ROMA

Lo “sbaglio” di essere Rom. Una storia di mancate assegnazioni abitative

È durata 507 giorni la via crucis di una famiglia cacciata “per sbaglio” dall’Ufficio Rom del Comune di Roma dal container del campo di via Candoni con la falsa motivazione di essere assegnataria di una casa popolare. Ma ancora non c’è lieto fine

Quella che vi raccontiamo sarebbe una storia a lieto fine se i protagonisti non fossero rom che, si sa, non sono autorizzati ad avere storie a lieto fine. Tutto comincia il 6 luglio del 2018 quando a Giuliano Nae e ai suoi due figli minori viene finalmente assegnata una casa popolare composta da una stanza cucina e bagno. Un bel colpo, addirittura migliore di quello di un anno e mezzo prima quando all’intera famiglia Nae, nove persone, venne dato un modulo abitativo nel campo di via Candoni. Ora che tre componenti hanno una casa vera, i cinque nel container avranno qualche centimetro di spazio vitale in più.

Invece no. Quasi un anno dopo, siamo a giugno 2019, al padre di Giuliano viene consegnato un documento dell’Ufficio rom del Comune di Roma nel quale si comunica la revoca della misura di accoglienza «per l’assegnazione di un alloggio Erp». Fabrizio Fraternali, responsabile del procedimento, intima di lasciare l’alloggio entro 72 ore.

 

E, siccome non lo fanno (e come potrebbero?), tre settimane più tardi vengono sgomberati con la forza e finiscono in mezzo alla strada.

 

«C’è stato un equivoco – ha cercato di spiegare Giuliano – la casa è stata assegnata solo a me e ai miei due figli, non a tutti. E, del resto, come potremmo stare in nove in una casa di una sola stanza?».

Niente da fare. Cittadinanza e Minoranze, l’associazione di cui fa parte chi scrive, chiede all’ufficio un incontro urgente, ma ci riesce solo dopo aver minacciato di rivolgersi a un legale. I funzionari ammettono l’errore ma “purtroppo” quel modulo è già stato assegnato a un’altra famiglia. Allora? Comincia il gioco del funzionario buono e di quello cattivo, il primo è dispiaciuto, il secondo è irremovibile e sospettoso.

Marco Brazzoduro, presidente di Cittadinanza e Minoranze, la racconta così: «Hanno cercato in tutti i modi di non riconoscere l’errore facendo il pelo e il contropelo alla famiglia cercando di scovare qualche irregolarità. È un po’ la filosofia che li ispira nella gestione dei diritti dei rom: cercare espedienti per scremare il numero delle persone.

 

Non li anima uno spirito di solidarietà per chi ha la sfortuna di vivere in stato di bisogno andando a cercare chi sta male.

 

Al contrario, si parte dal pregiudizio che i rom sono imbroglioni e truffatori e quindi sono soddisfatti quando possono escludere qualcuno. Ecco, li anima lo spirito dell’esclusione e non dell’inclusione».

Questa ignobile farsa dura 507 giorni, costellati di carte da bollo, diffide, intimazioni, minacce di denunce per abuso di atti d’ufficio che la nostra associazione e la famiglia Nae hanno potuto portare avanti grazie alla perseveranza dell’avvocato Giuseppe Siviglia fino a che, pochi giorni fa, arriva l’annullamento del provvedimento di revoca delle misure di sostegno ai 5 (il sesto, nel frattempo, è morto) della famiglia Nae.

 

Ora l’avvocato è intenzionato a chiedere il risarcimento dei danni, ma è più per orgoglio che per convinzione.

 

Ma ecco perché non ce la sentiamo di parlare di una storia a lieto fine. Lo abbiamo scoperto leggendo con attenzione le penultime due righe del comma 3) della determinazione dirigenziale 30/11/2020 che, dopo tanti “premesso che” e altrettanti “considerato che” e “attestato che” e “rilevato che” e “dato atto che”, così recita: «l’Ufficio speciale Rom, Sinti e Caminanti assegnerà ai componenti del nucleo familiare di cui al punto 1) un modulo abitativo nel campo di Candoni non appena se ne libererà uno idoneo». E la ruota della giostra riparte.

 

Immagine di copertina dal sito web di Cittadinanza e Minoranze