La Palestina e la primavera araba ancora da venire

Le riflessioni di Areej Jafari da Betlemme per Dinamopress. La lotta palestinese nello scenario regionale dopo l’attacco a Gaza.

In teoria, la primavera araba avrebbe dovuto spingere tanto Hamas quanto Fatah a dare avvio a un processo di riconciliazione – quella primavera araba che dopo lunghi anni di assoggettamento e umiliazioni aveva spazzato via i regimi dittatoriali, rei di aver voltato le spalle ai bisogni e alle aspirazioni dei propri cittadini e instillato il terrore per il potere costituito, mentre i palestinesi continuavano a sfidare la paura e l’agonia nel nome del diritto all’autodeterminazione e della loro giusta causa. È alla luce di tutto questo, che Hamas e Fatah avrebbero dovuto saper rispondere al bisogno dei palestinesi di avviare un processo di riconciliazione.

Dalle strade in lotta, i palestinesi della Palestina occupata e della diaspora hanno mandato un messaggio chiaro alla dirigenza di Fatah e Hamas sulla questione dell’unità e sull’urgenza di una riconciliazione: i palestinesi vogliono e devono poter difendere sé stessi e i propri diritti, e il modo migliore per riuscirci è farlo tutti insieme. Le divisioni e differenze devono essere superate alla luce della continua aggressione perpetuata dall’occupazione israeliana.

L’ultima offensiva su Gaza è stata orribile e tremenda come quella del 2008-2009, ma da allora la regione è stata attraversato da quel profondo mutamento chiamato primavera araba. Israele si trova in una situazione che resta poco chiara e appare inedita rispetto a incidenti precedenti, per via del mutato scenario politico – e, al contempo, l’attacco è stato anche per Israele un primo modo per testare la nuova leadership araba.

Le popolazioni arabe sono sempre state partecipi della lotta palestinese: è grazie alla primavera araba se cinquecento egiziani sono arrivati nelle strade di Gaza per protestare contro l’offensiva israeliana e sostenere i palestinesi di Gaza – il che non sorprende, se si considera che si tratta di giovani cresciuti a pane e Palestina. Eppure, lo scenario rispetto ai giorni della primavera araba è cambiato, e l’influenza strategica di quel movimento sulla causa palestinese non sembra aver raggiunto i livelli auspicati.

Il vertice d’emergenza dei Ministri degli esteri dei paesi arabi è arrivato in grande ritardo, quando a Gaza già si contavano 46 vittime. Quanti altri palestinesi dovevano morire prima che si decidessero a convocarlo? Un summit del tutto simile a quelli delle stagioni precedenti: lunghi e retorici discorsi di condanna, e incapacità di dare voce alle seppur esili trasformazioni della mappa geopolitica, nonché alla nuova dinamica prodotta dai cittadini scesi in strada nei loro stessi paesi nel nome del rifiuto ad arrendersi alle ingiustizie sociali e politiche.

Un vertice conclusosi con un rinnovato impegno economico nei confronti di Gaza, indubbiamente necessario per la ricostruzione dopo l’offensiva ma di cui Gaza aveva pari bisogno anche prima – e di cui peraltro potrebbe continuare a esservi necessità, se non verranno messe in atto garanzie internazionali e politiche che impediscano a Israele di lanciare un’ulteriore offensiva per distruggere quanto è stato o verrà ricostruito.

Prima dell’attacco a Gaza, avrei potuto comprendere in parte le ragioni di questi fumosi esercizi di retorica, giustificabili solo e soltanto con il timore per la potenza militare di Israele – per quanto è bene ricordare che alcuni di quei paesi hanno dedicato buona parte del proprio bilancio alla voce esercito e difesa. Ma gli otto giorni che hanno visto i movimenti resistenti palestinesi sfidare l’artiglieria israeliana hanno dimostrato che non tutto è riconducibile a una questione di potenza militare. I movimenti resistenti sono tutto fuorché un esercito organizzato, eppure si sono dimostrati un valido rivale per le forze di occupazione israeliane. E, a questo punto, Israele ha in Gaza un avversario che non è sembrato forse conoscere abbastanza.

Le trasformazioni profonde innestate dalla primavera araba avevano dato vita a grandi aspettative, soprattutto in relazione all’Egitto. Ma il nuovo Presidente egiziano Morsi ha mantenuto il blocco su Gaza e si è rifiutato di aprire le frontiere, con la scusa delle dinamiche interne al proprio governo, del pasticcio sul versante della sicurezza nella penisola del Sinai, per non parlare della situazione di crisi economica e impantanamento politico in cui si trova il paese. Evidentemente, Morsi ha deciso che scontrarsi con Israele non era una priorità, a prescindere da quanto vicino si senta ideologicamente o moralmente alla causa palestinese e al Movimento di resistenza islamica Hamas: nel nome degli interessi dell’Egitto, nonché degli interessi elettorali dei Fratelli Musulmani, ha deciso di mantenere chiusa la frontiera con Gaza e di non aprire un fronte che ritiene troppo pericoloso per l’economia egiziana o per il suo governo. Da qui la scelta di farsi promotore di un fragile accordo per un cessate il fuoco indefinito.

Dal canto loro, il Qatar e gli altri paesi arabi hanno parlato a nome dei propri soldi anziché dei propri popoli, esattamente come facevano prima dell’ultimo feroce bombardamento su Gaza. Sebbene Hamas abbia accolto di buon grado l’emiro del Qatar e i suoi investimenti a Gaza, concessi dal Qatar nella convinzione di potersi aggiudicare Hamas nella competizione con l’Iran. Nell’insieme, se è vero che Hamas ha fatto scelte politiche non del tutto in linea con questi due governi o con altri – le scelte sono state dettate dai palestinesi e dalla loro volontà di continuare a resistere anche a costo di perdere sostegno economico –, la tattica adottata da Hamas nei confronti delle potenze regionali è apparsa politicamente pragmatica e matura, riuscendo così ad assicurarsi più facilmente appoggi politici ed economici nella regione.

Il massacro su Gaza ha distolto l’attenzione politica e mediatica dalla Siria, nonostante nei giorni del massacro anche i siriani abbiano continuato a essere trucidati, con decine di vittime su entrambi i fronti. Ma quanto succedeva a Gaza ha oscurato gli eventi in Siria, e il regime siriano non ha mancato di approfittarne. Un regime che non sostiene più Hamas e a cui torna comoda la distruzione parziale della sua infrastruttura, visto che Hamas appoggia la rivoluzione popolare siriana – una scelta pubblica strategica rispetto all’Iran.

Dopo otto giorni in cui il cielo di Gaza è stato illuminato dai lampi delle bombe sganciate su persone innocenti, persone che non si fanno piegare, nel primo giorno del cessate il fuoco a Gaza pioveva e il cielo tuonava. Un’atmosfera cupa e pesante, resa acre dall’odore di morte ovunque, dove non c’era spazio per gioire davvero per la fine dell’aggressione, con il pensiero già rivolto a quando arriverà la prossima. Ma la domanda resta: i governi arabi sapranno sorprendere come ha fatto la resistenza?

Betlemme, 26-11-2012

*Traduzione dall’inglese di Dinamopress. Disegno di Nidal El-Khairy, “First line of defense: i reparti antisommossa dei paesi arabi sono la prima linea di difesa israeliana”.