EUROPA

L’inizio della fine dell’Università neoliberale?

Lo sciopero dei docenti e dei ricercatori in Uk contro la riforma delle pensioni sta riscuotendo uno straordinario successo. L’allargamento delle mobilitazioni anche alla componente studentesca sembra alludere alla possibilità di una messa in discussione complessiva dell’impianto neoliberale dell’università inglese, fatta di precarietà, “meritocrazia” e indebitamento studentesco

Il primo giorno del più grande sciopero mai messo in pratica nelle Università del Regno Unito si è rapidamente trasformato in quella che senz’ombra di dubbio può definirsi una giornata storica. Decine di migliaia di ricercatori e professori in tutta l’isola britannica si sono sottratti dalle proprie mansioni, organizzando picchetti alle entrate dei dipartimenti, assemblee, presidi e cortei contro la riforma delle pensioni proposta dai vertici delle Università. Uno sciopero di 14 giorni che coinvolgerà più di un milione di studenti e che comporterà la cancellazione di quasi 600.000 ore di lezione. Nonostante gli evidenti disagi e il profondo impatto sul percorso formativo di studenti che pagano tasse annuali di 9.250 £, le pratiche di sciopero messe in campo dallo staff accademico hanno incontrato manifestazioni di solidarietà da parte degli stessi studenti che secondo i sondaggi odierni appoggiano in massa lo sciopero (oltre il 65% si è dichiarato favorevole e solidale con il personale accademico in sciopero) e ne condividono le motivazioni, arrivando addirittura ad occupare la sede di Universities UK, l’equivalente della CRUI italiana e controparte del sindacato in questa vertenza sulle pensioni.

Questa solidarietà da parte del corpo studentesco non era affatto scontata e riveste una grande rilevanza dato il processo di trasformazione neoliberale delle Università anglosassoni iniziato dal New Labour di Blair e portato ormai a quasi compimento dagli ultimi governi Tories.

È  importante sottolineare che questo sciopero del personale universitario si inserisce nell’onda lunga del dibattito sulla Higher Education iniziato nel corso della scorsa campagna elettorale durante la quale il leader del Labour Corbyn annunciò la cancellazione delle tasse universitarie qualora avesse vinto. Soltanto pochi giorni fa la premier May di fronte all’avvicinarsi dello sciopero, ma visti soprattutto i livelli folli di indebitamento degli studenti alla fine dei cicli di studio (l’indebitamento medio pro capite è di oltre 50.000 £, l’ammontare totale del debito studentesco è pari a oltre 90 miliardi di sterline) ha infatti dichiarato che avvierà uno studio con lo scopo di riformare il sistema col fine di «soddisfare i bisogni di tutti i ragazzi britannici in termini di istruzione» (su quale sia l’idea diffusa e condivisa di istruzione superiore nel Regno Unito torneremo più avanti). In realtà, le ricette sul piatto (in primis, la differenziazione delle tasse universitarie in base ai corsi di studio che rischia di aggravare ulteriormente il carattere classista dell’istruzione superiore) non sono minimamente all’altezza delle criticità del sistema, che, oltre all’indebitamento studentesco, riguardano: il profondo squilibrio della qualità della didattica e della ricerca fra le università britanniche; l’elevato tasso di precarizzazione del lavoro vivo all’interno dei dipartimenti con una proporzione sempre maggiore di personale non solo con contratti precari, ma pagato all’ora, con conseguenti livelli retributivi prossimi alla soglia di povertà.

Inoltre, ad essere messa a critica duramente nelle assemblee organizzate ieri al posto delle lezioni è l’ossessione “meritocratica” (leggi: di controllo e di sanzione) imposta con l’introduzione di misure bibliometriche per la valutazione della ricerca volte da una parte a stravolgere la libertà e l’autonomia della ricerca, e quindi la natura stessa dell’istruzione universitaria, e dall’altra a orientare la ricerca nella direzione, immediatamente monetizzabile, individuata dagli attori economici nazionali.

