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MONDO

L’accattivante ‘corporate social responsability’ di Airbnb e l’appeal del buonismo 2.0

Il marketing di Airbnb: come la multinazionale americana da 31 miliardi di dollari fa profitti strumentalizzano il concetto di comunità

Il concetto di Corporate Social Responsability (CSR) nasce sul finire degli anni Ottanta e si consolida nei decenni a seguire, di pari passo con l’aumentare del peso della dimensione etica sulle scelte dei consumatori. Le grandi aziende degli anni Novanta, ma in particolare dei primi anni Duemila, nel tentativo di aggiornarsi e consolidare, o addirittura risanare, i rapporti con il proprio target di mercato, dedicheranno un interesse sempre maggiore all’impatto delle proprie scelte aziendali sull’opinione pubblica. Le inchieste sull’operato eticamente scorretto delle grandi multinazionali e le conseguenti campagne di boicottaggio, si sono fatte sentire e hanno acquisito un loro peso in termini di reputazione e di fatturato. Il mercato ne esce imparando un’affascinante lezione: la relazione tra business e società va affrontata diversamente, perché il successo aziendale e il welfare sociale, se intersecati, possono generare esaltanti prospettive.

Da questo momento in poi la CSR diventa una strategia interna vera e propria, non una campagna occasionale per rimediare ad un danno di immagine. In molti casi sostituisce del tutto gli investimenti in campagne pubblicitarie, trasformando queste ultime in campagne umanitarie e lasciando che la pubblicità scaturisca come naturale conseguenza del fattore beneficenza-sapientemente-veicolata. Si sceglie come raccontarsi all’esterno cercando quindi di conciliare le proprie esigenze con le cogenti questioni di natura etica del momento e puntando, nella maggior parte dei casi, al miglior ritorno di immagine possibile. Di improvviso ogni loro attività diventa sostenibile e ogni auto-descrizione parte dalla dichiarazione di una mission.

Questo vale per chi nel mercato c’era già. Chi nasce negli anni Duemila fa di più. Molto di più.

Airbnb è una piattaforma online for profit, quindi business oriented nel gergo tecnico, che gestisce e promuove l’affitto temporaneo di stanze e case vacanza, nonché – più di recente – anche di esperienze. Naturalmente, la compagnia che gestisce la piattaforma guadagna in percentuale dalle transazioni che permette: all’aumentare delle transazioni e del valore delle stesse, aumentano i guadagni del gestore (business oriented, per l’appunto, a differenza delle non-profit come Couchsurfing). Più case e più esperienze condivise siamo disposti a monetizzare tramite il sito, più l’azienda guadagna.

Oppure (dal sito ufficiale italiano): Airbnb è “una Community costruita sulla condivisione” che grazie ad una piattaforma online “fa sì che la condivisione sia semplice, piacevole e sicura”.  Di più, una community internazionale e cosmopolita che promuove un senso di “appartenenza al mondo”, con un “team permanente dedicato alla lotta contro i pregiudizi e allo sviluppo della diversità”. Insomma, un’allegra compagnia alla quale non interessano i soldi, meno che mai le case, ma le persone e le esperienze che queste possono condividere:

“Unisciti a una community convinta che tutti debbano avere un luogo da chiamare casa”

Buffo se letto alla luce del conflitto che genera sull’abitare, tra residenti e turisti, in tutte le città in cui è esploso. Ma allo stesso tempo notevole dal punto di vista della strategia comunicativa. Airbnb non è un’azienda che ha incorporato egregiamente una Corporate Social Responsability, portandone le potenzialità fino alle estreme conseguenze. Airbnb è una Corporate Social Responability che si è data uno sbocco aziendale. A scorrerne le pagine online sembra quasi di assistere ad un’accattivante digitalizzazione del manuale di educazione civica aggiornato ai valori radical chic: non stai cercando la combinazione perfetta per il tuo fine settimana, stai diventando una persona migliore, un Airbnb Citizen. Già, perché se entri nella community sei un po’ meno cittadino della tua città, che – diciamoci la verità – è un attaccamento ai luoghi che ha un po’ stancato, è un po’ più cittadino su Airbnb. Chi è stato adolescente durante il boom dei telefonini ricorderà che anche le compagnie telefoniche iniziarono a fare largo uso del concetto di community, alcuni addirittura passarono da community a tribù. È l’iperbole del marketing, la metonimia della merce: non stai acquistando un’offerta telefonica, ti stai creando una comitiva. Allo stesso modo con Airbnb non stai andando in vacanza, stai consolidando le tue relazioni con la comunità mondiale che vive in luoghi raccontati come non turistici. In questo la retorica della piattaforma è decisamente scaltra e incontra in pieno l’esigenza dell’utente medio di smarcarsi dalla definizione di “turista” e sentirsi “un viaggiatore”. Il nostro Goethe 2.0, il Mark Twain del XXI sec., l’Escher di cui attendiamo i disegni su Instagram a conclusione del viaggio italiano. Insomma, la ricerca dell’autentico che MacCannell chiamava in causa nel 1973 e che portava il turista ad interessarsi di “back regions, intimacy and social solidarity”.

