ITALIA

A lavorare di domenica andateci voi

Il racconto vivo di chi la domenica lavora davvero

Quando mi ritrovavo da solo a chiudere un grande reparto di una catena di prodotti alimentari di lusso, alle undici di sera a Fulham, io pensavo sempre agli azionisti. Chissà che stanno facendo ora, mi chiedevo, mentre io mi spaccavo il culo per otto sterline lorde all’ora.

Iniziava tutto otto ore prima, anzi quasi nove, perché avevo un quarto d’ora di pausa pagata e mezz’ora per il pranzo non pagata. E non sto contando le oltre due ore complessive di viaggio da North London verso la città posh e benestante all’ovest.

Poi c’era la beffa di un posto dove si vende il prosciutto italiano a 50 sterline, la paletta spagnola a 100 e 150, i formaggi francesi, svizzeri, italiani, inglesi, anche a 70 sterline al chilo, ma il personale non ha nemmeno diritto a un pasto gratuito. Solo Il 30% di sconto.

Così, piuttosto che ridargli una decina o più dei circa 60 pound lordi che guadagnavo, preferivo mangiarmi un meal, un menù di plastica insapore da Sainsbury’s a 3 sterline, seduto sui gradini di un pub di fronte, perché solo chi comprava al negozio aveva il diritto di mangiare all’interno. Che ci fosse la pioggia, il sole, il gelo, un sole che spaccava le pietre, mi avreste trovato là nei pochi minuti residui che restavano per mangiare.

In pratica funzionava così: dopo un tot di ore sempre in piedi (non puoi sederti mai), ci mettevo qualche minuto a cambiarmi negli spogliatoi, qualche altro minuto per andare al supermercato coi piedi che mi facevano male, qualche minuto a ingozzarmi in fretta e furia seduto sullo scalino e forse, se tutto andava bene, mi restava tempo per una sigaretta. Perché non so se avete mai contato mezz’ora, ma dovendo fare un sacco di cose è un lasso di tempo decisamente breve!

Nel negozio pretendevano da noi una competenza da esperti di cibo. Dovevi sapere come erano fatti i formaggi, come erano i vini, quali dovevi accoppiare su determinati salumi, ma non c’era nessuna formazione e la paga era quella di un inserviente.

Proprio per non farci venire il dubbio che fossimo altro che inservienti, carne da macello straniera pagata a salario minimo, dopo le richieste competenze da sommelier, era il tempo degli stracci, la scopa, il secchio, il mocho, un bancone intero da ripulire, salumi e formaggi da impacchettare, il pavimento da lavare, quattro scaffali enormi di birra e vino che dovevamo risistemare più volte al giorno e con particolare cura alla chiusura, andando a prendere nel deposito quello che mancava.

E mi fermo qua, vi basterà sapere che in quel posto ci ho passato i sabati sera, le domeniche, pasquetta, sempre alla stessa paga fetente di otto pound lordi all’ora, mangiando immancabilmente sul gradino del pub pure quando nevicava. Sembra un cazzo di libro Cuore, è solo la storia dello sfruttamento intensivo a cui sono sottoposte le classi popolari, nell’epoca del sempre aperto 24 ore su 24, sette giorni su sette, tutta la fottuta vita. E per fortuna a Natale e Pasqua almeno chiudevano.

Poi ho lavorato in un’altra grossa compagnia. La store manager, francese di origini arabe, bella ma incattivita da dieci anni di permanenza nei sottoscala fetenti che sono la norma di questi posti, mi fa il colloquio e poi mi dice: parli un ottimo inglese (beh, lei è francese…), siccome io fra un tot devo andare in vacanza, ti assumo come barista maestro e supervisor, così sarai l’assistant manager della mia assistant manager, che per quelle due settimane sarà la store manager.

Non intimidito da quella sfilza di manager che a Londra non vogliono dire un emerito cazzo, e dalla mia totale inesperienza in materia, le chiedo: quanto mi pagate a ora? E lei spara 9,48, che sono meglio degli otto che prendevo nel supermercato di lusso. Non l’avessi mai fatto. Formazione zero assoluto. Foto dei vari tipi di caffè e cappuccini e strappuccini, inviate via Whatsapp. Autotraining teorico fatto su dei libracci inutili che dovevi studiare fuori dal tuo orario di lavoro, presentandoti un’ora prima che ovviamente non ti veniva pagata.

Poi ti accomodavi in cassa. Accomodarsi per modo di dire, non ti siedi mai, neanche un secondo in turni di sei, sette, otto, dieci o dodici ore. In questo caso, il training era guardare un altro povero cristo che aveva imparato a colpi di chitammuorto in tutte le lingue del mondo l’esatta posizione di ogni singolo prodotto, per un totale di oltre duecento combinazioni possibili. E quando infine ti cimentavi nella tua prima tazza di qualcosa, c’era sempre qualcuno col fiato sul collo a dirti “più veloce, più veloce”. Regolarmente meno di quelli che avremmo dovuto essere. Inservienti di nuovo alla fine, quando dovevamo lasciare il negozio perfettamente pulito.

Anche qui uno sconto sui prodotti, ma niente da mangiare per il personale, con lo straordinario bonus che dovevi lavare i cessi ogni mezzora. Avete presente quando vi viene la sciolta, e voi spruzzate all over around il cesso? Bene, c’è qualche povero cristo come noi che lo ripulisce, trattenendo i conati di vomito. Non fatevi ingannare dai congiuntivi e dalle acca messe al posto giusto, insieme a qualche evento che organizzo in splendida solitudine e all’università che frequento da migrant worker, questi sono i lavori da proletario che faccio a Londra. Non pagati se sei ammalato, senza liquidazione, con possibilità di licenziamento immediato in qualsiasi momento.

E questa è la vita che si fa in questi luoghi di lavoro, a Londra come in Italia. È questa schiavitù che voi chiedete a gran voce di reiterare, facendo spesso tutt’altri lavori che comportano al massimo la sindrome del tunnel carpale e stipendi con molti più zeri dei nostri, ma con il sangue agli occhi del disturbo compulsivo perché avete un immaginario in cui le merci hanno definitivamente vinto.

È per questo che sulla questione mi accaloro parecchio: perché so di cosa sto parlando e so che vita di merda si fa quando sei costretto a fare certi lavori, dovendoti pure sorbire le opinioni rabbiose di voi che se noi non crepiamo anche nei festivi a pulire i cessi, o dietro una cassa, o dietro un bancone, sembra che mandiamo in frantumi il vostro mondo ideale del sempre aperto. Dovete morire, ve lo auguro col cuore. Possibilmente di domenica, o a Natale.

E, come scrivevo all’inizio, io penso sempre agli azionisti. Penso ad Amazon che si è comprata gli oltre 500 negozi della prima catena e Coca Cola i 3400 circa della seconda. Penso a quali ricchezze enormi, quali dividendi, quale vita fanno gli azionisti, mentre voi fate pressate noi con la bava alla bocca perché volete un paio di mutande o uno strappuccino anche alle sei di mattina, di domenica o a Natale.

E siete fantastici, quando vi ricordo rivoluzionari nei tempi che furono (ma sempre provenienti da famiglie benestanti alla Caterina va in città) che oggi dal tepore delle case compratevi dai genitori ci spiegate quanto sia importante lavorare sempre, perché altrimenti si perdono posti di lavoro. E meno male che eravate quelli che con la spocchia della classe sociale d’appartenenza dicevano che l’economia è solo una mistificazione borghese.

Ve lo giuro, il primo di voi che mi capita davanti, gli sputo nel bicchiere