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Se tutto non è abbastanza. “Loro 1” di Paolo Sorrentino

Esce oggi nelle sale italiane “Loro 1”, la prima parte della narrazione in due puntate sulla figura di Silvio Berlusconi firmata da Paolo Sorrentino. Ma la sua anti-epica riesce a cogliere solo parzialmente l’intreccio perturbante del potere

Se è vero che il potere può essere descritto con efficacia solo in presenza di un epos, non è al cinema italiano, o per lo meno non a tutto, che possiamo affidare la nostra comprensione del suo intreccio. Senza rancori però, perché è proprio nell’assenza di un’identità nazionale forte che questo cinema ha liberato se stesso nelle infinite possibilità estetiche che da Rossellini a Sorrentino hanno innervato le sue storie, come spiega bene l’ultimo libro di Gianni Canova per i tipi della Bietti.

Et voilà, con Loro 1 da oggi nelle sale, prima parte della narrazione in due puntate sulla figura di Silvio Berlusconi, Sorrentino aggiunge un altro pezzo a questa saga da sempre anti-epica, sostituendo al teatro il “bagaglino” e alla postura politica il comportamento personale, alla cornice strategica l’opportunismo tattico. Verrebbe voglia di sospendere ogni giudizio nell’attesa della seconda parte eppure, se un film – come insegnano i manuali – ha una sua struttura, bisognerà pur trattarlo in quanto tale, aggiornando tra una ventina di giorni la riflessione.

Su tre schermi televisivi di una delle ville sarde di Silvio e Veronica scorre un quiz a premi di Mike Buongiorno, silenziato. La spettatrice è una pecora giovane bianco latte. Il rumore ambientale è quello di un condizionatore che cala di grado scandendo il tempo sul monitor. Tre gradi, due, uno, zero. End game. La bestia, dopo un primo piano, stramazza al suolo a zampe divaricate mentre il programma televisivo prosegue. Viene presentata così l’efficacia mediatica, ultimo episodio della trilogia sul potere a firma Sorrentino: Il Divo, The Young Pope, LUI – perché è così che viene chiamato – in mezzo a Loro. Se l’incipit de La grande bellezza era stato l’uomo sul Gianicolo che di fronte alla “veduta” stramazza a terra sulle note di I lie di David Lang, Loro affida alla morte di un agnello l’effetto della violenza di altre immagini. La televisione, la grande arma dei quiz show a risposta multipla, l’irrisolvibile problema del conflitto d’interesse, the medium is the message come consapevole progetto. Il caldo deleterio della città eterna cede al freddo indotto dalla macchina privata; al turista predatore con la Nikon, la vittima sacrificale simbolica. Il trait d’union è il decesso, il corpo imbalsamato, vanificato, statico.

C’è il corpo di LUI (Toni Servillo), appesantito dal trucco, fissato dalla lacca, avvolto da abiti arabi, bandane, salvagenti. È un corpo camuffato o protetto. C’è poi il corpo stanco di lei, Veronica (Elena Sofia Ricci), imprigionato o schermato dietro alla rete protettiva di un piccolo tappeto elastico dell’immenso giardino di casa. Ci sono ovviamente i corpi delle altre donne, intossicati, rifatti e “perfetti”, fieri e frustrati, usati e sfruttati. Tutti corpi scenografici però. Corpi da guardare e da giudicare. Maschere, tipi, caricature. Strumenti del potere normalizzati dalla tradizione. Lo potevamo immaginare del resto, in virtù dell’antico rito di sostituzione del nome proprio con il prototipo o l’archetipo che rende tanto diverso il cinema italiano da quello di genere d’oltre oceano, la stessa che rende difficile – per il nostro cinema – la descrizione del potere. LUI, Caimano, Belluscone, Papi, Cavaliere. Silvio solo a mezza bocca, Berlusconi mai. E Loro, “quelli che contano”, e L’oro a cui questi stessi aspirano.

Se da un lato è chiaro l’uso che viene fatto del grottesco che “muove il riso pur senza rallegrare”, che filtra, come spiegava Dürrenmatt, per non scivolare nella “cronaca”, dall’altro viene da chiedersi, facendo il verso a una battuta ricorrente nel film: tutto questo è abbastanza? Dice di no uno dei personaggi “buoni”, il calciatore illuminato (che infatti consiglia a Veronica Cecità di Saramago) nonostante gli venga offerto “tutto” in un colloquio privato nella villa.

I bei carrelli, le panoramiche in plongée, i fori imperiali deserti, i terrazzi romani in fiore, le feste orientaliste, se è vero che raccontano un ambiente, lo creano più propriamente, ma è anche vero che preparano un terreno arido su cui è difficile immaginare uno sviluppo narrativo ulteriore e all’altezza della portata del racconto che noi tutti conosciamo. È chiaro, da una scena di un’esplosione in slow-motion tipicamente sorrentiniana, forse la più bella del film, come l’ambiente che si sta componendo non sia più solo un panorama di rovine in cui uomini e donne cercano un nuovo orientamento, ma sia piuttosto ormai rovinato dalla troppa corruzione, dai rifiuti non riciclabili, dai comportamenti sciagurati. Che ne sarà di noi e dei nostri luoghi quando rifiuti umani e artefatti ricopriranno la Roma imperiale?

Sembra essere così formulata in questa scena visionaria la domanda preliminare alla seconda parte, quella – si presume – sugli scandali eclatanti del secondo periodo. Potrebbe però non esserci risposta poiché essa transita nelle sorprese del quotidiano e questo cinema scettico, come si è detto, elabora piuttosto la tradizione mettendo a fuoco il modello. Un modello di cartone tenuto insieme da un ordine maschile di tradizione secolare, da un trucco, come ha spiegato nel suo libro Ida Dominijanni, svelato dall’imprevista reazione e azione delle “loro” donne che sullo schermo pubblico proiettano finalmente il privato e nell’arena politica conducono il personale. Il modello viene così messo in crisi e non più solo criticato.

In questa prima parte siamo ancora tra il 2006 e il 2010, anni in cui proprio dietro all’immagine di ambienti scellerati, lo stupore moralistico (e basta) per i bunga bunga, si fortificavano condotte politiche ben più gravi camuffate dietro a una narrazione giornalistica a mo’ di televendita. C’è un problema di modello che coinvolge tutti – grida Sorrentino attraverso le condotte dei suoi personaggi – nonostante alcuni lo apprezzino, altri lo tollerino, altri ancora lo rifiutino. Inimmaginabile dunque una quarta via, quantomeno tra Loro.

È questa architettura del pensiero che il cinema può infiltrare, sostituendo alla bontà di alcuni la resistenza di tutti. Ma è proprio questo gesto espressivo anti didascalico che è assente in Loro 1, nonostante l’intenzione di un “auteur” di fronteggiare nuovamente l’intreccio perturbante del potere.