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Macchine di macchine. Appunti di tecnopolitica

Inventare nuove pratiche di resistenza, dentro e contro la complessità, dentro e contro il virtuale-reale. Una riflessione su reti e politica in vista della Scuola di Euronomade

“Che errore aver detto l’(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni.” Deleuze-Guattari, L’Antiedipo

“Nel modo in cui la cultura d’oggi vede il mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: […] Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si dipana […], oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito di organi sensori e di controllo” Calvino, Cibernetica e fantasmi

Atomi imprevedibili

Ripercorrendo le fasi storiche dello sviluppo scientifico nelle sue varie discipline è possibile riscontrare un passaggio dall’utilizzo di metodi qualitativi a metodi via via più quantitativi, numerici, formalizzati. E’ il caso dell’alchimia, antico sistema filosofico esoterico che condensava chimica, medicina e astronomia unendo risultati sperimentali con interpretazioni mistiche, e che soltanto nel 1661 con Il chimico scettico di Boyle e poi con Lavoisier si è tramutata nella chimica moderna, introducendo formule e codici per esprimere il mescolarsi tra sostanze e le reazioni che queste causavano. In altri campi è possibile riscontrare un processo simile – in logica così come in fluidodinamica -, insieme al tentativo costante del mondo scientifico di analizzare, interpretare e modellizzare praticamente ogni processo noto. Se per i processi del mondo inanimato questa è già un’impresa abbastanza ardua, le faccende si complicano notevolmente quando si introduce un nuovo elemento, il più complesso, quello che il fisico Mark Buchanan definisce “l’atomo sociale”: l’essere umano.

Emozioni, opinioni personali, interazione con l’ambiente circostante ci rendono uno dei sistemi più imprevedibili e complessi oggi studiati. Nel penultimo secolo la nascita della psicanalisi – con il dibattito che ne conseguì – e la scoperta delle reti neurali hanno forse iniziato quel percorso di quantizzazione anche nell’ambito delle scienze psicologiche e sociali. Sociofisica, econofisica, cibernetica, sociometria, sono esempi di discipline sviluppatesi di recente nate con l’intenzione di studiare le possibili applicazioni dei modelli della fisica in ambito biologico, sociale ed economico, e che potrebbero considerarsi parte di quella che più generalmente viene definita scienza della complessità o dei sistemi complessi.

Per sistema complesso si intende un sistema le cui singole parti sono caratterizzate da interazioni locali tali da comportare cambiamenti nella struttura complessiva del sistema. Esempi di sistemi complessi possono essere gli automi cellulari o il clima, così come gli organismi viventi o i sistemi economici e sociali. Non a caso la scienza della complessità è un campo fortemente interdisciplinare in cui confluiscono neuroscienze, linguistica, psicologia, robotica, e non solo, permettendo talvolta di trovare, grazie a processi di astrazione, applicazioni di modelli fisici nei campi più disparati; valga come esempio il modello di Ising, ideato nell’ambito della fisica statistica per descrivere un corpo magnetizzato, e che ha trovato nel tempo sempre più applicazioni, dallo studio delle reti neurali, alla segregazione urbana, alle dinamiche di formazione dell’opinione pubblica durante i periodi elettorali [1].

Senza stare a dilungarmi eccessivamente sui tecnicismi, la scienza della complessità si differenzia per alcuni aspetti dal metodo classico. Innanzitutto, quasi per definizione di sistema complesso, siamo di fronte a processi dal comportamento caotico, nei quali a piccole perturbazioni locali possono conseguire grandi effetti globali, spesso imprevedibili. Ne consegue che la scienza della complessità è una scienza statistica, probabilistica piuttosto che deterministica, dove è importante la stima dell’errore, mai nullo. Infine l’attenzione è rivolta non ai singoli elementi del sistema, ma al suo complessivo comportamento emergente, caratterizzando questa scienza di una una visione globale, olistica, in aperto contrasto con un’impostazione classica riduzionistica, costituendone un superamento. La scienza della complessità è una scienza al macroscopio, studiando la globalità, la connessione, il sistema in rete. Non è un caso se queste discipline hanno trovato una miniera d’oro nello sviluppo delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione, che costituiscono ormai un gigantesco laboratorio a cielo aperto per l’analisi e lo studio delle reti sociali.

