ITALIA

Lavoro indecente

L’agricoltura italiana vive, in tantissimi casi, situazioni al limite della schiavitù. Dai distretti agroindustriali delle valli bresciane e bergamasche, alle campagne della Puglia, fino alle serre di Ragusa, in Sicilia, da Nord a Sud siamo ormai oltre il sistema del caporalato. Sono a rischio sfruttamento 400.000 braccianti. A raccontare la vergogna dei campi italiani è il quarto rapporto Agromafie dell’Osservatorio Placido Rizzotto presentato della Flai Cgil.

Ivanov (il nome è di fantasia) ha 53 anni. È nato a Sliven, una cittadina distante qualche centinaio di chilometri da Sofia, capitale della Bulgaria. Lì ha vissuto fino a dieci anni fa con la moglie e sei figli. Quando Ivanov perde il lavoro come dipendente di un mattatoio, decide di venire in Italia. Prima di partire, l’uomo sa già in quale luogo andare. A Borgo Mezzanone, una località rurale distante qualche chilometro da Foggia, con poche centinaia di abitanti italiani, ma con altrettanti stranieri, che durante le stagioni di raccolta degli ortaggi vivono in case di fortuna e tende provvisorie, senza nessun tipo di servizio degno di questo nome. Vivono senz’acqua calda, né bagni, né luce elettrica. È così da più di dieci anni, da quando Ivanov è arrivato; nel 2007, occupando, con altri uomini bulgari, un casolare abbandonato. Da quell’anno l’uomo, dopo essersi fatto raggiungere anche dai tre figli maschi e dalla moglie, ha trovato lavoro nelle campagne della Capitanata e, come fanno quasi tutti i braccianti bulgari che risiedono nel ghetto di Borgo Mezzanone, ha avviato un ciclo di migrazioni stagionali tra Italia e Bulgaria. In Italia, cioè, trascorre i mesi che vanno da maggio fino a ottobre, lavorando alla raccolta stagionale dei pomodori e mettendo da parte i soldi per trascorrere l’inverno in Bulgaria, nella casa di sua proprietà.

«La paga è a cottimo. Si riesce a guadagnare dai 20 ai 30 euro. Ci pagano 6 centesimi per ogni cassa di pomodori da 15 chili riempita. Per guadagnare almeno 20 euro, tocca raccoglierne quasi 5 tonnellate. Più di trecento cassette in un solo giorno»: ha raccontato così Ivanov ad Antonio Ciniero, sociologo esperto di migrazioni dell’Università di Lecce che ne ha raccolto la storia. «E noi siamo pure fortunati, perché, innanzitutto, non lavoriamo anche il pomeriggio, come fanno gli africani», ha rivelato Ivanov. Già, i braccianti africani. Come Soumayla Sacko, un ragazzo di 29 anni venuto dal Mali, che era anche un  sindacalista, e che è finito fucilato un mese fa nelle campagne della piana di Gioia Tauro dopo aver vissuto l’inferno dei campi italiani: aver lavorato, cioè, insieme a migliaia di altre persone “africane” per due euro l’ora, abitando nella tendopoli di San Ferdinando, con i “dannati della terra”, come li ha definiti di recente Medici per i diritti umani, da anni è un punto di riferimento per i migranti che vivono nella Piana di Gioia Tauro al limite della schiavitù. Lì, nei dintorni della provincia di Reggio Calabria sono in tremila circa a vivere ancora oggi tra cumuli di immondizia, dormendo su materassi a terra o su vecchie reti. Circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati che sovente i braccianti usano per riscaldarsi.

