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Modus vivendi

Materialismo e ontologia dell’attualità ne L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno.

0. L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita (ed. Quodlibet) di Paolo Virno è un volume composito, si raccolgono testi vecchi e nuovi. Più nel dettaglio: tre saggi brevi, due filosofici e un “classico” della teoria politica contemporanea. Il primo saggio, Mondanità (1993), ha i tratti del laboratorio, fanno la loro comparsa nozioni chiave della ricerca materialista che l’autore non ha mai abbandonato. Il secondo, Virtuosismo e rivoluzione (1993), è un piccolo grande capolavoro, che ha consegnato a militanti politici giovani e meno giovani «le parole per dirlo», la bussola per navigare «dentro e contro» la scena del postfordismo o di ciò che, più recentemente, abbiamo definito capitalismo neoliberale. Concetti come moltitudine, esodo, intemperanza, diritto di resistenza “tornano alla luce” per ripensare radicalmente l’azione politica, quando la produzione fa del linguaggio, degli affetti, in generale della vita della mente, le sue risorse decisive. L’uso della vita (2014), presentato per la prima volta nel seminario della Libera Università Metropolitana proprio alla nozione di ‘uso’ dedicato, è un saggio di forza e bellezza rare. Si sancisce un nuovo inizio, si delinea una ricerca a venire.

Vista la ricchezza dei temi, ci risulta difficile, se non impossibile, la ricostruzione dettagliata dei tre saggi. E forse non è ciò che serve. Proveremo a soffermarci, quasi interrogando l’autore, su alcuni elementi comuni e, più in generale, sul gesto filosofico che Paolo Virno non smette di proporre. La mossa teorico-politica, condensata in Virtuosismo e rivoluzione, sarà semplicemente indicata, avendo quest’ultima già informato, per diversi anni, la ricerca e la prassi dei movimenti sociali radicali.

1. Seguendo la tradizione “maledetta” di Averroè (e del suo Aristotele), salendo poi in cima, fino a Marx, Mondanità rilancia con forza il materialismo storico, e lo fa mettendo al centro della riflessione la nozione di ‘intelletto’. In aperta ostilità con la paccottiglia postmoderna, ermeneutiche e decostruzioni varie, si indaga l’apparizione pubblica, terrena e sporca, del pensiero e della sua potenza. Pensiero senza portatore, intelletto comune. L’espressione marxiana, general intellect, viene presa alla lettera: l’intelletto in generale (o agente), grazie alle nuove macchine linguistiche, diviene la principale risorsa produttiva. Scrive Virno: «a venire in risalto, assurgendo al rango di pubblica risorsa, sono le più generiche potenzialità della mente: facoltà di linguaggio, disposizione all’apprendimento, capacità di astrarre e di correlare, inclinazione all’autoriflessione». Non tanto e non solo incorporazione della scienza nel capitale fisso (il sistema di macchine), ma, a partire da questa compiuta incorporazione, primato delle comuni competenze cognitive e relazionali. Poiesi e prassi, tornando alla distinzione aristotelica, coincidono.

Fin qui la radicalizzazione del Frammento sulle macchine, variazione singolare di uno spartito comune dell’operaismo che, a partire dalla fine dei Settanta, va oltre se stesso. Ma Virno fa molto di più. L’apparizione dell’intelletto in generale, fenomeno proprio della scena postfordista, è indicata, da subito, a partire dalla sua ambivalenza etica. Con le parole, ancora difficili da battere, di Mondanità: «la comunanza dell’intelletto incute timore, anzi provoca un’assoluta insicurezza, allorché non si traduce ‒ spazialmente, appunto ‒ in un’autonoma comunità politica, rimanendo bensì una “forza produttiva”, ovvero l’irrinunciabile (e atopico) requisito del processo lavorativo sociale». La potenza del pensiero, conquistata rilevanza materiale, è radice unitaria tanto del perturbante – secondo Virno rischio carico d’angoscia, stato di smarrimento per mettere a tacere il quale vengono issate e costruite «temibili protezioni» identitarie e reattive – quanto dell’agio – o «confortante sicurezza», «riparo» che fa saltare ogni distinzione tra «protezione empirica e incondizionata immunità». A fare la differenza, l’inibizione o il dispiegamento della giuntura tra il general intellect e lo spazio politico. Nel primo caso, confinato semplicemente nella dimensione produttiva, l’intelletto comune favorisce «un assoggettamento diretto, non più mediato da ruoli e mansioni»; proliferano gerarchie e dipendenza personale, il lavoro si fa servile. Di più: privato della sua sfera pubblica, l’intelletto si «statizza», diviene macchina amministrativa. Nel secondo caso, invece, «il general intellect si estrinseca spazialmente come comunità politica degli esuli, come Repubblica della Moltitudine». Alla sussunzione da parte del dispositivo governamentale, familiarità inquietante, si sostituisce e si oppone il costruttivismo istituzionale. Esodo, moltitudine, istituzioni del comune: le parole chiave dunque di Virtuosismo e rivoluzione e della generazione che si è battuta a Genova, e negli anni successivi.