“Divenire cyborg” e la digitalizzazione degli affetti

David Cronenberg, regista e sceneggiatore, nonché allievo del massmediologo Marshall McLuhan, con il suo geniale e profetico Videodrome aveva già perfettamente rappresentato la fusione uomo-macchina di cui parlava il suo maestro e che si sarebbe riscontrata sempre più con il passare del tempo. Immaginando di proiettare le teorie del filosofo ai giorni nostri, se la meccanica era un estensione spaziale, e i dispositivi elettronici un’estensione del sistema nervoso centrale, i nuovi mezzi di comunicazione, con la loro pervasività e onnipresenza nella vita quotidiana, potrebbero considerarsi un’estensione della sfera emotiva, con tutto ciò che questo comporta. Nell’antichità, il demone – daemon – era lo spirito personificazione delle passioni dell’uomo. Nell’informatica, soprattutto in ambienti Unix, un demone è un programma eseguito in background, senza il controllo diretto dell’utente. Chiaramente questa è soltanto una suggestione, ma in tempi recenti sempre più è emersa la tendenza di considerare l’aspetto emotivo della psiche come un aggregato di segnali e impulsi, nella letteratura saggistica, come nel Manifesto Cyborg di Donna Haraway o la molto più recente pubblicazione del gruppo Ippolita, Anime Elettriche; così come nel mondo della fantascienza letteraria e cinematografica (Ghost In the Shell, Her, Il Tredicesimo Piano…)

Le conseguenze di questa digitalizzazione sono sotto gli occhi di tutti: il mondo del marketing e dell’opinion making non hanno mai avuto sotto il naso un’occasione così preziosa per monitorare e comprendere i flussi di pareri e pensieri di gran parte della popolazione mondiale. L’analisi delle reti sociali si mescola alla robotica, e continuamente nascono e si sviluppano nuovi ambiti di ricerca – sentiment analysis, affect computing, text analysis – per comprendere e riprodurre eventualmente tramite bot e software tutta la sfera delle emozioni umane.

Ed è così che gli algoritmi di Facebook finiscono per conoscerci meglio del nostro migliore amico e con la sua “filter bubble” sa consigliarci i post (secondo lui) a noi più appropriati [2], le previsioni sui risultati dei referendum o delle elezioni americane si fanno analizzando i social, mentre qualcuno ha pensato di scrivere un algoritmo capace di riconoscere un depresso tramite le immagini caricate sul profilo Instagram [3].

Gli scenari che si aprono riguardo gli sviluppi del controllo sociale sono, ad una prima impressione, a dir poco preoccupanti. Si calcola che ogni anno vengono prodotti più dati socioeconomici che in tutta la storia precedente dell’umanità. Spostamenti individuali, transazioni finanziarie, emozioni e gusti personali: la mole di dati oggi a disposizione è tale da non avere attualmente strumenti adatti per saperla gestire, tanto da portare alla nascita di un apposito settore dell’informatica, la Big Data Analysis, dove tramite reti neurali artificiali e algoritmi di apprendimento automatico (machine learning) si cerca di simulare la capacità umana di riconoscere pattern, corrispondenze, trend e informazioni utili per dedurre previsioni a partire dai dati in proprio possesso. Secondo l’utopia deterministica, conoscendo la posizione di tutti gli atomi e tutte le forze dell’universo è possibile prevedere il futuro in qualunque istante. Chiaramente questo è uno scenario irrealizzabile, ma se pensiamo all’ “universo” costituito dalla nostra sfera sociale, e ai dati che ogni giorno vengono inseriti in Rete, con il nostro consenso o tramite mezzi coercitivi di controllo sociale, capiamo che la possibilità di gestire grandi quantità di dati potrebbe portare a capacità di previsione e controllo fino ad oggi difficilmente immaginabili.

L’ultima conclusione da trarre da tutto ciò, è che i mondi prima conosciuti come virtuale e reale si stanno confondendo, ibridando, collassano l’uno sull’altro tali da rendersi ormai indistinguibili. E l’ibridazione forse aumenterà esponenzialmente, con lo sviluppo dell’Internet Of Things, nome con cui si identifica l’estensione di internet al mondo degli oggetti di uso comune, e con l’introduzione nei media delle tecnologie di realtà aumentata. Basti pensare che, dopo l’uscita del gioco virale Pokemon Go, alcuni bar e ristoranti americani hanno aumentato il fatturato del 75% attirando clienti grazie a “moduli esca” collocati nella mappa virtuale del gioco in corrispondenza della propria attività commerciale.

