approfondimenti

ROMA

L’odonomastica coloniale della Garbatella

Un lungo viaggio, tra storia e geografia, nel quartiere romano per capire da dove vengono i nomi di strade e piazze: dall’origine popolana alle recenti proposte di re-mappatura, passando inevitabilmente per il periodo fascista

Un popolo di santi e missionari, di naviganti e uomini di mare, di capitani coraggiosi e di virtuosi della fede. E anche, ahinoi, di colonizzatori e inquisitori in tonaca e crocefisso nonché di “portatori di civiltà” a mano armata. Questo infatti il quadro dei rimandi storici che viene fuori da un’attenta lettura delle strade della Garbatella la cui prima sistemazione risale agli esordi del fascismo.

La pietra d’angolo con tanto di data in versi scalpellata nel marmo – «per la mano augusta del Re… questo aprico quartiere fondato oggi XVIII Febbraio MCMXX» – non s’era infatti ancora ripresa dalle generose cucchiare di malta e dalla cerimonia innaffiata d’acquasanta che, intorno ai primi lotti di Piazza Brin, la borgata già godeva delle attenzioni di cartografi e regi commissari. Come informa la Deliberazione comunale 1281 firmata dal Regio Commissario Filippo Cremonesi – Cav di Gr Cr è la raffica di consonanti dei suoi titoli in sigla – la riqualificazione delle strade del Suburbio Ostiense parte di 30 luglio 1925 e divide le vie di Garbatella in due porzioni con la linea di separazione segnata dall’asse che da piazza Sauli punta a settentrione per via Giovan Battista Magnaghi.

Al di qua della linea, verso l’Ostiense, si celebravano gli armatori, gli scrittori di cose navali, il genio militare degli ingegneri nautici, gli ammiragli. Al di là della stessa, nel versante che saliva lungo via delle Sette Chiese in direzione dell’Appia, si santificava invece il ricordo «dei Missionari italiani i quali – recita sempre il testo regio – contribuirono a diffondere insieme al Vangelo la civiltà mentre i più moderni di essi contribuirono all’incremento della nostra cultura e del sentimento patriottico sia nelle Colonie che all’Estero».

Ed è su questa bella sintesi di Vangelo e moderna opera di civilizzazione, di sentimento patriottico e cultura coloniale, che alcuni nomi si staccano dagli altri.

Le dediche, riportate nelle targhe, sono scarne e opache per il secolo ormai trascorso ma inevitabilmente, una volta scosse dalla ritrovata sensibilità dei tempi correnti, appaiono più che bisognose di una sana rimessa in discussione.

Foto da Flickr

La Concordia smarrita

Due passi indietro prima di sfogliare l’album delle figurine. La borgata giardino inizialmente doveva chiamarsi Concordia. Nome evocato nei giorni del biennio rosso con chiara volontà di normalizzazione delle tensioni sociali che percorrevano Roma e l’Italia intera l’indomani della rivoluzione dei soviet. L’auspicio ebbe però poca fortuna. Di quella pacificazione calce e mattoni rimane infatti solo traccia nei progetti di Paolo Orlando, tecnocrate visionario, esponente della Lega Navale, portavoce degli industriali romani, sognatore dello sviluppo marittimo della città oltreché eminente iscritto all’Associazione antibolscevica.

Di ben altra consistenza invece, impastato di terra e suoni color del vino, il nome attuale del posto. È una delle più raccontate e abusate narrazioni sul quartiere quella che riguarda l’origine della sua identità anagrafica ma ci sta tutta.

Garbatella, nelle descrizioni di guide turistiche stile acquarello di Roesler Franz come nelle stornellate da fagottari fuori porta, rimanda infatti a un’ostessa garbata, di piacevoli forme e modi gentili, conviviale e pronta, del tutto inserita nel piccolo mondo antico della campagna romana.

Il toponimo del resto precede di svariati decenni l’apertura dei cantieri dei primissimi lotti. Nelle spianate a ridosso dell’ansa del Tevere, informa a inizio ‘800 monsignor Nicola Maria Niccolaj, «l’aria è della più mal sana […] quantunque il terreno sia molto fertile e ne’ Monti poi detti di S. Paolo, che di là si stendono verso la parte di S. Sebastiano, vi si producono i vini molto generosi».

