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L’incorreggibile, un film contro il carcere

Esce questa settimana in sala il primo film di Manuel Coser. Un lungo corpo a corpo con il protagonista, che esce di prigione dopo 48 anni e prova a capire cos’è la vita

Un uomo con una pistola aspetta in macchina. È acconciato come se fossero gli anni Sessanta o Settanta, anche la macchina parrebbe vecchia, ma fuori siamo nel presente. Sembra l’inizio di una rapina, ma poi mette in moto.

Chi guarda il film non sa nulla di lui, ma nell’ora seguente non vedremo altro. Comincia così L’incorreggibile di Manuel Coser, esordiente ma già attivo come regista televisivo e di corti e soprattutto autore (con Guido Nicolas Zingari e Andrea Grasselli) del bel lavoro di VR Babel (2019). 

L’uomo nella e davanti alla macchina si chiama Alberto Maron, ha settanta anni, quarantotto ne ha passati in carcere. Quarantotto anni. Lo scopriamo piano piano, in questo lungo corpo a corpo che è L’incorreggibile, girato in un bianco e nero molto naturale, per niente manieristico. Aspetta di uscire dal carcere, lavora esternamente in una biblioteca, sarebbero scaduti i tempi ma le lungaggini burocratiche rimandano di un giorno, due. Poi finalmente è fuori. Un primo piano intenso lo coglie sorridente: 

Sono come voi adesso, sono libero

Sei libero?

Sì finalmente. 

Devi esser contento allora?

Eh sì, diciamo anche un po’ stordito

Ma davvero hai finito?

Finita la galera, ho terminato, ultimo giorno di carcere, m’hanno scarcerato adesso. 

Alberto è in scena per quasi tutto il film, ripreso da tanti punti di vista, in luoghi diversi, e in modi diversi. È tutto esplicito, l’apparato dichiarato, la relazione tra regista e protagonista esplicitata sin dal principio. Nelle primissime scene si sente Coser fuori campo dire «È stata la proposta che ti ho fatto fin dall’inizio se ti ricordi”. Gli dice di fare una scena, ma Alberto risponde: «Ma non è una realtà questa” (inteso, il carcere). Quale vita, quale realtà, ma anche quale realismo è la domanda che segue tutto il film. Del resto, come dice Giuliana/Monica Vitti in Deserto Rosso (Michelangelo Antonioni, 1964), «C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è. Nessuno me lo dice».

Fuori dal carcere Alberto si chiede se davvero questa cosa di pagare l’affitto, bollette, fare i conti fino all’ultimo euro sia vita e che vite invece erano quelle di prima, a rapinare banche o recluso in una cella. 

Coser nelle scene esterne segue il suo protagonista con camera a mano, pedinandolo, mentre predilige una camera ferma, con movimenti lenti e regolari, per le riprese interne. Sono proprio gli spazi interni, come la casa dove va a vivere o la biblioteca dove lavora, a essere valorizzati con queste pause, questa lentezza, in cui si riconosce forse un debito verso Straub e Huillet.

Quello tra il regista e il suo protagonista è un rapporto intenso dunque, che intuiamo essersi costruito nell’arco di diversi anni, visto che il film è in produzione da almeno il 2016, quando vince il Premio Solinas. Questo patto, questa vicinanza, ha però comunque dei limiti e delle regole, svelate quando a metà film il regista spiega ad Alberto appena uscito che sicuramente da un punto di vista umano non avrebbe nessun problema a ospitarlo a casa sua, ma per il film sarebbe un problema. La scena più intensa, nel meccanismo riconoscitivo messo in campo nei confronti di chi guarda il film, è quella dell’anagrafe. Dopo aver girato intorno al protagonista, finalmente adesso attraverso il linguaggio burocratico dello stato italiano – qui incarnato in un piccolo ufficio comunale in una località piemontese – scopriamo quello che manca ancora, mettiamo insieme gli ultimi tasselli.

Siamo anche noi spettatori a schedare il protagonista, schedato per quarantotto anni dall’apparato repressivo dello stato italiano, che ha prodotto una mola di documentazione incredibile, come vediamo in una delle scene più potenti del film. 

Il documentario italiano in questi ultimi anni ha continuato a sperimentare e cambiare il linguaggio, ibridando e costruendo nuovi stili e nuovi modi. Alina Marrazzi, Andrea Segre, Agostino Ferrente con il suo sconvolgente Selfie, Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, e tante e tanti altri si sono imposti anche a livello di festival mondiali, reinventando il modo di raccontare la realtà.  Questo “documentario di creazione” (la definizione è di Coser stesso) si aggiunge a questa lista, sia per lo stile che per il contenuto – che poi come sappiamo l’uno non esiste senza l’altro. 

Non si vede mai il carcere in questo film, o meglio lo si vede solo da fuori. Se ne parla tantissimo, intuiamo e proviamo a capirne gli effetti sul protagonista – mantenendo sempre una certa distanza critica, come quella che mantiene in regista, perché quasi 50 anni privati della propria libertà non si possono spiegare. Si potrebbe dire che L’incorreggibile è un film sul fare un film sul carcere. Ma anche un film decisamente contro il carcere.