editoriale

Memoria e genealogia del male

La retorica della memoria e delle giornate ad essa dedicate non deve impedirci di riflettere su aspetti meno battuti ma più strutturali. Per capire da dove nasce e dove va a parare il razzismo, che in una lunga fase si è identificato con l’antisemitismo e in parte continua a farlo, ma non si esaurisce certo qui

Premesso che il concetto di razza è scientificamente inesistente per la specie umana ed è utile piuttosto per le classificazioni merceologiche dello Slow Food, tipo carne chianina, capra orobica e gallina padovana. Premesso che la “razza bianca” (caucasica per i moduli doganali Usa) viene stiracchiata in tutte le direzioni per comprendere o escludere i giapponesi (ariani ad honorem nel Patto d’Acciaio nazi-fascista del 1939, “musi gialli” e internati negli Usa 1941), setacciare italiani del Nord a scapito di quelli del Sud a Ellis Island, accettare semiti sauditi e israeliani ed escludere palestinesi, venezuelani e maghrebini, chiudere le porte a tutti i caucasici in senso stretto (i ceceni, i ceceni!).

Premesso tutto ciò e constatato, insomma, che ognuno se la gira secondo gli interessi del momento, ci sono poi effettivamente fanatici e mentecatti che alle razze ci credono e su questa ossessione costruiscono delle politiche e uccidono o lasciano morire altri uomini e donne.

La Giornata della Memoria dovrebbe servire a ricordarcelo, a farci vergognare e a ridurre la probabilità che questo si ripeta.

Ma allora bisogna ricostruire bene. Il razzismo non è soltanto credere erroneamente alle razze e neppure a una loro gerarchia. È certo tutto questo, ma soprattutto l’ossessione della purezza, il divieto biologico e culturale dell’incrocio, del meticciato, dalla miscegenation, della “sostituzione etnica”. Questi sono i fondamenti biopolitici dell’apartheid (sudafricano e israeliano) e della segregazione un tempo ufficiale in molti stati americani: eredità coloniale che nella forma del patriarcato orientalista consentiva agli uomini bianchi di stuprare le donne nere (e tenersi eventuali figli come schiavi) e nei casi più “illuminati” di tenerle come concubine e liberare i figli illegittimi (il caso di Jefferson). I matrimoni misti restarono vietati fino a metà dello scorso secolo e l’uomo nero era severamente punito dalla legge non solo se si accoppiava con una bianca, consenziente o meno, ma solo se la corteggiava. E, al di là dai procedimenti legali, gli alberi del Sud erano colmi di strange fruits, i neri castrati, linciati e appesi per uno sguardo di troppo.

Nei cicli fanatici e mistici di razzismo era chiusa perfino la comoda scappatoia del trattare le donne di altra razza come cose: all’indomani della Notte dei Cristalli del 1938 i nazisti si guardarono bene dal punire gli assassini e violenze a danno degli ebrei e dei loro beni, ma punirono (blandamente) ed radiarono dal Partito chi aveva approfittato del pogrom per violentare ragazze ebree, contaminandosi. Lo stupro etnico era ancora da venire e solo con la guerra e la convivenza nei Lager gli ufficiali nazi accettarono la “barbara” usanza giapponese delle ”donne di conforto”.

L’Italia coloniale, fascista e stracciona non nutriva idee di purezza razziale, discendendo da invasori e assimilatori (la Roma imperiale) e più tardi essendo diventata una stratificazione di molteplici invasioni, senza aver mai espulso nessuno. Il nostro tardivo colonialismo adottò l’orientalismo standard: cartoline con indigene a seno nudo, Tripoli bel suol d’amore, Faccetta nera, promesse di Venere selvaggia – tutto gratis o quasi. Porno-tropics tradition, si dice in letteratura. Molti anni dopo, per il turismo sessuale in Thailandia qualcosa si dovrà pur pagare.

Nelle colonie vigevano, a parte i soliti stupri e i bordelli, gli istituti ufficiosi del concubinato: in Eritrea, Somalia ed Etiopia il “madamato” e in Libia il “mabruchismo”, che Graziani aveva cominciato a estirpare già nel 1932, rimpatriando con sanzioni disciplinare gli ufficiali che vi erano caduti. Veniva giustificato con costumi religiosi locali (matrimonio provvisorio contro dote) e naturalmente la pedofilia era coperta dalla “precocità” sessuale delle africane (non dimentichiamo la sposa dodicenne dell’osannato Indro Montanelli). Il possesso del corpo delle donne è l’aspetto metonimico del possesso territoriale e dunque serve a radicarsi in una colonia di popolamento.

Il fenomeno assume proporzioni di massa con l’invasione dell’Etiopia nel 1936, quando vi si stabiliscono 300.000 maschi in armi e migliaia di funzionari civili celibi o senza famiglia al seguito, mentre la colonizzazione della Libia era stata soprattutto agricola e familiare e per i bisogni della guarnigione bastavano le “quindicine” itineranti delle case chiuse nostrane e meglio ancora dei rinforzi marsigliesi, per non abbassare agli occhi degli indigeni il prestigio della donna italiana.

La fase del madamato machista è però breve, perché dilaga la tendenza, molto italiana, a crearsi una doppia famiglia patriarcale, in madrepatria e in colonia, con conseguente commistione razziale e allentamento della disciplina. Complicato domare una guerriglia endemica se non si fissa un netto confine fra colonizzatori e colonizzati. I rastrellamenti e le stragi non sono compatibili con il “buonismo” che scaturisce da rapporti in pratica coniugali anche se a forte grado di subordinazione. Letto e cucina comune addolciscono troppo. Si creano “zone grigie”, laddove cittadini e sudditi non devono mescolarsi e tanto meno generare bastardi!