Uve di svariata consistenza crescevano dunque nelle tenute padronali a ridosso delle Sette Chiese e la qualità locale esaltava la fantasia del classificatore: cacchione nero o paonazzo, pampanaro, bellabona, zinnavacca o pacioccone, nero ferrigno altrimenti detto cesanese, bellona e chiapparona, trebbiano verde e giallo, bonvino oppure gabbavolpe. L’andamento mammellare del territorio, chiazzato a tratti da radure di bosco forte, non mancava poi di uliveti e frutteti o altre piante d’ogni tipo e queste, piegate alla servitù d’una nobile missione, s’andavano a maritare con i filari finendo così per svolgere un ruolo di sostegno alla vite e ai suoi rami resi sghembi dal peso dei grappoli.

Il ministro di papa Pio VII chiamava questo metodo di coltivazione «a barbata» o «a garbata» e più d’uno ha voluto bollare con questa immagine l’etimo del posto.

Mettendo però da parte gli studi dell’agronomo sono le ricerche firmate Roma Tre, approfondite meglio su recentissime pubblicazioni1, a riportare il parto del quartiere alla proprietaria di trattoria di campagna. Si chiamava infatti Garbata la madre dell’ostessa di buona fama il cui diminutivo, proletario e forse allusivo di antico mestiere, al regime fascista stava poco o nulla simpatico.

«Il Fascismo – scriverà Mario Lolli2 – lotta quindi contro l’analfabetismo, la bestemmia, il turpiloquio, la degenerazione dell’urbanesimo e le varie forme di delinquenza […] Si mutano nomi a città e regioni per riavvicinare gli abitanti allo spirito delle tradizioni e non vi è in Roma chi non veda come l’errata denominazione di qualche quartiere crei antipatia verso luoghi infamati dai movimenti sovversivi dei tempi che furono. Perché – insisteva il Lolli – dobbiamo continuare a chiamare Torpignattara e non Due Allori quella zona che accolse la caserma della Guardia Imperiale? Che dire poi della Garbatella il cui nome deriva da una donna, proprietaria di modesta trattoria, sin troppo garbata? Oggi vivono là migliaia e migliaia di famiglie che non possono non ribellarsi a una tradizione priva di contenuto morale e a cui solo potevano adattarsi i covi sovversivi di ieri e quella plebe che il Fascismo ha trasformato in onesto popolo lavoratore».

Di qui la proposta di appellare la borgata col nome di Remuria gratificandola così della leggenda, cara allo storico tedesco Barthold G. Niebuhr poi ripresa dal Nibby, che proprio lì sui colli di San Paolo fosse la mitica città segnata da Remo, il lento tra i due, devoto a Murcia dea dell’inattività, soggetto separatista quindi sfortunato competitore del gemello Romolo, tipo un po’ imbroglione ma lesto, prepotente quanto votato alla guerra e al momento giusto ben servito dalla spada omicida di Celere, nomen omen, suo capo delle guardie.

Strade di quartiere

Quando il segretario di Arpinati propone, con scarso successo in verità, di sostituire la donna «sin troppo garbata» con altro eponimo ci troviamo nel momento di crescente consenso verso il regime. Primo Carnera è ancora campione del mondo e ignora la potenza di quel gancio destro dell’ebreo Max Bear che a breve lo stenderà, la nazionale di Pozzo con la mano a paletta si candida a vincere titoli mondiali, la bonifica pontina sposa l’architettura dei razionalisti, nella cintura della capitale l’Iacp tra uno sventramento e l’altro semina la periferia di case rapide ed economiche, popolari se non popolarissime.

Ancora poco e arriveranno i giorni dell’entusiasmo imperiale, di Faccetta Nera bonacciona e delle strimpellate su «Er Neguse da piccolo faceva l’aviatore», mentre, con altra colonna sonora in sottofondo, sull’Amba Aradam tra il prode Badoglio e il macellaio Graziani è gara a trattare «gli abbissini» a tritolo e iprite. In tanto furore civilizzatore a Roma c’era appunto chi festeggiava e chi si dava alla toponomastica. La decisione di ripulire i «luoghi infamati dai movimenti sovversivi» alla Garbatella non portò il nome Remuria ma, come altrove in città, tra il 1922 e il 1940 a ondate successive, ispirati da quel clima tossico, furono molti gli interventi di sistemazione stradale. Proviamo allora a tracciare un percorso che aiuti a fare i conti col nostro passato coloniale.

