotaggio che lasciano il tempo che trovano. Eppure tutto sembra dire che il tempo giusto è questo, che si stanno addensando tutte le condizioni per tentare ora un salto di maturità politica. Che una nuova dimensione democratica è ormai necessaria affinché una nuova dimensione sociale possa dilagare nell’Europa della Banca Centrale. E quindi convincere lo schieramento sociale eccedente al Pd-Sel ad intraprendere una strada diversa dalla ricerca continua della mediazione possibile. Gli uomini e le donne della Fiom soprattutto dovrebbero raccogliere il testimone di questa battaglia piuttosto che aspettare che si diano tutte le condizioni per un cambio di prospettiva. E’ la stessa dimensione dell’attuale battaglia sindacale che dovrebbe consigliare di rafforzare il fronte di opposizione piuttosto che logorare le forze in una infinita guerra di trincea. Di questo ci parlano le vicende di questi giorni e la battuta d’arresto dell’ennesima catarsi palingenetica dalla quale avrebbe dovuto nascere un nuovo risorgimento. Non tutte le forze di opposizione hanno il peso politico necessario per parlare alla società, non tutte le realtà politiche e sociali sono uguali.

In questi lunghi anni a cavallo del berlusconismo non si contano più i tentativi fatti sul fronte del rinnovamento. Due per tutti – la nascita del Partito della Rifondazione Comunista nel 1991 e il Genoa Social Forum nel 2001 – ci danno l’idea di quanto a fondo si è scavato e delle condizioni in cui si è svolto questo scontro. Ma anche del peso relativo di quello che è rimasto.

L’Italia che è stata il laboratorio politico d’Europa, è il paese che ha dovuto fare i conti con la peggiore restaurazione conservatrice del continente. Il ventennio berlusconiano ha dato anima e corpo ad una vendetta sociale e civile dalle proporzioni immani. Una guerra che ha decimato anche quelle residue forze che con coraggio fuori dal comune hanno continuato a resistere dopo Genova. Magari sbagliando ma comunque provando a rimettere in piedi uno straccio di opposizione sociale e politica dignitosa nel mare magnum del “si salvi chi può” della sinistra storica. Oggi di quella energia creatrice resta in generale un pallido ricordo, ma quello che c’è sarebbe ancora sufficiente per rifondare una speranza sociale a patto che qualcuno la raccolga.

C’è innanzitutto una estesa critica sociale alla casta parlamentare che ha assunto la forma di un movimento di opinione piccolo borghese (almeno così l’avremmo definito una volta), legalista e giustizialista di derivazione anglosassone, o più semplicemente la risposta popolare alla deriva criminale della seconda repubblica. Una sorta di neo-peronismo nostrano dai tratti pericolosi che però – ad oggi – ha il merito di aver tradotto in elementi positivi di critica sociale quelli che sono stati gli elementi di autobiografia di una nazione che per decenni hanno impedito lo sviluppo di una società civile degna di questo nome. Questo fenomeno sociale è la vera rivoluzione civile che sta avvenendo in Italia, anche se resta ontologicamente un movimento senza unghie, politicamente senza mordente. A cui tutti fanno la corte perché ne hanno percepito l’estensione sociale insieme alla fragile e mutevole costituzione. E’ il prodotto sociale dei “girotondini”, del movimento viola, delle adunate a difesa della costituzione e dei magistrati “difensori della repubblica”. Un movimento che sulla legalità ha fondato i suoi presupposti fondamentali e per questa strada è arrivata ad abbracciare una critica al sistema di sviluppo basata sulla decrescita e l’armonia universale.

Poi c’è una relativamente estesa critica politica al sistema di sviluppo, costituita dalla forza residuale della sinistra radicale estromessa dal parlamento e, soprattutto, da quel diffuso ceto politico di sinistra ostile ed estraneo da anni al sistema dei partiti che si è impegnato anima e corpo nella rifondazione culturale di una nuova idea di sinistra. In generale non sembrano mondi compatibili anzi il più delle volte appaiono addirittura alternativi gli uni agli altri, ma in realtà sono le due facce della stessa cultura di opposizione, vicini per età e per estrazione sociale oltre che per riferimenti ideologici. Sono i residui di quella relazione tra partito e intellettuali organici su cui si è fondata la sinistra storica e la cui scomparsa ha lasciato orfani gli uni e gli altri.

Ma sono anche l’espressione più radicale dell’impoverimento del ceto medio e di alcune corporazioni professionali. Intellettuali, sociologi, giornalisti, scrittori, professori, opinion makers schiacciati e messi agli angoli dalla vendetta civile della repubblica. La parte migliore dell’intellettualità della nazione che mai si sarebbe immaginata di svolgere un ruolo politico se le vicende non l’avessero costretta. C’è dell’eroismo nella generosità con cui ciclicamente ripropongono se stessi e la loro visione romantica della politica, ma sanno loro stessi che la materia sociale con cui fanno i conti è tutt’altro che gentile e che non bastano una manciata di buone intenzioni per fare una rivoluzione sociale. Per questo rischia di restare un movimento disarmato di fronte al politicismo che come l’araba fenice risorge dietro ogni angolo nel paese del “si salvi chi può”. Ciononostante siamo di fronte alla prima insorgenza continua dell’elite intellettuale del paese, il primo solco profondo intervenuto nella classe dirigente nazionale. Un fatto che almeno politicamente non ha corrispettivi nella storia recente della restaurazione conservatrice.

