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ITALIA

Mafiosa Istituzione: viaggio nei micro-comuni italiani dove il malaffare è al potere senza intermediari

Si allunga sempre di più la lista dei piccoli comuni (in particolare in Puglia) sciolti per infiltrazione mafiosa. In molti casi il potere mafioso si presenta senza intermediazione, candidandosi direttamente alla gestione della cosa pubblica. Un tassello in più di un’istituzione che già gestisce l’erogazione di welfare, posti di lavoro e protezione in assenza di politiche adeguate da parte dello Stato.

Era il 4 luglio del 2017. Insieme ad alcuni storici capimafia della Sacra Corona Unita finivano in cella, coinvolti nella stessa inchiesta giudiziaria, due sindaci: quello del comune di Avetrana, Antonio Minò, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e tentata estorsione, e il primo cittadino del comune di Erchie, Salvatore Margheriti, e, con lui, anche il vice-sindaco dello stesso Comune di Erchie, il quasi omonimo Domenico Margheriti, entrambi accusati di aver ottenuto da un imprenditore una tangente da 110.000 euro, come dazione per l’affidamento dei lavori di movimento terra nel comune di Erchie, appunto. A far loro compagnia, in quello stesso blitz dei magistrati della Dda pugliese, c’erano anche il presidente del consiglio comunale di Manduria (in foto), Nicola Di Monopoli, e un ex assessore dello stesso Comune, Massimiliano Rossano. «Si registra un’inversione di tendenza. Abbiamo verificato che, sempre più spesso, sono i politici locali ad accreditarsi direttamente presso i mafiosi, e non più viceversa», rivelava quello stesso giorno il questore di Taranto, Stanislao Schimera, commentando l’operazione della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce denominata dagli inquirenti “ Impresa”, che aveva portato in carcere 75 persone, alcune delle quali accusate a vario titolo di far parte di un gruppo mafioso legato alla quinta mafia, la Sacra Corona Unita. Una piovra che aveva allungato i suoi tentacoli su diversi comparti dell’economia: dalla ristorazione ai lavori pubblici, fino al servizio di pronto soccorso 118, con i clan che avevano intimidito persino l’associazione di volontariato che gestiva il servizio sanitario. Soprattutto gli esponenti delle famiglie «condizionavano pesantemente l’attività amministrativa di diversi comuni delle province di Brindisi e Taranto attraverso lo scambio elettorale-mafioso». L’amministrazione comunale di Manduria, (comune famoso in tutto il mondo per aver dato il nome al vino Primitivo) era finito all’attenzione dei magistrati dell’antimafia più di una volta, negli ultimi anni. Stavolta, però, «erano le elezioni dirette per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale ad essere state condizionate dalla forza dell’associazione mafiosa e dai suoi vincoli di assoggettamento», secondo i magistrati pugliesi. Il consigliere-medico dell’ospedale cittadino Nicola Di Monopoli era diventato presidente del Consiglio comunale nella seduta del 17 luglio 2013, con 16 voti a favore, 9 schede bianche e nessun voto contrario, proprio grazie all’aiuto del boss del luogo, Tonino Campeggio, questo raccontano le centinaia di pagine dell’ordinanza alla base dell’operazione di polizia “Impresa”. In cambio il politico avrebbe dovuto versare un mensile di duemila euro al boss, in più, gli avrebbe assicurato una serie di servigi, come il rilascio di certificati medico-ospedalieri per la copertura di finti incidenti stradali.

 

Sciolti per mafia

Il Consiglio dei ministri nella seduta del 26 aprile scorso ha deliberato lo scioglimento per infiltrazioni della criminalità organizzata di cinque comuni, tra questi c’era Manduria. Proprio in questi giorni sta venendo fuori tutta la documentazione che ha portato alla decisione presa da parte del Viminale. In particolare, è stata resa nota la relazione (piena zeppa di omissis) del prefetto di Taranto che aveva chiesto al Ministero lo scioglimento del comune di Manduria. Il sindaco Roberto Massafra ha preannunciato un ricorso al Tar contro il Decreto, ingaggiando un braccio di ferro con il ministro dell’Interno (ancora per pochi giorni) Marco Minniti. Gli altri consigli comunali colpiti da quello stesso provvedimento ministeriale, che risale a fine aprile, erano: Bompensiere, in provincia di Caltanissetta, Caivano, nella provincia di Napoli, e i comuni calabresi di Platì, vicino Reggio Calabria – sciolto dal Governo centrale per la terza volta in appena dieci anni – e di Limbadi, nei dintorni di Vibo Valentia. Qui addirittura un uomo è saltato in aria, un paio di mesi fa, a causa di una bomba piazzata nel portabagagli della sua stessa auto. Per gli inquirenti calabresi, ufficialmente, Matteo Villa sarebbe stato ucciso in seguito a contrasti sorti con una famiglia mafiosa ‘ndranghetista, per questioni relative a un terreno. Ma Matteo Villa era anche un candidato alle prossime elezioni amministrative. «Si tratta di vicende estremamente preoccupanti che confermano la gravità del fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle Amministrazioni locali», dicono dall’Osservatorio Parlamentare sulle mafie e la corruzione dell’Associazione Avviso Pubblico.