Ripartiamo da Piazza Brin e dalla sua prima pietra. Lo slargo del “pincetto garbatellesco” s’apre tra la scalinata firmata Plinio Marconi e l’asimmetrica geometria del lotto 5. Sull’iscrizione che ricorda la fondazione del quartiere, di fianco al portale d’ingresso, l’originaria vocazione marinara del borgo è rivendicata con l’intenzione di «offrire quieta e sana stanza agli artefici del rinascimento economico della capitale», mentre d’intorno sono spazi verdi ombreggiati anche da palme e papiri, acacie e piante migranti d’Africa.

L’elenco dei nomi meritevoli di targa in realtà premia un bel po’ di personaggi abituati a trattare il Mediterraneo e il Mar Rosso non certo con lo sguardo del botanico o dell’uomo venuto in pace. Benedetto Brin è uno dei primissimi personaggi da segnare sul nostro taccuino di viaggio.

«Insigne cultore dell’ingegneria navale»3, lo definisce un atto del Comune di Roma già nel settembre 1921 prenotando per lui una delle piazze d’accoglienza del quartiere. Definizione modesta visto che a lui, appena diradata la polvere della breccia di Porta Pia, si deve la riorganizzazione della flotta di guerra del giovane Regno d’Italia e la progettazione di corazzate in grado di fronteggiare l’egemonia francese e inglese.

Più volte ministro della Marina di stampo liberale, diede peraltro un contributo decisivo allo sviluppo dell’industria pesante legata alle prospettive belliche. Dopo il disastro di Adua e lo smacco alle “grandezzate” del Crispi, il Brin richiamato in servizio nel governo del marchese di Rudinì, fu poi tra i fautori di ulteriori crediti di guerra a sostegno dell’impegno sul fronte tigrino.

Quale che sia il ceppo culturale di provenienza e l’approdo politico, destra storica o sinistra risorgimentale, gli uomini di mare ricordati a Garbatella tutto sono meno che teneri naviganti o disincantati scrittori di esotiche avventure. Tra imprenditori come l’Ansaldo e il palermitano Orlando, interessanti figure post-rinascimentali come Bartolomeo Romano o Pantero Pantera, storici della marina pontificia «dal secolo ottavo al decimonono», come il frate domenicano Guglielmotti, è comunque la generazione dei generali del genio navale a occupare il campo.

Da Fincati a Ferrati a Cuniberti non è scarso di titoli il coro delle smanie coloniali dell’Italia sabauda. Volendo citarne un paio nel mucchio spiccano Edoardo Masdea, brillante realizzatore di incrociatori utilissimi nella conquista libica,4 e Luigi Luiggi, politico di lungo corso e ingegnere italiano impegnato a sistemare porti in giro per il mondo da Palermo a Tobruk a Massaua.

Il Luiggi in Eritrea il suo impegno professionale peraltro l’aveva già assolto da soldato in una prima campagna del 1882 seguita all’acquisto di Assab. Deputato del gruppo nazionalista e finalmente nel ‘24 senatore per il PNF a lui si rivolse, con l’applauso di Mussolini, il commiato funebre di Luigi Federzoni. «Il fascismo piange uno dei suoi veterani più insigni» – così l’orazione dell’ex ministro delle Colonie, che poi commosso insisteva nel ricordo della «sua ineffabile gioia.. per la vittoria del Fascismo». Tante lacrime al nostro, scomparso nel 1930, non portarono sul momento strade o vicoli ma, miracoli dell’odonomastica a lenta combustione, il torto sarà ripagato l’indomani delle Olimpiadi e con Delibera Consiglio Comunale n. 1501 del 4 agosto 1961, troverà finalmente posto tra le glorie marinare del quartiere.

Missionari e sbaraccati

Obizzo Guidotti fu uomo di penna e di spada, cavaliere dell’ordine gerosolomitano, scrittore di navigazione «colle galere pontificie e maltesi», cacciatore di corsari barbareschi e rinnegati, esperto lui stesso nella guerra di corsa cristiana e predatore di vascelli turchi, autore di azioni a scopo d’estorsione con benedizione papale e tanto altro. È una biografia interessante quella del titolare d’una scalinata che fa da stacco e ci porta verso la zona cosiddetta degli sbaraccati.