Mafiosa agricoltura. In tutta Italia sono quattrocento mila i braccianti a rischio supersfruttamento, su un totale di circa un milione di impiegati nel settore agricolo. I migranti registrati nel 2017 sono 286.940. A questi vanno aggiunti oltre 220000 stranieri assunti in nero o che hanno una retribuzione molto inferiore rispetto a quella prevista dai contratti nazionali. Dati, storie, numeri di Lavoro Indecente. La denuncia è del quarto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto che è stato presentato venerdì scorso dalla Flai Cgil a Roma, nel Centro Congressi di Via Cavour. «Questo rapporto racconta quanto avviene nei diversi territori del nostro Paese, da nord a sud, dalla Romagna e dalla provincia di Brescia a quelle di Foggia, Catania e Ragusa, c’è un continuum fatto di sfruttamento del lavoro e di infiltrazioni della criminalità in affari apparentemente legali», ha detto Roberto Iovino della Flai Cgil, presentando il report in una platea in cui spiccava la presenza degli ultimi due presidenti della Camera, Laura Boldrini e Roberto Fico, e dell’ex ministro dell’agricoltura, Maurizio Martina; allo stesso modo  si notava l’assenza dei titolari attuali dei dicasteri interessati, Marco Centinaio, ministro leghista dell’agricoltura, e del suo omologo al lavoro, il pentastellato Luigi Di Maio.

Lavoro indecente Sono numeri di lavoro indecente, quelli contenuti nel rapporto della Flai/Cgil. «Nei 220 distretti agricoli censiti, in media sono seicento i lavoratori agricoli reclutati in condizioni indecenti con punte manifeste di assoggettamento para-schiavistico». Dicono dal sindacato: «considerando tutti i distretti agricoli italiani, sono presenti, secondo le nostre stime, circa 15000 caporali su tutto il territorio nazionale». Oltre i dati e i numeri, il rapporto racconta le storie. Di vita e lavoro indecente, come quella di Senghour (il nome è di fantasia) che ha lasciato la Costa D’Avorio per venire a chiedere protezione internazionale in Italia, nel 2016; e che pochi mesi dopo è finito a raccogliere le fragole a Metaponto, con la giornata di lavoro che cominciava alle 5 di mattina e terminava alle 16, con una sola pausa di venti minuti. «Andavo a lavorare tutte le mattine con la bicicletta. Facevo 15 km per andare, altrettanti per tornare. Oltre la fatica, c’era da sopportare il calore estremo prodotto dai teli di plastica delle serre», così ha raccontato Senghour ai sindacalisti della Flai, i quali hanno registrato, in sette regioni italiane, «forme di lavoro indecenti e al limite dello sfruttamento paraschiavistico». Dalle zone dove si produce la Franciacorta, nelle valli bergamasche, alle colline senesi dove sono di casa il Chianti e il Montepulciano, alle province meridionali del Sud Italia dove si raccolgono in forma intensiva, per uso agroindustriale, frutta e ortaggi (pomodori, angurie, fragole, uva da tavola) soprattutto, c’è quella che è stata definita la Spoon River dei campi italiani, la strage silenziosa in cui sono morti negli ultimi sei anni almeno 1.500 lavoratori, deceduti nei campi, bruciati vivi negli incendi dei ghetti, uccisi dalla fatica o dal sistema. Da nord a sud sono morti, africani, italiani, arabi, centinaia di romeni e polacchi inghiottiti nelle campagne pugliesi, come raccontava nel 2008 Uomini e Caporali, il romanzo di Alessandro Leogrande che, ancora oggi, rappresenta il tentativo più compiuto e sistematico di raccontare lo sfruttamento nelle campagne italiane.

Mentre Leogrande scriveva, in quegli anni non c’era una particolare attenzione mediatica.  I cadaveri di tanti stranieri sparivano nel nulla, seppelliti nel silenzio della terra o nei casolari, e, specie nelle campagne pugliesi il caporalato era considerato ancora alla stregua di un malcostume o, peggio ancora, di una condizione strutturale dell’economia agricola meridionale. Ed è così che un cronista del maggiore giornale locale pugliese, riportando la notizia dell’arresto di un imprenditore/caporale accusato dell’omicidio di un funzionario regionale e tracciandone (nell’articolo) il profilo, poteva scrivere, con sostanziale naturalezza: «Attualmente l’uomo è sotto processo perché qualche anno fa, nella sua azienda, durante un controllo dell’Ispettorato del Lavoro, fu trovato un romeno ridotto in schiavitù. Lavorava nei campi e poi, a sera, secondo il riscontro di quell’ispezione, veniva messo alla catena». Il lavoro e le condizioni di vita indecente, raccontate, appunto, come se fossero le più ovvie delle storie. Accade ancora oggi.