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Meteorologi nella tempesta di Trump

Abbiamo incontrato a Roma Bernardine Dohrn e Bill Ayers, fondatori del movimento clandestino rivoluzionario americano dei “Weathermen”:da Lenin a Lou Reed, da Black Lives Matter a Trump, ecco cosa ci hanno detto

Negli stessi giorni in cui il fantasma di Trump divora il dibattito politico globale, fa una bella impressione incontrare a Roma Bernardine Dohrn e Bill Ayers, due fondatori del movimento rivoluzionario americano dei “Weathermen” – poi Weather Underground Organization – nato sul finire degli anni sessanta da una costola della Students for a Democratic Society (SDS), punto di riferimento della nuova sinistra americana. Il nome, come molti sanno, fa rifermento a una strofa di Subterranean homesick blues (“You don’t need a weatherman to know which way the wind blows”), una famosa canzone del 1965 di Bob Dylan

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Abbiamo incontrato i due attivisti americani a Garbatella, negli spazi della nuova biblioteca “Moby Dick”, a margine della proiezione del documentario “The Weather Underground”, di Sam Green e Bill Siegel, del 2002, che nel 2005 uscì in allegato al settimanale Carta. Per l’occasione è stato presentato il libro dello stesso Ayers “Fugitive Days – Memorie dei Weather Underground”, pubblicato quest’anno da DeriveApprodi.

A distanza di tanti anni, resta intatta la potenza e l’immaginario di questa storia sovversiva, al di là degli esiti politici e dei giudizi storici. Il tentativo “impossibile” di immaginare una rivoluzione sociale che tenesse insieme programma politico “comunista” e controcultura, organizzazione “violenta” (contro le istituzioni) e forme di vita liberate, attacco al potere e costruzione di comunità alternative. Lenin più Lou Reed, potremmo dire con una battuta.

Bernardine Dohrn

Una delle cose che successe tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta fu la fusione tra sinistra politica e controcultura. Non fu una fusione perfetta ma ci trovammo insieme intorno ai nodi della guerra, della chiamata alle armi in Vietnam, intorno alle esperienze di vita comunitaria, alla ricerca di vie di fuga rispetto a ciò che ci avevano educato a diventare, per sottrarci al mondo della carriera e dei soldi ed entrare in un’altra dimensione di senso all’insegna del comunitarismo. Tutte questioni su cui avevamo molto in comune.

Ovviamente vi furono anche scontri, che spesso furono molto produttivi, tra il mondo culturale, della musica, dell’arte, del teatro, degli artisti di strada, dei Diggers (giovani anarchici e libertari della California che si organizzavano in comunità e distribuivano gratuitamente beni e viveri, Ndr), di chi praticava il ritorno alla terra, delle comuni di donne, dei collettivi femministi che iniziavano a nascere. Era un terreno molto fertile, che finì per diventare il terreno in cui noi, i “militanti politici”, trovammo rifugio e protezione, in moltissimi sensi. Una delle cose straordinarie fu che per ben undici anni nessuno ci tradì mai. La gente ci riconosceva, capitava di incontrarsi e sapevano chi eravamo, magari non erano neanche d’accordo con noi, ma eravamo comunque tutti dalla stessa parte dentro una lotta più grande.

Bill Ayers

Sono assolutamente d’accordo con Bernie. E aggiungerei che in quella fase riuscimmo davvero a capire quanto il personale sia politico, quanto la politica non possa essere scissa dal modo in cui vivi ma debba essere una pratica di vita. E quindi se davvero il mondo per cui lotti è un mondo di giustizia, amore, comunità, amicizia, condivisione, non ti puoi comportare da maschio autoritario e sciovinista che va alla conquista, devi diventare espressione vivente di ciò per cui lotti. Per questo noi, durante la clandestinità, capimmo che costruire una dimensione comunitaria era importante per immaginare un futuro senza capitalismo, senza impero, senza razzismo. Era importante che vivessimo così.

L’elezione di Trump ha rappresentato un shock per tanta parte dell’opinione pubblica americana e non solo. Molti media mainstream dipingono questo voto come un attacco all’establishment finanziario ed economico, una sorta di vendetta della “classe operaia” contro le politiche dettate dai poteri forti globali. In realtà, analizzando i dati del voto, sembra più una defezione dell’elettorato progressista che non ha creduto alla proposta democratica.

B.D.