Qui peraltro uno dei punti di resistenza quando, maggio del 1970, si battagliò a lungo, da corsari sotto bandiera vietcong, contro i neri in divisa calati a difendere la sporca guerra d’Indocina. Qui le case scarne, piene di spazi comuni e stenditoi, lavatoi e giardini. È comunque un’altra pagina della Garbatella dove le costruzioni rimandano a famiglie provenienti dagli agglomerati di baracche, Ponte Milvio o Portonaccio, che il fascismo gratificava, sfogliando il vocabolario dell’emarginazione e del razzismo, col termine di «villaggi abissini».

E appunto è qui, sul confine di via Magnaghi, che cambiano i nomi delle strade e da personaggi d’acqua, d’inchiostro e polvere da sparo, si passa presto al campo dei missionari, uomini di fede e cielo, vite spese in giro per continenti secondo vocazione o, a volte, seguendo altre più materiali e aspre motivazioni.

L’area sbaraccati è chiusa tra via Giustino de Jacobis, vicario apostolico in Etiopia al tempo di papa Gregorio XVI, e la via intitolata al Cardinal Massaia, figura di spessore, la cui presenza nel corno d’Africa è densa di aspetti contraddittori.

Guglielmo Massaia, nato nel 1809 a Piovà provincia di Asti oggi Piovà Massaia, fu frate cappuccino e, prima di partire per l’Etiopia, assistente spirituale di Vittorio Emanuele II e di Silvio Pellico. Missionario per oltre trentacinque anni fu attivo nella diffusione del vaccino contro il vaiolo e promotore di buone opere presso i Galla eppure portavoce di Cavour e dei suoi successori nel negoziare con i re locali, principi abissini e signori del Tigrè, la possibile penetrazione commerciale del tricolore sabaudo. I suoi rapporti col Ministero degli Affari esteri, le relazioni con la Società geografica italiana fondata a Firenze nel 1867, la sua capacità di muoversi nella rete intricata dei regni etiopi ne fecero senz’altro un punto di riferimento per i disegni d’espansione del Regno. Fu poi tra i primi a pensare di fondare, con padre Giovanni Stella, colonie agricole nei dintorni di Massaua e, da vicario apostolico, trattò la poco cristiana vicenda di impiantare una colonia penale da quelle parti dove deportare, sul modello della Guyana francese, soggetti difficili e ergastolani votati all’evasione5.

Lì per lì non se ne fece nulla e il Massaia, grazie alle lungaggini delle discussioni che sul tema si protrassero per un ventennio, riuscirà a evitare il peso d’una infamia del genere. L’incombenza sarà poi assunta a pieno carico da Francesco Crispi, prima come ministro dell’interno sotto Depretis e poi da capo del governo, e porterà al campo di Nocra, il più grande campo di prigionia dell’Africa Orientale Italiana. Venne inaugurato nel 1887, l’anno di Dogali, e chiuso nel 1941 dagli inglesi. Era situato nell’isola di Nocra, Arcipelago di Dahlak, a 55 chilometri al largo di Massaua. Arrivò a detenere fino a un massimo di 1.800 prigionieri: un vero «campo di sterminio», secondo lo storico italiano Angelo Del Boca, capace di reggere pure la concorrenza di un lager come quello che Graziani mezzo secolo dopo aprirà nella località somala di Danane6.

Scartando a mancina su via Guglielmo Massaia in discesa c’è una viuzza dedicata a Giovanni da Capistrano che sbuca davanti la fontana Carlotta. Il colpo d’occhio sulla scalinata disegnata da Innocenzo Sabbatini è particolare ma con la bellezza del posto stride il curriculum di quel figlio d’un barone tedesco fattosi frate e poi eletto santo inquisitore per il suo «zelo a combattere l’eresia, perseguitare gli ebrei e debellare fraticelli e hussiti».

La risalita dei gradini arriva giusto giusto in piazza Sapeto, un nome di quelli che sfugge a ogni possibile doppia interpretazione. Giuseppe Sapeto, dimenticato presto dai contemporanei, fu ben rivalutato dal regime fascista per essere di nuovo derubricato al grado di missionario semplice dall’Italia repubblicana. È invece figura di spicco tra i “precursori della conquista italiana del continente nero”7.

