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Le fabbriche autogestite al cinema

Dopo esser stato presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes, Fábrica de nada, opera prima di un collettivo coordinato dalla regia di Pedro Pinho, arriva al Torino Film Festival. Un film sulle strategie di lotta nel contemporaneo e sulla fatica di metterle in pratica nella desolazione del capitalismo attuale

Siamo a Póvoa in Portogallo in questi anni segnati dalla crisi economica. Come nei furti più classici che avvengono al buio quando tutto tace, l’amministrazione di una fabbrica di ascensori fallita inizia la dismissione dei suoi macchinari durante la notte. L’azione viene bloccata dagli operai, che non vogliono essere a loro volta dismessi, licenziati, espulsi.

È un’esperienza molto diretta di delocalizzazione quella ci propone Fabrica de Nada, con tutto il corredo che essa comporta: trattative individualizzate di rescissione bilaterale del contratto di lavoro, tensione tra i lavoratori per individuare una strategia comune, assenza (o quasi) del sindacato, povertà, ansia per il futuro. Sin dalla prima scena il capitalismo si configura per quello che è: un furto. L’idea che il mondo del lavoro sia sostanzialmente diviso in due tra chi espropria la forza-lavoro e chi la vende per sopravvivere è la tesi costante (e classica) di un film tutt’altro che semplificato o risolto. Si dirà che il suo oggetto è la crisi economica che ha segnato l’ultimo decennio e ora si rivela nella sua natura strutturale – strutturalmente necessaria al capitalismo – oppure che è un’esposizione delle sue conseguenze in tutte le pieghe della vita quotidiana. Ma in effetti il film, oltre ad essere insieme tutte queste cose, è soprattutto un racconto sul modo paziente e stentato con cui si produce autorganizzazione.

Non c’è alcun afflato pietosamente drammatico (à la fratelli Dardenne), ma neppure la soluzione facile e immediata che risolve d’un colpo il problema dell’inservibilità di una fabbrica e dei suoi lavoratori. Il film tutto girato in 16 mm lo spiega con registri diversi: dal documentario al musical, dal reale al divertissement. La storia degli operai si sovrappone infatti alla storia di un regista (interpretato da Daniele Incalcaterra) che vuole girare un film sulla loro vicenda. Queste due forme del lavoro – industriale e intellettuale – sono anche opere collettive, l’attività artistica e quella politica, la cui realizzazione è sempre incerta, sempre aperta, perché possono essere soggette sia allo scacco che alla riuscita. Per questo Pedro Pinho e il suo collettivo scelgono di concentrarsi sul background che rende possibile gli atti artistici e politici: il momento della discussione, del confronto, dell’assemblea. E nel farlo, non si esime dall’affrontare con un’inconsueta profondità (per essere un film e non un libro di teoria) tutte le questioni più spinose che riguardano la crisi economica e la definizione di una strategia di lotta adeguata. Bisogna accettare la teoria catastrofista che vede nella tecnologia il fattore che determina il crollo naturale del capitalismo oppure ribadire che il valore si produce attraverso il lavoro? Il lavoro umano può divenire obsoleto tanto quanto una macchina? E ancora: come si può pensare un’autogestione locale autonoma ed efficace se il meccanismo di produzione del valore si produce sulle lunghe catene di montaggio mondiali?

Certo l’Argentina offre un bell’esempio, scoprono gli operai di Póvoa, perché le fabbriche dismesse erano state occupate e convertite al lavoro comune. Ma come organizzarlo? Ha senso fare uno sciopero lì dove il lavoro manca? E, una volta avviata l’autogestione, come bisogna distribuire i salari, secondo un principio d’uguaglianza oppure ripartendo per competenza? Il film scava tra la comicità e il dramma la durezza di questi problemi, mostrando le contraddizioni che emergono: tra gli operai che tornano a casa con la loro vita distrutta e il problema di sbarcare il lunario, all’interno di un nucleo familiare non tradizionale che lega una coppia in crisi e almeno tre generazioni (uno degli operai, Zé, è anche padre acquisito per il bambino della compagna e ha sua volta ha un padre con cui discute gli obiettivi e i modi della lotta in fabbrica); e ancora, tra il regista che si vuole detentore del sapere intellettuale e l’operaio che dichiara quella sua presunta funzione superata.

Cos’è infine quel nulla a cui il titolo allude? Certamente l’assenza di lavoro, il vuoto lasciato dalla crisi economica: gli operai lavorano in una fabbrica dove non si produce più niente. Ma cosa sono un’opera o un atto slegati dal prodotto e della produzione? Saranno un gioco, una danza, una canzone, una conversazione, una lettura, una riunione. Pure e semplici attività comuni. Quelle che rendono possibile lo spazio dell’immaginazione e della politica.