2. L’ontologia dell’attualità, dapprima esplorata con la nozione di intelletto, viene passata poi al vaglio attraverso due categorie tanto decisive quanto misconosciute: l’infanzia e la ripetizione. Nella misura in cui il farsi pubblico dell’intelletto coincide col farsi povera dell’esperienza, col venir in primo piano dei «luoghi comuni», delle forme e delle strutture basilari della mente, a discapito dei «luoghi propri», vale a dire, seguendo sempre il dettato aristotelico, delle situazioni particolari e contingenti a cui simili forme e strutture si applicano, l’infanzia e il carattere ripetitivo del gesto ludico che sempre la informa acquisiscono «risonanza storica». Di più, nella misura in cui il modello delle comunità tradizionali, incentrato su una fitta e stabile rete di abitudini e tradizioni consolidate, è deflagrato, l’infanzia, afferma Virno, diviene «categoria dello spirito pubblico». L’abitante della metropoli non è dissimile dal bambino che, ogni volta da capo, reitera gli stessi gesti e movenze alla ricerca di un’abitualità capace di fornire orientamento e protezione dall’imprevisto, dagli choc.

Ispiratore di queste pagine illuminanti è Walter Benjamin, colui che, con sconvolgente preveggenza, colse il nesso intimo e necessario che legava il gioco infantile alla povertà di esperienza e alla serialità su grande scala inaugurate dalla riproducibilità tecnica e dai modi di produzione del capitalismo avanzato. In altri termini, quel che ancora oggi, o, forse, una volta di più oggi, nel regime della precarietà e della formazione permanente, il capitale mette a valore è un vero e proprio tratto antropologico: il carattere neotenico dell’uomo, la sua capacità di ricominciare sempre da capo, di perdere e riacquisire senza sosta abiti e consuetudini. Se la ripetizione che guida e innerva il gioco del bambino prevede al proprio interno scarti differenziali, concrezioni in cui si addensano e sorgono quelle abitudini che rendono una vita possibile, la ripetizione legge del capitalismo maturo scandisce invece un ritmo monotono e sempre uguale, quello della merce e del lavoro salariato; la facoltà, costruttiva e creativa, di padroneggiare l’imprevisto, imbrigliata e assoggettata dalle categorie dell’economia politica, bandisce dal suo spartito la possibilità della differenza, del nuovo. Dietro la sovrapproduzione compulsiva di merci, dietro la nouveauté, continua e caotica, di mode, stili e forme di vita, si nasconde in realtà, scriveva sempre Benjamin, il volto infernale dell’identico. Ciò che Virno definisce anche la «perturbante puerilità della società dello spettacolo». Il capitalismo deforma infatti la «serietà dell’infanzia» in tratto puerile, la ripetizione costruttiva in coazione a ripetere, maschera e mistifica la povertà di esperienza istituendo «“tradizioni” surrettizie e però vincolanti», piccole patrie tanto fatiscenti quanto terrificanti.

Compito dell’azione politica sarà allora quello di riscoprire una simile «serietà» e, con essa, la relazione virtuosa tra ripetizione e variazione, «ancora una volta» e costruzione. Nel farsi moltitudine, i «molti» devono essere in grado, da pueri, di divenire nuovamente infanti. Principio costruttivo e ricorsività seriale devono nuovamente congiungersi. Allora il tratto ripetitivo della prassi moltitudinaria non sarà più rimosso o camuffato, ma permarrà, evidente, in superficie, innervando un tipo di invenzione istituzionale refrattaria alla reductio ad unum statuale. Ciascuna «replica» avrà, al tempo stesso, valore di «prototipo», di «experimentum crucis», ma quel che verrà fondato e istituito oltre che plurale e centrifugo sarà, soprattutto, reversibile, passibile, in ogni momento, di messa in questione e distruzione. In tal senso lo scarto, l’esito prodotto da questo secondo tipo di ripetizione viene definito da Virno anche come «agio», come un «riparo di secondo grado» rispetto alle «temibili protezioni» generate invece dalla coazione a ripetere. In tal senso l’istituzione della «Repubblica della Moltitudine» ha a che fare con la ricerca della felicità, ossia con «l’attitudine ad abitare la […] “carne del possibile”», a lasciar esalare presso fatti e cose, sempre, il loro «poter-essere-altrimenti».