Lo spazio a lui dedicato s’apre tra i lotti 28 e 31 e chiude la spina di quel “quartiere degli sbaraccati” disegnato dall’estro di Giovan Battista Trotta nel territorio tra l’arco di Sant’Eurosia e la scalinata di Carlotta. La piazza è piena di luce e storia, di cronaca e memoria cinematografica ma del tutto ignara delle vicende di cui fu protagonista il personaggio in targa. Missionario dell’Ordine di San Lazzaro, il Sapeto, intorno alla metà del XIX secolo seppe ben conciliare la sua attività di evangelizzatore con quella di esploratore svolgendo missioni anche per conto di Napoleone III.

Dopo diverse escursioni nelle regioni dei Mensa, dei Bogos e degli Habab, fece poi la sua scelta di vita, abbandonando la Propaganda Fide per dedicarsi alla causa della penetrazione coloniale. «Sarebbe bene – scrive in un suo rapporto privato al Ministro Michele Amari – che il Ministro della Marina mandasse alcun legno da guerra, che facesse riverire la nostra bandiera, si legasse in amicizia con alcuna di quelle popolazioni, che meglio ci potrà servire nel bisogno, e forse appartenerci nell’avvenire».8

È dunque ricordato per aver dato all’Italia il suo primo porto africano, quello della baia di Assab, acquistata nel 1869 da Raffaele Rubattino, proprietario della Compagnia di Navigazione di Genova e poi nel marzo 1882 riscattata dal Governo italiano per impiantare qui la sua prima testa di ponte “imperiale” sul Mar Rosso.

Estrinsecazione 1940

Il 10 giugno da Palazzo Venezia affacciato al balcone Benito Mussolini annuncia l’entrata in guerra e giusto sei mesi dopo il sindaco governatore Giangiacomo Borghese firma la Deliberazione 4105 addì 12 dicembre 1940. L’occasione è il progetto del quartiere dell’Esposizione E42 e la città viene gratificata d’un elenco lunghissimo di strade, molte solo sulla carta, da «assegnare a rappresentanti della cultura, assertori di nuove idee nonché forme di estrinsecazione del progresso dei nostri tempi».

Nell’overdose di tripudio bellico la città si ritrova via dell’Impero e Piazzale Hitler, viale dei Martiri Fascisti e via delle Corporazioni – senza dimenticare le Legioni romane, il Libro e Moschetto, il IX Maggio della vittoria in Etiopia, l’omaggio alla Madre Italiana e a Rosa Maltoni Mussolini, «grande educatrice e madre gloriosa». Molte di queste attribuzioni saranno cancellate già prima del 25 aprile di Liberazione9 ma molte troveranno modo di risorgere dalla carta a guerra finita.

L’espansione della città e gli anni Cinquanta della sconfitta confondono la memoria, disperdono gli archivi, annacquano le biografie e Roma si ritroverà via Paolo Orano e via Antonio Locatelli, via Ferdinando Martini10 assieme un’altra infornata di esploratori e missionari a vario titolo implicati in avventure d’arme e commerci in terra d’Africa.

La zona Ostiense e Garbatella vanta un buon numero di queste storie.

Riprendendo il passo da Piazza Sapeto la sagoma dell’Albergo Rosso ci orienta subito verso Piazza Michele da Carbonara, primo prefetto apostolico in Eritrea e protagonista di un lavoro intenso speso alla riorganizzazione dell’attività missionaria per integrarla con l’esercizio dell’autorità coloniale.

La Circonvallazione Ostiense fa da tetto d’asfalto all’Almone, fiume sacro ai romani, che scorre interrato in direzione del Tevere. Il posto era esposto alle esondazioni della marana della Rota Rossa e Carlo Levi arrivato in jeep alla ricerca di Fanny, misteriosa amante del suo amico Marco (Mario Soldati), non riusciva a trattenere sdegno e sgomento: «Si vedevano archi grigiastri di cemento –scrive nel romanzo L’Orologio – Il terreno era tutto coperto da qualche metro di rifiuti, sterco diventato solido e grigio, a monticciuoli separati da pozze di liquido nerastro… E quelle costruzioni mostruose e sudicie, anacronistiche e tristi come la camicia da sera che un selvaggio ubriaco infili sul nero corpo dipinto».