Questo fenomeno è anche uno dei risultati migliori dell’unica vera insorgenza sociale rappresentata dalle lotte degli studenti universitari e medi di questi anni che hanno animato lo stupendo ciclo di lotte contro la controriforma Gelmini e il decreto Aprea. Fuori dalle contingenze politiche che ne spingono o rallentano le fasi di insorgenza sono la rappresentazione migliore ed esaustiva di un mondo nuovo che preme alle porte del sistema di sviluppo, di una linfa vitale e creatrice che riprende a scorrere nelle vene del continente e che cerca la strada verso nuovi modi di gestire l’istruzione, il sapere, la cultura, le risorse sociali, il bene comune… la vita. Sono il fiume che porta al mare, l’autostrada del nostro futuro, il cuore pulsante di un rinnovamento sociale e culturale che sta a dirci che non tutto è perduto e che in fondo al tunnel c’è ancora speranza per l’umanità del vecchio continente. Ma sono soli. In questa avventura sono ancora senza compagni di viaggio all’altezza dei kilometri da percorrere. E’ il destino delle giovani generazioni, d’accordo, ma il compito che li attende non è dei soliti e da soli non possono farcela a combattere il conservatorismo della politica “adulta” e l’ottusità di un sistema reso ancora più cattivo dalle ferite aperte. Non rischia l’autoreferenzialità, sono le condizioni di questa lotta impari a costringerlo sulla difensiva, accentuando gli elementi di indipendenza come si fa di necessità virtù. Sanno di essere una parzialità ma la debolezza delle altre parzialità, esaltando la sensazione di solitudine, li costringe ad ergere la parzialità a valore per poter resistere. Stanno dando tutto, non si arrenderanno. Dobbiamo aiutarli. Che continuino ad esserci e forti farà la differenza nel processo che si è aperto in Italia.

Gli unici che veramente li hanno sostenuti e aiutati sono stati altri due ambiti non meno importanti per estensione sociale e forza politica: il mondo dell’autorganizzazione sindacale (Cobas, Usb, Usi…) e la lotta dei metalmeccanici Fiom-Cgil di Landini. Il primo più interno ai processi sociali ma meno coinvolto in una dinamica politica di tipo classico, la seconda più interessata ad attraversare il dibattito politico per dare maggiore forza alla battaglia per la democrazia e il lavoro. La Fiom soprattutto, che è stata parte fondamentale della nascita del sindacato italiano così come della sua esperienza confederale, sembra concepire meglio di altre che siamo sul crinale di una trasformazione radicale della società italiana, da cui dipenderanno le sorti di questo paese. Ma proprio questa enorme consapevolezza e responsabilità nei confronti dei lavoratori che ne costituiscono la sua forza, al tempo stesso sembra farla camminare col freno tirato. La Fiom deve guardare a quel processo continentale di inversione di tendenza generale che solo può garantire democrazia e diritti per tutti. Quindi seppur privilegia il campo dell’interlocuzione politica e sociale per incidere più a fondo nei processi politici, ha il timore di assumere direttamente un ruolo politico per non rischiare di isolare le posizioni operaie. Eppure quando la Fiom ha messo la propria storia e organizzazione a disposizione di un processo generale tutta la società ha fatto un passo avanti. Così come è avvenuto per le altre realtà dell’autorganizzazione sindacale quando le loro storie si sono intrecciate con le vicende di altri segmenti sociali o politici. E di esempi ne ricordiamo infiniti. Queste realtà sono la prima linea dello schieramento sociale che per anni ha sostenuto lo scontro con la restaurazione conservatrice pagandone conti salatissimi e adesso sta combattendo duramente contro gli effetti delle imposizioni europee sulla dignità e i diritti del lavoro. Parliamo di mondi “lenti” per antonomasia, in cui è la fatica a dettare i ritmi alla politica e alla fiducia. Ma parliamo di mondi che sono in grado di parlare ad altri mondi come nessun altro perché parlano la lingua della dignità. La dignità umana e sociale di chi conosce le potenzialità creatrici di una produzione liberata dalle scelte di un modello di sviluppo anacronistico e onnivoro. La dignità di chi ha fatto propria l’idea che reddito di cittadinanza non vuol dire solo sussidio di disoccupazione ma un’altra idea di civiltà. La dignità infine di chi ha saputo conquistare con la lotta un ruolo politico nel campo dell’opposizione sociale al governo dei banchieri e dei Marchionne.

Infine a condividere il campo con questi mondi ci sono quelle realtà nazionali e locali dell’autorganizzazione sociale che preservano un carattere e una ambizione politica. Quella fitta rete di Comitati locali e di scopo che hanno sostenuto le battaglie e le vertenze più significative di questi anni: la No Tav, il No Dal Molin, i Centri Sociali…a volte i movimenti per il diritto all’abitare. Sono i pasdaran della coalizione sociale, quelli che in questi lunghi anni hanno mantenuto alta la necessità di nuovo modello di sviluppo quando il “si salvi chi può” sembrava l’unica via. Sono la continuità di questi anni di resistenza e di lotta senza tregua, quelli che hanno pagato e pagano tuttora con le cariche, i pestaggi, le misure cautelari e il carcere l’impegno di mantenere aperta una speranza di rinnovamento.

Ma anche questo mondo da solo non può andare lontano. Insieme a tutti gli altri può rimettersi in cammino ma c’è bisogno di coalizione. E nella coalizione di una dinamo, un evento nuovo che funga da moltiplicatore di energia e organizzatore politico.

Questo elemento, ad oggi, può essere rappresentato solo dalla forza e dalla legittimità sociale della Fiom. Domani chissà. Nel frattempo, visto che una piccola “rivoluzione civile” non farà un grande paese democratico, non resta che farci gli auguri di buon anno.

*Consiglio delle occupazioni di Action Roma