Non fa una piega come strategia comunicativa. Peccato che al crescere della tensione sui territori per la progressiva “hotellizzazione” delle case, la strategia comunicativa della piattaforma si vada facendo via via più insidiosa e pericolosa. Da quando l’opinione pubblica ha iniziato a considerare la sharing economy un po’ meno “sharing” innovativa e un po’ più economy classica ma versione web, la CSR della piattaforma si è intrisa di politiche. Ebbene sì, di politiche; e, si guardi bene, non “aziendali”, ma sociali ed economiche per intere comunità, territori e soggetti fragili. Questo è il punto in cui le cose si complicano. Quando a livello nazionale si è cercato di regolamentare la fiscalità del fenomeno delle locazioni turistiche (short-term rent) inserendo la controversa questione delle piattaforme in una finanziaria, Airbnb ha risposto che sta agli utenti versare le tasse e che, nell’offrire un semplice servizio, la piattaforma non è tenuta a fare da esattore fiscale per conto del governo. Nel frattempo però aveva già proposto al MiBACT e all’ANCI un bel partenariato, e avrebbe lanciato di lì a poco addirittura un Piano nazionale di sviluppo locale:

Nell’anno che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha voluto dedicare alla promozione dei borghi, Airbnb ha lanciato un piano nazionale, Borghi Italiani (Italian Villages), per contribuire alla valorizzazione di questi luoghi e delle loro comunità. Far conoscere i piccoli centri dell’Italia rurale ai viaggiatori di tutto il mondo significa accendere i riflettori su paesaggi, tradizioni e saperi unici, espandere le economie locali e promuovere un turismo sostenibile, fuori dalle rotte più battute. Da nord a sud l’Italia è terra di borghi, piccole realtà dalla grande storia dove è facile sentirsi a casa.

L’Italia ringrazia. Quando alcuni Comuni hanno provato a sollevare con la piattaforma questioni di legittimità rispetto alla gestione informale di un pacchetto residenziale sempre più esteso e irreversibilmente destinato alla ricezione turistica, ma senza cambio di destinazione d’uso, visti i preoccupanti precedenti con Amsterdam e Londra che in quei mesi ottenevano il blocco da piattaforma degli interi appartamenti (rispettivamente oltre i 60 e i 90 giorni), Airbnb ha controproposto ai Comuni interessati il versamento automatico della tassa di soggiorno gentilmente trattenuta a monte sulle transazioni. Dopo i primi mesi con Milano e a seguire Bologna, e viste le cifre fin da subito interessanti, scattano rapidi accordi in tutta Italia: da Napoli all’entroterra della Sardegna, tutti a sanare il bilancio comunale con la tassa di soggiorno. Se prima all’aumentare delle case vacanza gioiva soltanto la compagnia americana, adesso anche i Comuni hanno di che fomentare il fenomeno. A Napoli per questo Natale, il nostro picco stagionale di arrivi turistici, ci pagheremo le luminarie. A Palermo Airbnb promuove “Danisinni & Ballarò intransito”, reinvestendo le briciole della tassa (40 mila a fronte dei 200 mila totali) in rigenerazione urbana: ventimila euro per Ballarò e ventimila per Danisinni, stanziati a bando per finanziare progetti che – viste le cifre – immaginiamo piccoli ma altamente simbolici. I soldi investiti sono pubblici, sono quelli comunali, ma a leggere i titoli dei giornali sembra l’ennesimo dono della community più amata dai cittadini. Ancora una volta, l’Italia ringrazia.

La dinamica non sorprende, d’altra parte, perché in perfetta linea con un famoso adagio da Silicon Valley secondo il quale non esistono competitors ma solo potenziali partner. Di fatti, ogni qual volta si solleva una controversia con la piattaforma, quest’ultima trova accordi che puntualmente o espandono con maggior efficacia il suo raggio d’azione (le aree interne e i borghi italiani) o, in piena linea con la CSR, si traducono in un gesto bonario a basso costo ma di grande risonanza in termini di ritorno di immagine (pubblicità, nel caso di Palermo a spese del Comune).

Peccato che dal 2016 in poi una pioggia di studi, dal Canada all’Europa passando per gli Stati Uniti, abbia restituito il reale funzionamento della piattaforma, descrivendone la struttura piramidale all’interno della quale i super-host producono e in parte detengono la reale ricchezza che Airbnb incamera. Uno studio della School of Urban Planning della McGill University () sintetizza in modo molto chiaro la fascia d’offerta che sostiene il capitale economico della piattaforma e la definisce come la risultante della “tripla minaccia”: interi appartamenti, locati full-time, da host multiproprietari che investono esclusivamente nel mercato della short-term rent. L’impatto sul mercato della casa è duplice: si riduce l’offerta abitativa per i residenti, si alza il prezzo medio a metro quadro dell’offerta che gli si lascia. Gli autori specificano anche che questa fascia, di multi-listing/full-time/entire homes, è quella che cresce più velocemente nelle città. A Barcellona, Berlino, Lisbona, le proteste si fanno sentire e la retorica della community perde colpi. Ovunque nascono campagne anti-Airbnb organizzate da comitati di quartiere e gruppi di residenti che lottano per non essere espulsi. Dalla primavera scorsa la rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistificazione) unisce molte di queste esperienze di protesta, comprese quelle delle principali mete turistiche italiane, e mantiene costante l’attenzione sulle allarmanti conseguenze di questa accelerata mercificazione dell’abitare.

