ROMA

«Libertà di Öcalan un passo fondamentale verso la pace». Il corteo per le strade di Roma

Migliaia di persone manifestano in tutta Europa per chiedere la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan. A Roma il corteo sfila per il centro cittadino, ricordando le responsabilità del governo D’Alema nel consentire l’arresto e la traduzione del leader curdo nel carcere di Imralı.

«State con noi o con i jihadisti?»: lo chiedeva ai popoli di tutto il mondo Dalbr Jomma Issa, comandante delle unità difensive curde Ypj, poche ore dopo l’attacco sferrato dal “sultano” Recep Tayyip Erdoğan alla rivoluzione del Rojava nell’ottobre dell’anno scorso. Ieri, sabato 15 febbraio, migliaia di persone sono scese nelle strade di Roma e altre città europee per ribadire che, nel “caos siriano” e a fronte della stretta repressiva in Turchia, l’unica posizione da prendere è quella a sostegno del popolo curdo e del suo leader Abdullah Öcalan, ingiustamente incarcerato da 21 anni. Da piazza della Repubblica fino all’imbocco di piazza Venezia, il corteo si è snodato per il centro cittadino alternando interventi di gruppi e collettivi solidali con la causa del confederalismo democratico e inondando le vie con le tinte rosso-giallo-verdi di striscioni e bandiere. Come ogni anno, nella ricorrenza dell’arresto in Kenya del 1999, Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia (Uiki), Comunità Curda di Italia, il centro socio-culturale curdo Ararat e Rete Kurdistan Italia organizzano una manifestazione per chiedere la liberazione del “comandante Apo”, detenuto sull’isola di Imralı (nel mar di Marmara, tra Istanbul e Bursa) e impossibilitato ad avere contatti con l’esterno se non in rarissime occasioni.

«Da quando Öcalan è stato incarcerato, abbiamo assistito a un bagno di sangue in Medio Oriente», ha raccontato dal camion che guida il corteo il deputato del Hdp (Partito Democratico dei Popoli) Faysal Sarıyıldız. Il suo intervento chiude una giornata di rivendicazione che si è svolta non solo a Roma ma anche (e soprattutto) a Strasburgo nei pressi del parlamento europeo, per sottolineare le gravi responsabilità internazionali nella vicenda. «Gli sviluppi nell’area del Kurdistan hanno mostrato chiaramente che le grandi potenze come Stati Uniti o Russia non hanno alcun interesse ad andare verso una risoluzione dei conflitti. L’unica via percorribile è la costruzione di una solidarietà concreta fra i popoli presenti nella zona». Come è noto, l’Italia ha giocato un ruolo fondamentale nell’evolversi dei fatti che hanno portato alla cattura di Abdullah Öcalan da parte dei servizi segreti turchi: in seguito all’inasprirsi dei rapporti fra Ankara e Damasco, il leader curdo scappò dalla Siria (dove era rifugiato ormai da tempo) verso la Russia, per poi fare rotta nel nostro paese dopo pochi giorni e rimanervi dal 12 novembre 1998 fino al 16 gennaio 1999. Arrivava al suo culmine la “questione curda”: in molti si mossero verso la capitale a sostegno di “Apo”, tanto che piazza Celimontana venne ribattezzata “Piazza Kurdistan”, e le mobilitazioni di quel periodo portarono anche all’occupazione del Centro Ararat a Testaccio. Intanto il neoeletto governo D’Alema cedeva alle pressioni di parte turca, che minacciava il boicottaggio delle aziende italiane presenti con la propria attività nella repubblica mediorientale, e “invitava” forzatamente Öcalan a lasciare il paese negandogli qualsiasi possibilità di asilo politico (che la magistratura gli concederà comunque, anche se troppo tardi).

