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La pandemia nella più grande favela del Brasile: «Qui non ci interessa cosa dice Bolsonaro»

Magda Gomes è un’attivista sociale di Rocinha, la più grande favela del Brasile, dove ci sono già almeno 33 casi confermati e 2 morti di Covid-19. Lei afferma che lo Stato non si è ancora attivato per prevenire la massiccia diffusione della malattia, sono invece apparse altre forme di aiuto, come l’organizzazione comunitaria e sociale, le chiese evangeliche ed anche il coprifuoco imposto dai narcotrafficanti. Tra sovraffollamento, problemi di approvvigionamento idrico e lavoro informale i residenti della favela si trovano esposti a un rischio per la salute che va ben oltre il negazionismo presidenziale

In questi ultimi anni Rocinha è stata colpita da varie disgrazie: l’intervento militare nel 2018, il temporale con valanghe nel 2019 e il coronavirus oggi. Nella più grande favela del Brasile dove vivono circa 100.000 persone il Covid 19 sta già circolando. Quando è stato scritto questo articolo (13 aprile) c’erano già 2 morti e 33 positivi, cifra relativamente più alta di circa tre volte rispetto al Brasile intero, che si trova in estrema difficoltà: la negazione della pandemia da parte del presidente Jair Bolsonaro sta producendo il timore di un disastro imminente; tuttavia per gli abitanti delle favelas la situazione è molto più grave di quanto dica Bolsonaro.

Il problema, afferma Magda Gomes (27 anni), attivista sociale e abitante della Rocinha e studentessa di ingegneria, è che lo Stato esiste a malapena nella favela. Lo dice mentre è in piedi sul marciapiede, alla porta del centro cittadino di Rinaldo de Lamare, che si trova proprio di fronte a Rocinha, dall’altra parte del ponte pedonale: una passerella costruita da Niemeyer dove ora è appeso un grande cartello con scritto “Rimanete a casa”. Siamo nella zona sud di Rio de Janeiroa pochi isolati dai quartieri più ricchi della città e la strada è piuttosto trafficata: qui, per ora, la quarantena è volontaria.

Gomes è appena tornata dalla favela per una riunione che si terrà tra poco. Il suo collettivo Rocinha Resiste sta organizzando un intervento per la prossima settimana, saranno distribuiti cibo e materiale igienico di prima necessità. L’organizzazione sociale della comunità sembra costituire l’altra faccia della fragilità dello Stato, sebbene vi siano anche altri attori in gioco. Gomes, che per prima cosa chiarisce di essere una macumbeira, riconosce il “ruolo fondamentale” delle chiese evangeliche nella distribuzione degli aiuti in piena crisi sanitaria. Risponde poi con estrema cautela quando le viene chiesto di un altro protagonista di cui si è molto parlato nelle ultime settimane: da quando è scoppiata la pandemia c’è un coprifuoco stabilito dai narcotrafficanti nella favela, per ridurre la circolazione delle persone in alcuni orari della giornata.

Gomes parla di tutto questo con lavaca, mentre risponde alle chiamate e ai messaggi riguardanti l’operazione di soccorso che sta organizzando. «Ci stiamo mobilitando, ma non possiamo sostituire lo Stato», insiste, elencando problemi strutturali e storici sconosciuti a chi non li ha mai subiti: sovraffollamento, mancanza d’acqua e fame.

 

 

Quali misure di prevenzione specifiche ha adottato finora lo Stato a Rocinha?

Nessuna. Ha solamente fatto circolare un’auto con un megafono che grida: “Lavatevi bene le mani”. Ma molti non hanno acqua nella favela!

 

E il gel alcolico è costosissimo.

L’alcool in gel è un’allucinazione della classe media. Che me ne faccio di un po’ di alcool in gel se non ho nemmeno l’acqua a casa?

 

Com’è il problema relativo all’acqua?

L’acqua di tutta Rocinha è distribuita grazie a un sistema di pompe centralizzate, ma quando la società di distribuzione non lo mantiene, ci sono aree che rimangono senza acqua per diversi giorni, soprattutto nelle zone più a nord della favela. Si potrebbe pensare a dei piani di razionamento, ma lo Stato ci risponde: «Lavatevi le mani ogni cinque minuti». Ma chi ha l’acqua ogni cinque minuti qui? E il problema dell’acqua in questa zona esiste da tempo.

 

Pensi che questo problema adesso avrà più visibilità mediatica?