Stesse immagini per il Tommaso «impaturgnato» di Una vita violenta che Pasolini segue «tutto impiastrato le scarpe nel pantano nero impuzzolito» salire verso «la spianata lunga quasi un chilometro della Garbatella». Le descrizioni hanno pochi anni di distanza tra loro e il quartiere è un posto di frontiera per cui non sono risparmiate immagini care a esploratori di fine ‘800. E le strade disegnate dalla ricostruzione riportano in vita un po’ di questi personaggi: Giuseppe Vigoni detto Pippo, Pietro Felter, «l’africano di Vallesabbia», Carlo Citerni, medaglia d’oro per meriti esplorativi, Giacomo Trevis «promotore della colonizzazione della Somalia».

Tra tutti comunque a imporsi è la biografia di Manfredo Camperio, eroe risorgimentale protagonista delle Cinque giornate di Milano, esponente della Società Geografica Italiana e poi fondatore della Società di Esplorazione Commerciale in Africa, fervido sostenitore del diritto italiano a piantare «la bandiera, pacifica e civilizzatrice, così nei mari lontani come nelle terre tutt’ora inesplorate, ove aprire nuovi mercati ai commerci»11.

Le parole sono del 1887 e corrono tra le pagine del suo libro di memorie. «Esplorare prima di combattere» – ammoniva convinto e, per tanto merito, una via col suo nome, all’altezza di Santa Galla, sbuca proprio su quella Circonvallazione Ostiense dove dal lato opposto sfocia un’altra di quelle vie fascistissime e singolari, benedette nel 1940 dal Benito duce dell’Impero ma inaugurate nel 1954 quando il «Mascellone ebefrenico, Poffarbacco, Fabulatore ed Ejettatore, Scipione Affricano del due di coppe» (per citare solo un pugno di espressioni gaddiane12) era bello che trapassato.

Il quadro della toponomastica coloniale si completa dunque “in gloria”, almeno per quanto riguarda Garbatella, con il nome di Padre Reginaldo Giuliani. La sua biografia è un inno al protagonismo cattolico di forte impronta fascista: ardito nel primo conflitto mondiale, sacerdote e predicatore antisocialista, è con d’Annunzio a Fiume alla testa degli squadristi cattolici delle Fiamme Bianche. Arcitifoso di Mussolini, cappellano delle Camicie Nere e sostenitore fomentato dei Fasci italiani di combattimento, il Giuliani a 48 anni si arruola volontario nella guerra d’Etiopia, partendo nell’aprile 1935 quale prete centurione del Primo Gruppo Battaglioni Camicie Nere d’Eritrea sotto il comando del generale Filippo Diamanti.

Troverà, da «sacerdote crociato», la morte nel gennaio del 1936 nella battaglia di Passo Uarieu entrando così, di diritto, «nel pantheon dei caduti della rivoluzione fascista». Il regime fascista del resto non mancherà di esaltarlo nella propria propaganda considerandolo poi non tanto come martire cristiano quanto “perfetto milite fascista, obbediente, spartano, fideisticamente convinto della bontà e del successo della causa nazionale».

La figura di un Padre Giuliani tanto ben marcata finirà pure nelle strofe delle cantate legionarie13, quelle piene di eja eja alalà al duce e accompagnerà con la fanfara tutte le nefande avventure del Fascismo più turpe: dai massacri in Etiopia alla collaborazione col golpe di Franco in Spagna, dalla guerra al fianco di Hitler alla repressione antipartigiana e ai crimini dei repubblichini di Salò.

Re-Mappatura

In amarico la parola Tezeta significa ricordo, reminiscenza o memoria, anche nostalgia. Tezeta è il nome di un collettivo che ha spostato il discorso del colonialismo italiano dalle pagine dei libri alle strade di Roma con percorsi urbani pieni di storie e testimonianze ritrovate in un quartiere come l’Africano, dove le vie si chiamano Asmara, Senafe, Agordat, Massaua, Dancalia.

