DIRITTI

Lo spettacolo del confine

Non c’è nulla di auto-evidente nella migrazione “illegale”. Quando i confini diventano uno spettacolo della morte […] dei migranti, i discorsi sulla loro vittimizzazione da parte dei “trafficanti” ci distraggono dalle cause reali della illegalizzazione del migrante.

Siamo portati a credere che ci sia qualcosa di ovvio e inequivocabile riguardo l’“illegalità” del migrante. Alcuni sono classificati come “illegali” perché hanno presumibilmente violato “la Legge”. Eppure, nella maggior parte delle descrizioni di questi migranti, vi è poca o nessuna considerazione di ciò che la legge sia veramente, o di come sia divenuta tale. Questa, dopo tutto, ha una storia, ed è una storia profondamente politicizzata di interventi ponderati e più o meno pianificati. In quanto tale, non è possibile riflettere sulla reale condizione sociale e politica dei migranti al di fuori dei più ampi contesti che producono le specifiche situazioni di “illegalità”.

I migranti diventano “illegali” soltanto quando le misure, legislative o esecutive, rendono specifiche migrazioni o tipi di migrazione “illegali” – o in altre parole, le illegalizza. Da questo punto di vista, non ci sono davvero dei migranti “illegali”, ma piuttosto migranti illegalizzati. Le vere origini di tale illegalizzazione devono essere rintracciate nei provvedimenti, nei dibattiti, e nelle decisioni dei legislatori. La legge che illegalizza i migranti rimane in gran parte invisibile, mentre lo spettro del migrante subdolo e astuto e diventa iper-visibile attraverso le rappresentazioni dei media sul controllo del confine. Questo è ciò che nel mio libro Working the Boundaries ho descritto come lo spettacolo dell’enforcement “al” confine, laddove l’“illegalità” del migrante è resa spettacolarmente visibile.

Lo Spettacolo del Confine allestisce una scena che sembra riguardare interamente l’“esclusione”, dove coloro che sono presumibilmente “non voluti” o “indesiderati”– e, in ogni caso, “non qualificati” o “non idonei” – devono essere fermati, tenuti fuori, e rimandati indietro. Allo stesso tempo, il confine appare per dimostrare, verificare e legittimare la presunta naturalezza e la sedicente necessità di tale esclusione. Le pratiche concrete del controllo del confine si intrecciano con questo tipo di linguaggio e immagini per trasformare l’illegalità del migrante in qualcosa di apparentemente “reale”.

Questa scena di esclusione è comunque sempre accompagnata dal suo oscuro, non riconosciuto pubblicamente o sconfessato, supplemento osceno: il reclutamento su larga scala dei migranti illegalizzati come giuridicamente vulnerabili, precari, e, quindi, forza lavoro trattabile. A fronte di confini sempre più fortificati, militarizzati e controllati, coloro che li eludono sfuggendo alla cattura sono ricompensati con la prolungata e indefinita condizione sociale dell’“illegalità” con tutte le privazioni che l’accompagnano.

Soprattutto, l’“illegalità” del migrante è legata alla deportabilità: la possibilità di essere forzatamente rimosso dallo spazio dello Stato. È tale cupa prospettiva di espulsione coercitiva che caratterizza questa forza-lavoro. Lavoratori straordinariamente vulnerabili che vivono nella paura permanente della Legge sono, dopotutto, molto redditizi per i datori di lavoro. L’impudenza dell’esclusione dello spettacolo del confine, allora, è inseparabile dal suo ventre osceno: la vera relazione sociale dei migranti illegalizzati con lo Stato, e il segreto pubblico della loro abietta inclusione come lavoro “illegale”.

Inclusione Oscena

Lo Spettacolo del Confine, come abbiamo visto, evoca l’immagine della trasgressione dei confini da parte dei migranti. Come un trucco magico, esso sposta l’“illegalità” dal luogo di produzione – i processi di legiferazione – alla cosiddetta “scena del crimine”. Questo, naturalmente, si raddoppia nella scena di apparente lotta alla criminalità, altro elemento chiave nel rendere il confine un’eminente scena di esclusione. La mobilità umana, tuttavia, prevale. Ciò accade nonostante la pressione accumulata e la violenza inflitta lungo i confini, zone che si inseriscono sempre più nell’interno dello spazio dello stato-nazione e della vita quotidiana sia dei migranti che dei cittadini. Queste dinamiche che illegalizzano i migranti e producono le condizioni per lo sfruttamento del loro lavoro sono ciò che io chiamo inclusione oscena.