3. La nozione di ‘uso’ è stata al centro della grande filosofia del ‘900. Bastino tre esempi: Heidegger (di Essere e tempo); Wittgenstein (delle Ricerche filosofiche); Foucault (e la sua Storia della sessualità). Seppur concetto decisivo, per afferrare l’«essere-nel-mondo» o il significato di una parola, la «comprensione» o l’«estetica dell’esistenza», non ha mai conquistato attenzione specifica. Sempre sulla scena, mai illuminato. Illuminate, piuttosto, la nozione di ‘cura’ e quella di ‘prassi’, che pure a quella di ‘uso’ devono molto. Diversa, e ancora materialista, la mossa di Paolo Virno: fare i conti con l’uso, vero e proprio Urphänomen, nel momento in cui quest’ultimo si impone sul terreno della produzione di merci e di valore (Sharing economy, economia dell’accesso, ecc.). Emergenza singolare, storicamente situata e carica di accidenti, dei tratti eterni dell’animale sociale.

La tesi è radicale: non coincidendo con la nostra vita, non possiamo che farne uso. Punto d’avvio dunque è il distacco. Distacco da cosa? Dalla nostra essenza. Non solo usiamo la vita, ma usiamo il nostro corpo, il linguaggio, l’intelletto comune che ci attraversa. Gilbert Simondon, altro autore caro a Paolo Virno, che per primo lo ha tradotto e introdotto in Italia, parlerebbe di «equilibrio metastabile», tratto proprio della dimensione preindividuale. Fatto sta che al primato della copula si sostituisce quello dell’avere: mettiamo in forma la vita (impersonale) così come abbiamo il nostro corpo. Scrive Virno: «affermare che l’animale umano serba un distacco nei confronti della sua stessa vita, delle pulsioni da cui è mosso, della lingua nella quale dimora, equivale ad affermare che l’animale umano non è questa vita, queste pulsioni, questa lingua, ma le ha». E successivamente chiarisce: «non è un avere che si aggiunge all’essenza del primate Homo sapiens […] ma un avere che costituisce il nocciolo duro di tale essenza». Il distacco dall’essenza, la nostra condizione maldestra, dispone l’essenza stessa sul terreno dell’uso, singolare e contingente, che se ne fa. Potenza e atto perdono la loro distinzione, piuttosto «convergono e si sovrappongono».

Nella densità della tesi antropologica, torna in primo piano il problema delle istituzioni. L’uso della propria vita, infatti, richiede addestramento, regole, acquisizione di tecniche, esercizi. L’istituzione o regola, che Virno – facendo una mossa del tutto analoga a quella di Gilles Deleuze e dunque contrapposta a quella di Giorgio Agamben – distingue dalla norma (giuridica), si inscrive nel pieno del processo di individuazione. Ancora con le parole dell’autore: «l’addestramento, le tecniche, le regole di cui si nutre l’inclinazione a servirsi della propria vita costituiscono il fondamento antropologico (cioè metastorico) delle istituzioni. A dire meglio: essi sono i fenomeni istituzionali, pervasivi e multiformi, che, solo a certe condizioni e mai per intero, si cristallizzano in vere e proprie istituzioni». L’animale maldestro si fa animale istituzionale. Scriveva appunto Deleuze nel 1955: «ogni istituzione impone al nostro corpo, anche alle sue strutture involontarie, una serie di modelli e dà alla nostra intelligenza un sapere, una possibilità di previsione e di progetto […] l’uomo non ha istinti, realizza delle istituzioni. L’uomo è un animale che si sta spogliando dalla specie».

Cosa sono allora i tratti eterni della specie che si spoglia da se stessa? Tecniche, regole, esercizi, pratiche che mettono in forma la vita. Fenomeni, ci ricorda Virno, che destituiscono il potere di dire ‘io’, senza confondersi con l’irresponsabile ‘si’, ma imponendo da subito il primato del ‘noi’. Pronome, quest’ultimo, che «indica il transito dal singolare al comune, nonché quello dal comune al singolare». Solo in questo transito, contro le torsioni individualistiche e neoliberali della cura di sé, si colloca l’uso della vita, del proprio corpo come del linguaggio. Ne era consapevole già il giovane Spinoza che, nel suo Trattato sull’emendazione dell’intelletto, chiariva la radicale socialità – il conatus associativo – che sempre accompagna la ricerca o la conquista di un novo instituto di vita. Fenomeni istituzionali e, aggiungiamo, massimamente storici. Nell’ontologia dell’uso, dunque, non solo «convergono e si sovrappongono» potenza e atto, ma lo fanno anche storia e metastoria.

E allora, per concludere, ci domandiamo e domandiamo a Paolo Virno: non è quella dell’uso, a tutti gli effetti, una filosofia pratica? Non ritroviamo, nel senso del materialismo spinoziano, la coincidenza tra ontologia ed etica? E ancora: non è proprio questa coincidenza a farci ripensare con Marx, oltre Marx, il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»? D’altronde, afferma lo stesso Virno: «le lotte di classe hanno come in posta in palio il modo in cui si usa la vita. Non mancano di inventare usanze inaudite, in grado di confinare quelle fin lì prevalenti nel museo degli orrori».