Tezeta Abraham è anche il nome di una giovane attrice nata a Gibuti, nel Corno d’Africa e venuta a Roma all’età di cinque anni. Il suo volto è apparso qualche mese fa dentro i lotti “degli sbaraccati” a ridosso di Piazza Sapeto in una esposizione di foto stese nei cortili come lenzuoli al sole.

L’iniziativa svolta all’interno della rassegna Garbatella Images 202014, aveva in mostra diversi scatti di artisti e quelli con Tezeta erano firmati da Bénédicte Kurzen giovane fotografa di Lione che da anni ha scelto l’Africa come suo territorio di narrazione e vita. Nelle suo foto il volto di Tezeta, la forma del viso, il taglio degli occhi e dei capelli, si confondono con il rosso e l’ocra dei muri di Garbatella, nel barocchetto dei palazzi, rompendo la geometria delle case per far emergere dai nomi delle strade un passato poco o nulla raccontato.

«Il disegno dell’Albergo Rosso su via Guglielmo Massaia e le facciate di piazza Giuseppe Sapeto – ha scritto la Kurzen – sono diventati i nostri teatri. Tezeta col suo corpo, io con i miei scatti, abbiamo solo provato a dare un’altra mappa di questo quartiere per mettere in discussione la presenza di uomini considerati onorati e rileggere il passato coloniale di questo paese».

Re-Mappatura è il nome scelto da Bénédicte Kurzen per il suo lavoro. «I nomi delle strade sembrano essere dettagli minimi eppure sono parte essenziale della nostra geografia quotidiana. La mappa della città che ci viene offerta è una scelta politica ed è parte del tessuto narrativo dominante che plasma la nostra memoria. Va cambiata».

1 G. Guidoni, Mamma Garbata, la Garbatella svelata in Garbatella 100. Il racconto di un secolo, Iacobelli Editore Roma 2020, pp. 11-24.

2 M. Lolli, Come si dovrebbero chiamare la Garbatella e Tor Pignattara, “Il Lavoro Fascista”, 23 gennaio 1934.

3 Atto della Giunta Municipale n. 60 del 16 settembre 1921.

4 «Naviga, o corazzata / Benigno è il vento e dolce la stagion / Tripoli, terra incantata / Sarai italiana al rombo del cannon» (Tripoli bel suol d’amore di Giovanni Corvetto e Colombino Arona, Torino 1911).

5 «Infatti nel 1859 il cardinale Massaia aveva scritto di comunicare al ministro Cavour che il deggiasmac Negussiè signore del Tigrai era disposto a cedere, dietro compenso pecunario, un tratto di costa tra Zule e Amfilè per fondarvi una colonia penale», vedi G. Macaluso-Aleo, I primi passi dell’Italia in Africa, in “Revue d’histoire des colonies», t. 20, n° 88, Juillet-août 1932.

6 A. Del Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005.

7 C. Cesari, Manuale di storia coloniale – origine e sviluppo dei possedimenti d’oltremare italiani e

stranieri, Licinio Cappelli Ed., Bologna 1937, p. 297.

8 G. Sapeto, Relazione del viaggio da me fatto nel mar Rosso. Risposta alla lettera di sua Eccellenza il signor Ministro della Istruzione Pubblica del 4 luglio 1863.

9 Vedi https://www.comune.roma.it/servizi/SITOWPS/getPDFDelibera.do?codiceDelibera=39 (Deliberazione 14 del 2 febbraio 1945)-

10 «Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente», così Ferdinando Martini nel suo Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi, diario di un viaggio in Eritrea, Treves, Milano 1896.

11 Manfredo Camperio, Da Assab a Dogali. Guerre Abissine, Fratelli Dumolard Editori, Milano 1887.

12 S. Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998, pp. 132-133.

13 «Gronda di sangue il gagliardetto nero / che contro l’Amba il barbaro inchiodò / Sui morti che lasciammo a Passo Uarieu / la Croce di Giuliani sfolgorò…», Auro D’Alba- Francesco Pellegrino, Cantate di Legionari, 1936.

14 L’edizione 2020 di Garbatella IMAGES è stata ideata e curata dal laboratorio 10b Photography di Francesco Zizola, con la direzione di Oriana Rizzuto.

Tutte le immagini di Claudio D’Aguanno, eccetto dove indicato e l’ultima (Garbatella Images 2020 – Foto di  Bénédicte Kurzen / Tezeta Abraham)