Sì, ma si tratta di problemi strutturali storici, non solo di Rocinha, di tutte le aree periferiche dell’America Latina: acqua, fognature e sovraffollamento. La necropolitica serve a capire come i più poveri verranno rovinati: se pensiamo alla realtà delle favelas da una prospettiva necropolitica risulta ovvio come non saremo mai i primi ad accedere ad un respiratore. Mia zia e mia cugina, per esempio, che vivono lassù sulla collina avrebbero dovuto suscitare un gran clamore per ottenerne uno. Ciò che si percepisce qui non è solo il pericolo di morte fisica, c’è una continua sensazione di morte, senza sapere quando colpirà te e la tua famiglia.

 

 

Gli abitanti della favela stanno rimanendo a casa?

In realtà sono impossibilitati a farlo, poco fa, ad esempio, un ragazzo è venuto a dirmi che deve lavorare perché che deve pagare le bollette. Gli ho risposto: «È una questione sanitaria molto grave, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dice che bisogna fermare tutto e restare a casa. Se ti chiedono di pagare tu responsabilizza la banca». Se questo discorso vale per alcune persone, so che nella realtà della favela non funziona così. La gente ha bisogno di mangiare, di pagare l’affitto e di avere qualche aspettativa di vita. Ancora di più quando si vive con cinque o sei persone in una casa di tre metri quadrati…

 

Chi tiene il registro dei casi confermati di Covid-19 nella favela?

Il nostro suggerimento è di non basarsi sui grandi mezzi di comunicazione, ma in quelli della favela stessa, che sono gli unici che lavorano con l’Unità di Pronto Soccorso dove si ricevono i casi sospetti, si registrano e si sottoscrivano i rapporti sulla situazione quotidianamente.

 

Le cose sarebbero diverse con un altro governo?

I problemi sono ormai di natura strutturale, ora c’è un quadro pandemico che è una variabile centrale, che espone l’incapacità dello Stato nel pensare e nell’agire in situazioni di emergenza.

 

In molti quartieri di Rio de Janeiro ci sono cacerolazos contro Bolsonaro. Anche qui?

Sai perché un cacerolazo non avrebbe senso qui? Perché a nessuno interessa quello che dice Bolsonaro, perché non ha importanza nella favela, dato che è una realtà totalmente diversa. D’altro canto ha senso invece applaudire gli operatori sanitari, perché è il popolo che guardandosi negli occhi si supporta. Io come abitante della favela non mi identifico con Bolsonaro in nessun modo, non mi riconosco in lui. Anche perché il mio background politico è diverso, per esempio, da quello del mio patrigno, che è un evangelico di una chiesa neopentecostale e tutti sappiamo a chi è rivolto il discorso di Bolsonaro “Dio sopra ogni cosa”. Per questo dobbiamo anche capire che la favela non è un’unità.

 

Quale ruolo giocano le chiese evangeliche nella favela di fronte alla crisi sanitaria?

Ci sono parti della comunità che non raggiungiamo. Le chiese, invece, si rivolgono ad un pubblico specifico e hanno un ruolo sociale fondamentale nella distribuzione dell’assistenza. Abbiamo un dialogo con loro. La risposta a questa crisi deve essere un processo democratico, che coinvolga il maggior numero possibile di settori.

 

 

E le forze di sicurezza?

È difficile rispondere a questa domanda, la questione della sicurezza nella favela è ampiamente discussa. Per me “sicurezza” è sapere che posso tornare a casa alle quattro del mattino e non sarò violentata. Ora, chi è il garante di questa sicurezza? Non lo so… mi capisci?

 

È vero che c’è il coprifuoco dettato dai trafficanti di droga?

Risponderò con una metafora perché qui ci conosciamo tutti. Il coprifuoco è come… supponiamo che io viva in una casa con mio nonno, che è quello che garantisce la sicurezza e che assicura che in casa non entri né rubi nessuno, ma supponiamo che io viva anche con mia madre, arrivata molto più tardi, quando c’era già una struttura formata. Chi ascolterò? A chi darò retta? Chi temerò?

 

E come si fa ad agire contro questa struttura già esistente?

Come fa chi? Mia madre?

 

Sì, lo Stato.

Lo Stato si sta comportando in modo deplorevole, esternalizzando il lavoro di assistenza sociale a collettivi della comunità. Non devo essere io a dire allo Stato cosa fare, spetta alle sue istituzioni formulare una strategia. Ma la politica sanitaria è una questione che riguarda lo Stato, anche se è evidente che gli interessi sono altri.

 

 

L’autore Facundo Barrio (@ff_barrio) ha scritto da Río de Janeiro per La Vaca

Traduzione in italiano di Petra Zaccone per DINAMOpress.

Immagini di Lavaca