Contemporaneamente le Università nella terra di sua maestà, dalla prospettiva dei mercati finanziari e immobiliari, dell’industria del divertimento, degli interessi delle lobbies cittadine e delle grandi corporations, costituiscono una vera e propria gallina dalle uova d’oro. Il meccanismo dell’indebitamento studentesco garantisce infatti un’iniezione costante e sempre crescente di liquidità nei fondi speculativi delle istituzioni finanziarie, sotto pressione per l’impatto incerto delle negoziazioni sulla Brexit ascrivibile principalmente alle tensioni interne al governo May, alle prese con le divisioni fra hard e soft brexiters. In secondo luogo,  la trasformazione del percorso universitario in quella che può definirsi un’allettante (e altrettanto costosa!) esperienza di vita, di fatto un soggiorno in un villaggio vacanze inserito in un contesto urbano lontano da casa (dotato di residenze di lusso per studenti-clienti indebitati, attrezzato con infrastrutture sportive e ludiche di ultima generazione dove è possibile soddisfare quasi qualunque desiderio, dagli sport estremi ai viaggi in località esotiche) costituisce una fonte di profitto enorme svolgendo il ruolo di quella che viene spacciata come un’incredibile opportunità di rigenerazione dei centri urbani. In realtà, altro non è che la messa in pratica di politiche di gentrificazione dei centri storici, con la costruzione di migliaia di posti di letto per un numero sempre crescente di studenti ai quali affiancare pub, locali e palestre. Con la conseguente espulsione dal centro cittadino degli abitanti storici. Un processo molto simile alle dinamiche prodotte dal turismo rapace che sta investendo città come Barcellona, Venezia e Roma. Cambia l’attore economico, ma le ripercussioni sociali sono identiche, anche per quanto riguarda il lavoro sottopagato offerto alla cittadinanza locale, anche qui sbandierato ai quattro venti come una grande opportunità di crescita.

In questo contesto di forte scontro fra interessi economici e politici profondamente contrapposti che si sta giocando sul terreno dell’istruzione superiore (ieri Corbyn e il ministro ombra dell’Economia hanno inviato messaggi di solidarietà al personale in sciopero, partecipando anche ad alcune assemblee, mentre il Ministro Tory dell’Università ha pregato le parti di sedersi di nuovo al tavolo, preoccupato per le ripercussioni politiche sul già traballante governo May) e in uno scenario caratterizzato da una profonda incertezza politica dovuta non solo alla Brexit ma anche alla mancanza di una maggioranza per i Conservatori nella House of Commons, lo sciopero indetto dalla University and College Union (UCU) può aprire fronti ampi di mobilitazione e di ricomposizione del corpo sociale accademico su rivendicazioni inerenti non solo lo schema pensionistico ma che guardano ben oltre.

Quello che infatti è stato definito “il più grande sciopero da quando è stata introdotta la nuova legislazione sul diritto di sciopero” potrebbe potenzialmente essere in grado di mettere in discussione (e in crisi!) l’intera trasformazione neoliberale dell’istruzione superiore.

Proprio nel ventre della bestia, dove questa trasformazione ha raggiunto il livello più avanzato, mettendo a nudo le contraddizioni e le conseguenze prodotte nel far diventare il diritto all’istruzione un diritto all’indebitamento. Uno sciopero le cui dinamiche, forze in gioco e criticità vanno quindi osservate e analizzate con attenzione per riuscire, forse, a trarre degli elementi di strategia utili per ricominciare a immaginare percorsi di mobilitazione ampi anche nelle nostre università, che siano all’altezza delle sfide delle in gioco. Manifestazioni di conflitto che certamente dovranno essere in grado di andare ben oltre gli sciopericchi corporativi dei professori, adesso riprogrammati per l’estate, di nuovo senza nessun coinvolgimento dei precari e degli studenti per quanto riguarda rivendicazioni e pratiche.