Il corteo di ieri ha in qualche modo ripercorso tutte queste “tappe”, attraverso la memoria di chi è stato vicino al leader curdo durante il suo “rifugio” a Roma presso una villa nel quartiere Infernetto. L’operato dell’ex-leader del centrosinistra Massimo D’Alema viene definito più volte un “tradimento” e mette in luce come, se si vuole veramente essere solidali con le lotte in Rojava e nell’est della Turchia, occorre sciogliere alcuni “nodi” che sono alla base della negazione dei diritti fondamentali per il popolo curdo. Innanzitutto, il paradigma dell’estrattivismo. I movimenti per l’acqua, che hanno aderito ufficialmente all’iniziativa di ieri, hanno ricordato come le pressioni da parte turca esistano soprattutto per motivi di sfruttamento e controllo delle risorse che si trovano nella zona orientale del paese oppure nel nord della Siria. La costruzione di dighe sul fiume Eufrate o l’utilizzo dei giacimenti petroliferi in Rojava sono fattori che pongono enormi conseguenze dal punto di vista sociale e politico (è il caso, per esempio, dell’inondazione di Hasankyef): sulla scorta delle idee del confederalismo democratico, i curdi provano a concepire le risorse dei territori in cui vivono come dei “beni comuni” e a operare una redistribuzione della ricchezza generata da tali risorse. Un modo di procedere poco apprezzato dal governo di Ankara che, invece, agisce secondo logiche di accentramento decisionale e smantellamento totale dei diritti sindacali in ottica neoliberista. È sempre il corteo a sottolineare quanto, per esempio, il settore del tessile leghi indissolubilmente l’economia italiana con quella turca, rendendo nei fatti difficile qualsiasi atteggiamento di opposizione: molti dei nostri marchi, in particolare grandi nomi del lusso, delocalizzano buona parte della propria produzione a Istanbul o in altri centri anatolici. Oppure, come indicato da studenti e militanti giunti a Roma dalla Toscana, anche l’export di armamenti da parte di aziende quali Leonardo e Beretta rappresenta un grosso freno alle possibilità di sostegno concreto che il nostro paese può offrire al popolo curdo (la Turchia è il terzo mercato più importante per la vendita di armi italiane all’estero).

Oppure ancora tutti questi collegamenti e connessioni, talvolta al limite del criminale, hanno un unico comune denominatore. Mentre dall’alto muro che cinge la terrazza della Basilica di San Pietro in Vincoli (via Cavour) è stato srotolato lo striscione della campagna “Women Defend Rojava”, l’intervento di Non Una di Meno ricordava che – tanto per le donne curde che per quelle italiane – il nemico da affrontare è lo «Stato fascista e patriarcale». La jineologia (“scienza della donna”), elaborata da Abdullah Öcalan in carcere e alla base del confederalismo democratico, è uno dei pilastri della rivoluzione del Rojava e l’importanza che essa attribuisce al “femminile” nella costruzione di una nuova società sta influenzando movimenti di tutto il mondo: «La solidarietà è un intreccio di voci», ha concluso Non una di Meno.

Le voci del corteo sono state infatti numerose e variegate, a partire anche e soprattutto da chi non poteva essere presente: Lorenzo “Orso” Orsetti, omaggiato da diverse realtà aderenti al corteo, l’attivista e giornalista Dino Frisullo, la cui figura è stata chiamata in causa da molti ma in particolare dalla rete Kurdistan pugliese, e chiaramente la deputata dell’Hdp Leyla Güven, che grazie al suo sciopero della fame ha permesso che Öcalan potesse incontrare i propri avvocati a maggio dell’anno scorso. «La rottura dell’isolamento di “Apo” è un passo fondamentale per l’avvio di qualsiasi processo di pace», ci dice il portavoce di Uiki Yilmaz Orkan. «Mantenendolo sull’isola di Imralı, la Turchia dimostra di non avere alcuna intenzione di avviare delle trattative. D’altronde, il progetto del confederalismo democratico prevede innanzitutto il superamento delle divisioni e la collaborazione fra i popoli, sia in Rojava che nell’est della Turchia: tutto il contrario del modo di operare del regime di Erdoğan, che invece punta sull’acuire le differenze e sul fomentare conflitti soprattutto interetnici. Le recenti “deportazioni” di arabi nel nord della Siria o il sostegno dato all’Isis sono esempi lampanti di una tale strategia».Turchia terrorista / Erdoğan assassino, scandiscono i manifestanti forte e chiaro, mentre il corteo raggiunge il termine dei Fori Imperiali al calar del sole.

(foto di apertura di Francesco Martella)