OPINIONI

Dove è il nemico? Fra governo dei migliori e tecnopopulismo

Il governo dei migliori è la Superlega delle élites e dei volenterosi aspiranti a essere tali, un emblema di tecnopopulismo, in cui si combinano e risultano complementari culto della competenza e appello verticale a un popolo spoliticizzato in cerca di protezione

Nemico è parola grossa. Ma stiamo usando un linguaggio pop. Mica discettiamo di hostis o inimicus, di nemico pubblico o privato, di rivale, concorrente o partner, tanto meno di odio e amore. Fuck you il nemico, comunque.

Vogliamo solo distinguere fra contraddizione principale e secondarie. Nemico è chi sta in quella principale. Nemico nella congiuntura, non roba di pancia o di rissa. Chi è allora il nemico, qui e ora?

 

È il governo dei migliori, la Superlega delle élites e degli scemi che si credono élites e le slinguazzano – servi dentro e wannabe.

 

Poi ce ne sono tanti altri, assai più spregevoli e fastidiosi, ma quello è il più pericoloso – meno appariscente, ma che occupa il campo e possiede forza reale e sopravvalutata autorevolezza. E del resto abbraccia tutti i nostri nemici secondari a vario titolo e perfino la finta opposizione di estrema destra, che resta fuori o a mezza strada solo per lucrare benefici elettorali

In regime di post-democrazia rispunta – era inevitabile – la favola platonica del governo dei competenti, solo che non sono più tali i filosofi ma gli economisti, sottospecie banchieri e manager operativi, che con Platone condividono non il genio ma solo la propensione a trafficare con i tiranni.

La spoliticizzazione e la riduzione del conflitto vengono coltivate sistemicamente dall’alto o si sviluppano dal basso per effetto della delusione per i palesi fallimenti della rappresentanza e del ruolo dei partiti. Ci si consegna alla competenza quando le divisioni nette di classe sono sfrangiate e occultate da una miriade di situazioni individuali – effetto soggettivo del lavoro precario e della corrosione del futuro.

Ai soggetti frammentati e non contrattualizzati – quindi spersonalizzati, senza sicurezza, pensione e mutuo – si propone l’affido a leader fortemente personalizzati, che elargiscono protezione in virtù della loro presunta perizia nel risolvere i problemi. In questo meccanismo non ci sono né destra né sinistra. Lo si predica in tutte le salse e in effetti lo si tocca con mano dal momento che le organizzazioni che dovrebbero difendere gli sfruttati non lo fanno e naturalmente il mercato e le élites, presso cui si cerca protezione clientelare, lavorano – per definizione – nell’interesse generale.

 

Il ”governo dei migliori” – certificato dal sostegno e dalla partecipazione di tutti i segmenti di destra e di sinistra – è l’effigie plastica della bufala che non c’è più destra e sinistra e tutti siamo uniti nella lotta contro il virus (e non è vero) e per salvarci dal disastro economico (ed è vero l’opposto).

 

Nella pratica il governo Draghi potrà non essere all’altezza delle speranze e delle promesse, sarà molto più condizionato dalle baruffe dei partiti – scompigliati ma non distrutti dalla comica gestione della precedente crisi –, si impiglierà, dopo il mezzo smacco vaccinale, nei cespugli spinosi di una ripresa economica piuttosto dubbia e comunque lentissima, virerà a destra quanto più si avvicineranno le elezioni amministrative, poi le presidenziali e in rapida successione quelle parlamentari.

Tuttavia l’appello di Mattarella del 2 febbraio a costituire «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica» conteneva in nuce tanto la retorica del governo del merito quanto la cancellazione delle divisioni politiche, cioè la neutralità tecnocratica e non solo l’unità nazionale. Gli appelli di Letta alla “concertazione” ne sono la ratifica “sociale”.

 

Foto da Flickr

 

Molti studiosi parlano di “tecnopopulismo”[1], cioè di una logica politica dall’alto, in cui si combinano e risultano complementari entrambi gli aspetti – il culto della competenza e l’appello diretto a un popolo sondaggiabile, esercitato verticalmente attraverso un mix di partito e leadership innovativa (Blair e il New Labour, Renzi e il Pd tramortito) o direttamente da un leader che si costruisce intorno un simulacro di partito (E. Macron e En marche che ne mima le iniziali).

Stiamo quindi fuori e al centro rispetto alla polarizzazione dei populismi di destra e di sinistra su cui , finora ci si era accapigliati e ancor più lontani dal pasticciato e ormai degenerato progetto del M5S. Va però osservato che il tecnopopulismo riesce a raccordare la delusione protestataria dilagante dal basso con la volontà di dominio tecnocratico dall’alto, gli interessi finanziari con il panico di un ceto medio impoverito e asociale.