Se per mondo reale intendiamo il luogo in cui avvengono creazioni di flussi, informazioni e identità, allora la Rete è il mondo reale, lo spazio virtuale è il mondo reale, il mondo reale è il mondo reale. E in quanto tale è un mondo in cui il potere erige i propri dispositivi di controllo, il mercato cerca i propri spazi, lo sfruttamento assume nuove forme, e di conseguenza dove si necessitano nuove pratiche di conflitto.

Strategie tecnopolitiche ai tempi dell’iperconnessione

Approcciandosi a questo nuovo scenario con spirito critico, si rischia di commettere (almeno) tre tipi di errore: il primo è l’elogio della realtà à-la-Matrix, rifiutando di riconoscere l’importanza dello spazio virtuale nella formazione dei processi socioeconomici, e in quanto tale spazio di importanza strategica nelle pratiche di lotta. Il secondo errore, diametralmente opposto e alimentato dalla forte individualizzazione delle nuove tecnologie, è la chiusura nel mondo virtuale, elaborando azioni di sabotaggio che dimenticano l’interazione con la piazza l’ aggregazione al fuori dello schermo. Il terzo, forse più subdolo, è considerare le nuove tecnologie di mappatura e analisi dei dati come intrinsecamente oppressive, e in quanto tali non sfruttabili in termini di resistenza. A tutto ciò si aggiunge il fatto che nel mondo virtuale-reale la dicotomia locale/globale è esplosa, l’iperconnessione crea uno spazio dotato di una nuova metrica, nuove distanze, in cui è possibile interferire nella comunicazione di una grande azienda oltreoceano “semplicemente” dirottando un hashtag, reperire scambi di mail governative grazie ad un leak messo a disposizione da qualche infiltrato, innescare piccole perturbazioni dagli effetti amplificati e moltiplicati su scala maggiore.

Da queste premesse forse è possibile costruire le basi per nuove strategie tecnopolitiche: pensare globale per agire glocale, riscattare le potenzialità di interferenza delle singole parti nel funzionamento del sistema. Ibridando pratiche di resistenza digitale con le mobilitazioni nei quartieri, nelle strade, nelle università. Occupando lo spazio emotivo-virtuale costruendo campagne di immaginario. Elaborando forme di riappropriazione di reddito. Tra i tanti esempi virtuosi che possiamo citare, un primo senz’altro è l’uso degli strumenti di social network analysis – il software gephi in primis – riguardo le mobilitazioni spagnole del 15M, di cui largamente già si è discusso [4], e in molti altri casi di tweetstorm che accompagnando giornate di protesta hanno aiutato a portare i riflettori della stampa sulla piazza (tra i vari, ricordiamo la mappa delle fughe di Renzi [5] segnalate con #Renziscappa e il clamoroso sabotaggio social a scapito di Enel e della sua campagna #Guerrieri [6]).

Passando dal mondo reale-virtuale dei social network a quello della finzione finanziaria, non si può non ricordare il progetto Robin Hood Minor Asset Management Cooperative [7], “la pecora nera dei fondi d’investimento che piega i poteri della finanza alla produzione e alla salvaguardia del comune”. Robin Hood è un collettivo che, come nella Sherwood di 600 anni fa, attacca le strade dove passa la ricchezza sottratta al popolo per redistribuire il bottino, anche se i metodi sono cambiati. “Robin Hood fa uso di Big Data, algoritmi e blockchains, segue le operazioni della borsa americana, accumula banche dati di operatori finanziari, e mette a disposizione di tutti i loro più importanti mezzi di produzione”. Un esempio di autoformazione sui traffici e i nuovi flussi, un esempio di riappropriazione 2.0 finalizzato alla redistribuzione di ricchezza.

Ma gli esempi potrebbero continuare, e se ne dovranno costruire altri, al passo con i tempi, studiando le nuove tecnologie. Questa è la partita, questa è la nuova sfida. Inventare nuove pratiche di resistenza, dentro e contro la complessità, dentro e contro il virtuale-reale. Imparare a divenire cyborg connessi, ladri di dati, macchine ribelli.

[1] www.if.pw.edu.pl/~atomic/p2006_1.pdf

[2] http://motherboard.vice.com/it/read/facebook-filter-bubble-algoritmo

[3] https://www.technologyreview.com/s/602208/how-an-algorithm-learned-to-identify-depressed-individuals-by-studying-their-instagram/

[4] http://www.dinamopress.it/news/tecnopolitica-%E2%80%93-parte-i

[5] https://public.tableau.com/profile/andrea.finizio#!/vizhome/Renziscappa/Dashboard1

[6] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=14311

[7] http://robinhoodcoop.org/

*tratto da euronomade.info