Ma la CSR di Airbnb nel frattempo ha già alzato il tiro. Per ripulire a pieno la propria immagine e riguadagnare fiducia, quest’anno Airbnb lancia anche politiche sociali e finge, come già denunciato dall’articolo di Dinamo Press del 27 novembre, di assumere spontaneamente posizioni geopolitiche scomode. Airbnb, da quest’estate, alle accuse d’essere uno dei principali speculatori del mercato immobiliare mondiale, risponde con “Open homes”, una sezione del portale per l’accoglienza dei rifugiati:

“Condividi il tuo alloggio per una buona causa. Unisciti a una community convinta che tutti debbano avere un luogo da chiamare casa. Offri gratuitamente una sistemazione temporanea a chi ha dovuto abbandonare la propria casa per seguire una cura medica o perché sfollato per via di disastri o conflitti.”

 

All’accusa di trarre profitto dalle locazioni nei territori illegalmente occupati in Cisgiordania, risponde invece, come abbiamo visto, facendo finta di ritirare una manciata di alloggi dalla piattaforma. I titoli dei giornali, come si è detto e con modalità analoghe a quelle viste fin qui, non daranno peso alla notizia come vittoria delle proteste palestinesi, ma titoleranno il “No di Airbnb ad Israele”.

A questo punto si potrebbe dire: ma se la compagnia è sensibile all’impatto sociale delle proprie scelte e aggiusta il tiro a seconda delle occasioni, dov’è il problema? Non è forse un modo per restituire qualcosa e contribuire qui e lì alle cause che la “comunità” ritiene eticamente giuste? Dai quartieri difficili, ai borghi abbandonati, alle politiche economiche per lo sviluppo locale. Beh, il problema è cosa fa nel frattempo chi di tutto questo dovrebbe occuparsi.

Il problema è che cosa fa il cosiddetto “Pubblico” nella gestione della buonanima del welfare, mentre una piattaforma di gig economy (economia dei lavoretti) monetizza ogni pratica insegnandoci che quando “ospitiamo”, “condividiamo” o addirittura semplicemente “accompagniamo” qualcuno, possiamo anche averne un ritorno economico.

Potrebbe farci sentire dei cattivi ospiti chiedere dello “sporco” (perché tale sembra essere nelle retoriche sharing) denaro ai nostri amici turisti; ma tanto la transazione avviene online su una pagina secondaria del sito, che in questo modo in un sol colpo ci toglie dall’imbarazzo di dover chiedere 20 euro a persona per fare un giro nei negozietti vintage di Bologna, e trattiene anche una sua percentuale. Ma siamo proprio sicuri che sia accettabile che una piattaforma di gig economy costruisca un impero trattenendo percentuali sulla messa a valore di pratiche, case e interi quartieri in ogni città, per poi farci l’elemosina sulle luminarie, le piccole iniziative e lanciarci qualche predica su come essere dei cittadini migliori? Siamo sicuri che sia accettabile essere il terzo mercato mondiale per Airbnb, dopo Stati Uniti e Francia, avendo un’imbarazzante e sempre più allarmante questione abitativa da risolvere? Con indici di sovraffollamento e disagio abitativo preoccupanti, incapaci come siamo di pensare politiche abitative che non siano edilizie e fermamente convinti che incentivare il turismo sia l’unica via? Di cosa parla il “Pubblico” nei suoi piani strategici, mentre Airbnb parla di piani nazionali, politiche inclusive e persino di rifugiati? Beh, purtroppo il “Pubblico” da diversi anni a questa parte e in perfetta linea con l’agenda europea parla di: mission, brand, crescita, diventare “destinazioni-prodotto” e marketing territoriale (basta guardare al PST 2017-2022).

Bel ribaltone insomma. Se la redistribuzione e le politiche sociali le fa Airbnb, mentre i pianificatori si improvvisano imprenditori collettivi, per rientrare a prezzi accettabili nelle nostre case non resta che augurarsi che al prossimo revival di moda le vecchie strutture alberghiere tornino in voga come “autentiche location del Bel Paese che fu”; e per mettere una pezza al razzismo e alla xenofobia dilaganti, dobbiamo augurarci che i rifugiati sappiano fare delle facce da selfie convincenti, in modo tale che il sensibilissimo host di turno possa giocarsi sui social le loro foto tra gli arredi Ikea del b&n.

D’altra parte, probabilmente le istituzioni hanno solo preso alla lettera la lezione delle aziende smart: la realtà è come la comunichi. Forse sono fermamente convinte anche loro, come la community Airbnb, “che tutti debbano avere un luogo da chiamare casa”. Un luogo, per l’appunto, non necessariamente una casa. Se sotto i ponti si è in tanti, basterà autodefinirsi community e chiamare casa il ponte. Il problema è risolto.