Il dato più importante che emerge dal voto è l’assenza di una vera alternativa, che sappia rappresentare gli interessi degli esclusi dal banchetto neoliberista: poveri, lavoratori, minoranze. Si è affermata una cultura della competizione tra settori sociali, con l’illusione di poter sopravvivere nella giungla del “libero mercato” difendendo il proprio (scarso) orticello contro chi vive peggio. In fondo, hanno pensato molti, la mia condizione è sempre meglio di chi sta un gradino più sotto, il che in America si traduce in bianchi contro afroamericani. Il fatto di poter dire “la mia casa non sarà la più bella, il mio lavoro non sarà il migliore, non ho un gran reddito ma sono bianco e quindi ho più potere di quegli altri”, è un compromesso che la gente è sempre stata disposta ad accettare, dai tempi della schiavitù. E’ la struttura del potere in America a essere organizzata in questo modo, classe e razzismo non sono mai scindibili. Ancora una volta è stato questo il “patto” offerto agli elettori : liberiamoci del presidente nero, ripristiniamo la gloria americana… Una visione rivolta al passato che è riuscita a far presa.

B.A.

Il suprematismo bianco è un fenomeno interessante da molti punti di vista. Pensiamo agli immigrati che arrivavano dall’Europa: non erano mica bianchi, erano italiani, portoghesi, spagnoli, irlandesi, ebrei. Poi una volta sbarcati sono diventati “bianchi”. Ed è quanto sta succedendo ora: un filippino, un coreano, un cinese non pensa a sé come a un “asiatico”, poi arriva negli Stati Uniti e improvvisamente diventa membro di quella categoria unica. E’ il suprematismo bianco che crea queste identificazioni per ragioni di potere e privilegio. Il privilegio bianco è il freno a qualunque possibilità di andare avanti per l’America: questa idea che io sono “un po’ meglio di quell’altro” e “uno di voi”. Alla fine dell’ottocento i dati sulla criminalità a Chicago erano suddivisi per “neri”, “messicani”, “italiani”, “ebrei”, “irlandesi” e “bianchi”. Voi altri non eravate mica bianchi, lo siete diventati.

Ancora oggi, quindi, la linea del colore diventa la frontiera principale delle differenze di classe e di potere negli Stati Uniti?

B.D.

E’ un dato di fatto che la campagna elettorale è stata giocata da Trump sul terreno dello slogan “legge e ordine”, come risposta repressiva e razzista sia alle rivendicazioni di cittadinanza dei milioni di clandestini, soprattutto latinos, sia nei confronti dello spauracchio “islamista”, utile come caprio espiatorio di facile consumo. Soffiare sulla paura e sulla insicurezza, per mettere gli uni contro gli altri, per rompere qualsiasi possibilità di connessione delle lotte e delle condizioni sociali. Il mito americano, da sempre, ruota tutto attorno al “divenire bianchi”. E’ un mito orribile ma che permette alla gente di sentirsi parte di una narrazione comune e di sentirsi in qualche modo superiore e anestetizzare i problemi della propria vita.

B.A.

Non si tratta di una banale questione di falsi pregiudizi, il punto è che i vantaggi sono materiali. Il movimento Black Lives Matter, ad esempio, ha evidenziato come la polizia nelle comunità nere si comporti come una vera forza di occupazione. A me ultimamente è capitato di essere fermato mentre guidavo per via di una freccia rotta, ma non mi hanno neanche chiesto la patente o il libretto, si sono limitati a segnalarmi la cosa, perché sono bianco. Se fossi stato nero mi avrebbero fatto scendere immediatamente dalla macchina, intimandomi di dare i documenti, sarebbe stato tutto molto aggressivo. Ma grazie al privilegio bianco io ho avuto una tranquilla conversazione con il poliziotto, che mi ha invitato a riparare la freccia al più presto e mi ha salutato. Un approccio radicalmente opposto.

Nel tuo ultimo libro, che stai presentando anche in Italia, racconti la vostra storia alternando vissuto personale e consapevolezza politica. Cosa resta di quegli anni tumultuosi dove la rivoluzione sembrava ad un passo?

B.A.

Innanzitutto, la felicità di raccontare questa esperienza in posti così belli e vissuti da tante persone. Presentare un libro in un luogo una volta abbandonato e poi recuperato grazie a una occupazione, che lo ha trasformato in una biblioteca, è il modo migliore per riconoscere un filo rosso che non si è interrotto. Nel libro non faccio una cronaca di reduci, ma cerco di condividere le ragioni e i sentimenti che animarono una generazione intera, stanca di fare la spettatrice davanti alla guerra e alle ingiustizie sociali. Abbiamo fatto scelte radicali, pagato un prezzo personale molto alto, messo in gioco la nostra vita per sperimentare un modo diverso di stare insieme. Ma non ci siamo mai sentiti un’avanguardia isolata, pensavamo di stare dentro un movimento eterogeneo, fatto di tante diversità, che però volere metter in discussione lo stesso modello di sviluppo, che produceva povertà, sfruttamento, discirminazioni di genere, guerre. Tutti buoni motivi per non smettere anche oggi di lottare.

Traduzione a cura di Eva Gilmore