L’oscenità riguarda meno l’occultamento che l’esposizione selettiva. Mentre l’attività legislativa dello Stato produce l’“illegalità” del migrante come un “problema” persistente, la spettacolarizzazione del controllo del confine riafferma comunque l’esistenza di un esercito di riserva di lavoro deportabile pronto e disponibile all’interno dello spazio dello stato-nazione. In questo modo, lo Spettacolo del Confine sembra mostrare la diligente, seppur sotto assedio, “risposta” dello Stato al fantasma della “crisi” dell’“invasione” al confine da parte di orde di migranti “illegali” e di richiedenti asilo. L’orrida invasività, l’inesorabilità, e l’ubiquità della migrazione “illegale” serve così a suscitare sempre più intense e ampie intrusioni del potere statale nella vita quotidiana di tutti.

I discorsi relativi al “traffico di esseri umani” e al “traffico di migranti” consentono ulteriormente allo Stato di fregiarsi come un paternalistico (anzi, patriarcale) “racket di protezione”, per usare la definizione di Charles Tilly. In questi casi, la “protezione” dello Stato è benevolmente estesa oltre i suoi cittadini “legittimi” per includere alcuni migranti, in particolare le donne presumibilmente salvate dagli intrinseci eccessi criminali che della migrazione “illegale” stessa. Il discorso sul “traffico” identifica così in senso stretto la fonte dello “sfruttamento” dei migranti come “straniera” – i “trafficanti” e l’intera “opportunistica” infrastruttura della stessa migrazione “illegale”. In questo modo, i migranti illegalizzati sono considerati bisognosi di “protezione” – da qualcun altro!

Tali discorsi quasi mai interrogano i più ampi regimi di confine e di immigrazione creando la necessità di forme precarie e vulnerabili di attraversamento “illegale” del confine, e di conseguenza l’esigenza di ampliare lo spazio di sfruttamento dei migranti e dei richiedenti asilo. Allo stesso tempo, l’esposizione alle compassionevoli e indifese “vittime” del “traffico dei migranti” conferma, in ogni caso, l’esistenza di una popolazione ombra di abitanti migranti infinitamente docili e trattabili. A questo proposito, vediamo come lo Spettacolo del Confine – come una scena di esclusione – afferma il fatto osceno di una sorta d’inclusione subordinata. I bigotti ma fondamentalmente ipocriti discorsi che denunciano il “traffico di migranti” e il “traffico di esseri umani” sono gli esempi migliori degli atti di oscenità dello Spettacolo del Confine che espone il proprio “sporco segreto”.

Sfruttabilità essenzializzata

La rappresentazione dei migranti sia come “vittime” che come opportunisti “criminali” cancella in modo efficace quel tipo di agency su cui poter contare in termini di auto-determinazione. L’interdizione dei migranti illegalizzati dalla capacità di auto-determinazione implica, inoltre, la loro incapacità di auto-governo e di cittadinanza democratica. In questo modo, si riduce efficacemente lo sfruttamento delle migrazioni “illegali” a poco più che la verifica della loro sfruttabilità: la loro sottomissione sembra semplicemente dimostrare il loro essenziale servilismo. Questo traspone la politica della cittadinanza e le disuguaglianze dell’immigrazione in una politica essenzialista della “differenza” che sembra sorgere dalla “estraneità” dei migranti.

La politica ineguale della cittadinanza, che è istituzionalizzata nelle leggi sull’immigrazione, produce l’“illegalità” del migrante. Lo Spettacolo del Confine ri-traduce sistematicamente la stessa “illegalità” in una quasi-intrinseca deficienza dei migranti stessi. Lo spostamento delle disuguaglianze giuridiche e delle ingiustizie del confine negli stessi migranti illegalizzati – oltre ai discorsi paternalistici che presentano i migranti come “vittime” puramente passive – contribuiscono inevitabilmente alla razializzazione dei migranti.

*Il testo della versione originale inglese «The border spectacle of migrant ‘victimisation’» è stato pubblicato da Open Democracy.

Traduzione di Claudia Bernardi