ITALIA

«L’Italia è un paese meticcio»: voci dalla piazza del 3 ottobre

«Non può essere il colore della pelle a definire ciò che sono». Le voci dalla piazza del 3 ottobre a Roma raccontano come il nostro paese troppo spesso esclude e lascia senza diritti chi non è bianco

Non ha piovuto sabato pomeriggio a Roma, ma il timore della pioggia ha probabilmente influito sul numero dei partecipanti alla manifestazione “Legge di cittadinanza: Articolo 3”. Organizzata da un nutrito numero di associazioni, la mobilitazione ha richiamato in piazza dei Santi Apostoli alcune centinaia di persone per chiedere sia nuovi e più inclusivi percorsi d’accesso alla cittadinanza italiana sia l’abrogazione dei decreti sicurezza approvati durante il governo Conte I.

 

«C’è gente che si chiede perché accostare i figli dei migranti e quindi la cittadinanza ai decreti sicurezza e agli accordi con la Libia, ma io sono un profugo del ’91: avevo quattro anni quando sono arrivato qui, per scappare dalla guerra civile in Somalia. Adesso ne ho trentatré e ancora non ho la cittadinanza».

 

Amin Nour è un attivista di Neri Italiani – Black Italians (NIBI) e uno degli organizzatori della manifestazione, tra i primi a parlare sul palco. «Oggi scendiamo in campo per chiedere giustizia, per chiedere equità e uguaglianza. Abbiamo citato l’articolo 3 nel nome della manifestazione: 3 ottobre, legge di cittadinanza, articolo 3».

 

 

Un altro degli organizzatori, SiMohammed Kabour del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane (CONNGI), utilizza un riferimento all’attualità per raccontare le istanze della manifestazione: «Ha fatto scalpore la velocità con cui si è concessa o si stava concedendo la cittadinanza a Suarez perché è l’espressione di un privilegio: arriva quel momento in cui sbatte contro la realtà, ci si rende conto che ci sono corsie preferenziali. E allora a quel punto ci domandiamo cos’è l’italianità? La capacità di condividere e praticare certi valori o l’essere portatore di una qualche risorsa? In questo caso si tratta di competenze sportive, più spesso di capitali».

 

«Perché l’aspetto economico riguarda sempre la cittadinanza: tra i requisiti che si chiedono a una persona che cresce in questo paese c’è il reddito. Si può essere italiani da una cifra in su. Se uno nasce povero, è condannato a essere povero e straniero».

 

Il caso Suarez ha reso evidente agli occhi di tutti gli italiani che le attuali tempistiche, addirittura allungate dai contestati decreti sicurezza, non hanno ragion d’essere. Qualcuno però ha legittimamente vissuto la vicenda con particolare indignazione. È il caso anche di Benedicta Djumpah del movimento Italiani Senza Cittadinanza: «È vergognoso che un cittadino straniero che non ha mai vissuto nel nostro paese, solo perché è un calciatore miliardario, riesca ad avere accesso alla cittadinanza, mentre ci sono milioni di ragazze e ragazzi che nascono, crescono, parlano la lingua, appartengono ai territori e non vengono riconosciuti come parte del paese».

 

 

Quando le chiediamo se è favorevole allo Ius Culturae, Benedicta non ha dubbi: «Dobbiamo pensare a una riforma della cittadinanza che vada oltre la terminologia, che comprenda chi nasce e chi cresce in Italia. Per chi nasce bisogna anticipare i tempi che riguardano la concessione della cittadinanza che comunque spetta di diritto; per chi cresce invece bisogna trovare un percorso specifico, perché chi arriva a nove mesi o sei anni e cresce in Italia, non può trovarsi a trent’anni a non essere ancora cittadino. Siamo precari: siamo giovani italiani precari».

Julia Vergara è più giovane di Benedicta ed è scesa in piazza con tutta la famiglia: «I miei sono di origini sud-americane, più precisamente dell’Ecuador. Io però sono nata qua in Italia, ho diciott’anni e ancora non sono cittadina di questo stato. È un mio diritto, non può essere il colore della mia pelle a definire chi o cosa sono: io mi sento italiana dentro e fuori».

 

«Purtroppo invece troppo spesso è ancora il colore della pelle a costituire una barriera».

 

Ce ne dà conferma anche Antar Marincola, nipote del partigiano afro-italiano Giorgio Marincola, al quale sarà intitolata la fermata del tronco di metro C di prossima realizzazione: «Io sono qua in Italia sin dalla metà degli anni Ottanta e c’è una cosa che mi è sempre più chiara. L’italiano medio si pensa bianco. L’Italia è un paese bianco. Io mi potrei anche chiamare Gianni Caruso o Gianni Rossi, ma ci sarebbe sempre qualcuno che mi direbbe di tirar fuori il permesso di soggiorno. Quindi è questa la grande questione in questo paese, la vera difficoltà che ostacola la legge sulla cittadinanza: l’Italia non fa i conti, non vuole fare i conti, con la realtà. E la realtà è che l’Italia è un paese meticcio. Con una legge sulla cittadinanza è come se l’Italia ammettesse a se stessa che è multiculturale e multietnica».

 

 

Antar è arrivato da Bologna ed è salito anche sul palco a parlare, di suo zio e non solo. Lavinia invece è venuta a Roma con l’associazione Collettivo Primo Contatto di Latina. Anche lei però concorda sulla necessità di lasciarsi alle spalle un immaginario oramai anacronistico: «Anche i migliori insegnanti e i migliori educatori purtroppo sono ancora intrisi di cultura coloniale, senza neanche esserne consapevoli: a partire dal lessico per finire con la progettazione didattica, che in questa non valorizza la diversità, ma finisce per ghettizzarla e riprodurre modelli stantii».

 

«Insieme a Lavinia, operatrice umanitaria e docente universitaria, per il Collettivo Primo Contatto è presente anche Mahamadou Ba: «Io sono arrivato dal Mali tre anni e dieci mesi fa: il 16 dicembre 2016».

 

«Sono arrivato con la barca e all’inizio ho avuto esperienze bruttissime che mi hanno convinto ad andare a scuola. Adesso lavoro come addetto alla sicurezza in un supermercato. Però contribuisco anche alle attività del Collettivo, che si occupa di giustizia sociale».

 

 

Simone è venuto dalle Marche a Roma apposta per la manifestazione e ha portato con sé anche la sorella adottiva. Non parla di giustizia sociale, forse perché troppo giovane o, più probabilmente, perché conosce meglio l’ingiustizia: «Io sono burkinabè e italiano: ho la fortuna di avere la madre italiana, quindi ho la cittadinanza, ma è ingiusto che soltanto un tale legame possa concedertela in fretta. Secondo me la cittadinanza è un diritto. Lei per esempio è stata adottata: sono quasi dodici anni che sta in Italia, ha studiato qua e lavora qua. I suoi affetti e noi, la sua famiglia, siamo qua: è giusto che tutto questo le venga riconosciuto».

 

Immagine di copertina e foto nell’articolo: Mario Ferrari