Agli occhi del duce, i meticci costituivano un’insidiosa fonte di sovversione politica e sociale e ben presto si moltiplicano gli appelli e poi le disposizioni legislative contro il madamato. Già nel gennaio 1937, in un editoriale sulla “Stampa” intitolato Politica di razza, il Ministro delle Colonie Lessona anticipa un disegno di legge che rende punibile il madamato con una pena detentiva da 1 a 5 anni, per “inquinamento della razza” – provvedimento approvato nell’aprile del 1937, precedendo di qualche mese la legislazione antiebraica di cui quest’anno “celebriamo” l’ottuagesimo.

I risultati, come ci si poteva aspettare, furono modesti e madamato e prostituzione continuarono a marciare in parallelo (con disastrose storie di abbandono dopo la fine dell’Impero e il rientro degli italiani in patria). Così che nel 1938 il governatore dell’Harar, gen. Guglielmo Nasi, in una famosa circolare, dovette lanciare l’ultimatum “Aut Imperium Aut Voluptas!”, ritenendo che comandare fosse meglio che fottere – opinione che si affermò quanto l’obbedienza alle severe minacce di cui sopra…

Se gli effetti in colonia furono comicamente irrilevanti (anche se probabilmente la forzata semi-clandestinità creò problemi aggiuntivi alle donne e soprattutto ai figli non più riconoscibili), la virile intenzione doveva fruttificare in patria. Infatti nell’osceno Manifesto degli “scienziati” razzisti del 23 luglio 1938 (quelli i cui nomi dovrebbero auspicabilmente a breve sparire dalla toponomastica romana) si sostiene che «la creazione dell’impero ha messo la razza italiana in contatto con altre razze, per cui deve guardarsi da ogni ibridismo e contaminazione, tanto da rendere necessario introdurre nel diritto positivo dello Stato fascista quelle leggi razziali che erano state applicate con fascistica energia nei territori dell’impero». Il passo ulteriore sarebbe stato l’applicazione del medesimo trattamento anche agli ebrei, oltretutto miscredenti e cripto-antifascisti.

Non meraviglia che Mussolini, promotore e redattore di fatto del Manifesto, presentasse in pompa magna le appena adottate leggi razziali in un comizio a Trieste, con tanto di spettacolare arrivo per nave. La genealogia di quelle misure è ricondotta con sfrontata lucidità alle necessità pratiche e ideologiche del nuovo assetto imperiale:

«Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso, come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno».

Le razze esistono, lo tocchiamo con mano quando entra in gioco il colore e il turpe ebreo non si camuffa più sotto una pelle chiara, non devono mescolarsi e devono stare in un netto rapporto gerarchico. Il problema ebraico è una sottospecie del problema, quella più rilevante entro i confini nazionali della madrepatria. Anzi, in colonia si potranno pure fare concessioni, perché lì i ruoli sono già chiari ed evidenti. Il madamato verrà di fatto tollerato in forma clandestina, in Libia l’applicazione delle leggi razziali sarà molto lasca (almeno fino alla guerra e all’arrivo degli alleati nazisti), perché gli ebrei locali sono indispensabili all’economia e servono a riequilibrare l’elementi arabo – pensiamo che la guida Touring del 1939 elenca ancora gli apprezzatissimi ristoranti ebraici, vietati in Italia. Qui, al contrario, bisogna discriminare, perché le differenze non si colgono a prima vista. Se non gli metti una stella gialla, chi si accorge che l’ebreo non è un uomo (bianco)?

L’antisemitismo è così per Mussolini un capitolo, urgente ma secondario, derivato dall’esigenza gerarchica imperiale. Certo, dice così per non essere accusato di aver ceduto a Hitler (si affanna a smentire proprio nel discorso di Trieste), lui che ha intrallazzato equamente con circoli sionisti e dignitari arabi, lui che aveva per amante Margherita Sarfatti. Però quella scelta, atroce e grottesca, avallata dal vile Savoia, sarebbe diventata tragica con lo scoppio della guerra, la Soluzione finale del 1941 e l’occupazione nazista della penisola del 1943.

Abbiano voluto sottolineare, nella Giornata della Memoria, quanto gli orrori della Shoah abbiano finito a buon diritto per assurgere a metafora di tutte le stragi compiute, pur senza avere nessuna metafisica o teologica unicità. Essi sono la naturale prosecuzione di un meccanismo razziale che affonda le sue radici nel colonialismo e ha il suo logico sviluppo nel suprematismo riaffiorante nei confronti dei migranti, che provengono da quello stesso continente su cui si sono esercitate nei secoli scorsi le nostre pretese sopraffattrici ed estrattive. Abbiamo orrore dei soprusi coloniali e delle leggi razziali, ma lo sviluppo separato (aiutiamoli a casa loro) o il respingimento in mare sono gli eredi della segregazione di un tempo, così come le formule di inclusione selettiva riproducono in seno alla cittadinanza e sul mercato del lavoro le stesse segmentazioni su cui si fondavano le politiche di sfruttamento e amministrazione per l’epoca più “avanzate”. La razzializzazione è una condotta senza soggetto e senza oggetto, nel senso che variano nella storia i carnefici e le vittime, restando identica la crudeltà delle pratiche e l’idiozia criminale delle giustificazioni.