Una formula “impolitica” come auspicato da Mattarella, accelerata dalla pandemia e dal bisogno di protezione scatenato dal virus e dalla perdita di reddito. Il crollo del sistema dei partiti, che corrispondeva e mediava attraverso apparati burocratici le divisioni di classe, ha prodotto sia la domanda di governi tecnici che l’ideologia della fine di destra e sinistra, cioè del conflitto, cioè della politica.

 

Il governo dei migliori appare così non una soluzione congiunturale ma lo sbocco organico di un ciclo politico di dissoluzione della rappresentanza sociale e dei corpi intermedi, rispetto al quale le esperienze di Monti e di Renzi erano state prove parziali e fallimentari.

 

Questo non toglie che il governo attuale non solo stenti a farsi riconoscere come formato dai “migliori” ma abbia anche un vistoso grado di fragilità e oscillazione, dovendo ancora misurarsi con i capricci dei partiti o di quanto ne sopravvive e non avendo una leadership carismatica se non nelle farneticazioni mediatiche. Draghi infatti improvvisa con strane rigidità e improvvisi cedimenti, controllando di fatto solo le macroscelte economiche del Recovery Plan. Che non è poco, ma è assai parziale rispetto a una progettualità politica di ampio respiro. Draghi non è un De Gaulle e neppure un Macron: ha ricevuto in dono il potere, non se l’è preso.

Il fattore pandemia (con il gigantesco indebitamento che le si accoppia) resta inoltre un’incognita per qualsiasi esperienza tecnopopulista, che continua a esigere forme non rappresentative di consenso. Su questo terreno, non a caso, Salvini concentra i suoi strappi, saggiando ogni volta la tenuta di Draghi e contendendo voti a Fratelli d’Italia.

 

La personalizzazione del comando, a volte con dettagli militari grotteschi, non riesce a domare pulsioni decentralizzanti e comportamenti libertari di massa su cui soffia la destra per una rivincita.

 

Tuttavia la tendenza per cui, al solito, l’Italia funge da laboratorio è epocale e si manifesta al meglio in altre combinazioni di democrazia formale e autoritarismo sostanziale fuori dai nostri confini, usando formule populistiche di legittimazione e verticalizzando la gestione del potere in modi lontanissimi dal totalitarismo del secolo precedente. Inutile spiegare che in tale contesto una postura di difesa liberale dal fascismo, come quella assunta dal Pd, non funziona.

Nondimeno, il termine populismo – sia nel linguaggio corrente che nell’accezione professionale di “tecnopopulismo” – è arbitrario, non avendo quasi nulla a che fare con i grandi populismi storici: quelli ottocenteschi dei narodniki russi e del People’s Party statunitense e quelli novecenteschi di Vargas e Perón. Addirittura diffamatorio risulta se applicato a qualificazione negativa per i movimenti latino-americani al volgere di millennio o allo spagnolo Podemos, che ne ha tratto qualche ispirazione.

Quei populismi, con tutti i limiti e i difetti, nascevano da una storia diversa dalla democrazia rappresentativa e dei partiti di massa dell’Europa oppure da una precoce presa d’atto della crisi di quel sistema. Costituiscono dunque dei controversi esperimenti di transizione per la fuoriuscita dal presente sistema e non una tecnica per consolidarlo in senso restrittivo e retrogrado, come il tecnopopulismo di stato o il populismo di destra.

Il problema è che oggi, in Italia, alla sospensione delle divisioni politiche propugnato sull’asse Mattarella-Draghi ci crede fermamente solo la sinistra parlamentare (con al seguito la diaspora pentastellata), mentre la destra populista vi coglie piuttosto un’opportunità per riprendersi il potere – con scarse possibilità, peraltro, di esercitarlo in futuro.

 

C’è da dubitare che possa riuscire in provincia quanto è fallito, con Trump, al centro dell’Impero.

 

Per tutto questo il nemico, il cuore del ciclo reazionario, non sta sulla sua frangia estrema e scervellata ma sul suo asse principale e per combatterlo serve la testa e non la pancia. Una strategia di coalizione e non di immaginarie spallate o di astute combinazioni concertanti. Un percorso non breve e condizionato da fattori imprevisti, di cui la pandemia e il disordine globale che ne sta conseguendo sono solo un’avvisaglia. Lo scontro vero sarà sul Recovery Plan, su scuola, sanità e ambiente e non sul coprifuoco.

 

 

[1]  Cfr. per es. C. J. Bickerton e C. Invernizi Accetti, Technopopulism. The New Logic of Democratic Politics, Oxford Univ. Press 2021. 

Foto di copertina da Wikimedia