 

La mappa del malaffare al potere

L’Associazione Avviso Pubblico, sul suo sito internet, ha predisposto un’intera sezione, con dati aggiornati in tempo reale, per potersi orientarsi sul fenomeno dell’infiltrazione della criminalità in tutte le amministrazioni pubbliche, non solo nei Comuni. Dalla mappa interattiva elaborata dall’Associazione si apprende che il 92% degli scioglimenti si concentra in Campania, Calabria e Sicilia, che sono anche le tre regioni di originaria provenienza delle principali organizzazioni criminali operanti in Italia. Ma dal 2011 si contano anche otto Enti locali commissariati nel Centro-Nord, tra Piemonte, Lombardia, Liguria. Anzi. Nelle motivazioni alla base degli scioglimenti dei consigli comunali degli ultimi anni, dicono ancora da Avviso Pubblico, «si rileva una sempre più stretta correlazione tra presenze mafiose nelle istituzioni, investimenti pubblici in opere infrastrutturali e corruzione, specie nelle Amministrazioni del Nord». Sono stati trecento otto, dal 1991 ad oggi, i decreti di scioglimento emanati dal Governo, e duecento trentasette le amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose. 

 

Puglia Connection

Questa speciale classifica è guidata dalle regioni Calabria e Campania; più staccata insegue la Sicilia, mentre sta scalando posizioni (per così dire) la regione Puglia. Dieci giorni fa un altro comune pugliese, l’ennesimo, è stato sciolto dal Consiglio dei Ministri per infiltrazioni mafiose.

Siamo a quaranta chilometri da Manduria, in provincia di Lecce. Nel comune di Surbo il prossimo 10 giugno si sarebbero dovute tenere le elezioni amministrative, ma il Consiglio dei Ministri, facendo proprie le indicazioni del prefetto di Lecce, Claudio Palomba, ha ritenuto che – a scopo preventivo – ci siano tutte le condizioni per sciogliere l’assemblea consiliare. Ora il sindaco Fabio Vincenti potrebbe impugnare al Tar del Lazio (anche lui) il decreto di scioglimento. È già successo qualche mese fa nella stessa provincia di Lecce, con il ricorso presentato da Alfredo Cacciapaglia, sindaco del comune di Parabita, che era stato pure accolto dal Tar. E con lo stesso Viminale che ha presentato, poi, opposizione alla sentenza davanti al Consiglio di Stato. 

Dal 2013 a oggi si contano decine di procedimenti interdittivi antimafia che hanno colpito diversi consigli comunali di tutte e cinque le province pugliesi. Alcuni di questi procedimenti, nel frattempo, sono stati archiviati. Più di recente, oltre ai già citati casi di Manduria e Surbo, sono stati sciolti i consigli comunali di Mattinata, in provincia di Foggia, e di Valenzano, in quella di Bari. Mentre appunto il decreto di scioglimento che aveva colpito il comune di Parabita (che si trova in provincia di Lecce) è stato annullato il mese scorso dal Tar del Lazio, che aveva accolto il ricorso di diversi amministratori del comune salentino perché, si legge nella sentenza: «i legami con la malavita sono evidenziati in misura diretta solo per il vicesindaco, dunque, sarebbe stato necessario individuare altri elementi per certificare che gli esponenti superstiti avessero continuato l’opera in favore del clan». Racconta Cataldo Motta – magistrato che è stato per lungo tempo a capo della Procura distrettuale Antimafia di Lecce: «Nell’era della crisi economica più nera, le mafie hanno trovato il modo di acquisire il consenso. Sono moderne ed antiche allo stesso tempo, ben inserite e presenti in tanti contesti sociali. I mafiosi sono percepiti oggi quasi alla stregua di soggetti che erogano welfare, prestazioni, favori, vantaggi, protezione, posti di lavoro».  E ancora, ragiona l’ex-procuratore: «Si assiste a un vero e proprio cambiamento antropologico nel rapporto del cittadino con le mafie. Le società non sono mafiose in sé. Lo diventano con il consenso sul territorio». Con il contributo decisivo della politica, aggiungiamo noi.