MONDO

La “grande frattura”

La politica statunitense e gli ostacoli della presidenza Obama

In occasione del II Festival di Storia, dal titolo “American Revolution” e organizzato dal Nuovo Cinema Palazzo, abbiamo l’occasione di intervistare Bruno Cartosio, studioso di storia americana e in particolare dei movimenti sociali contemporanei.

Il suo ultimo libro, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti (ed. ombrecorte 2013), getta uno sguardo critico sulla società statunitense negli ultimi due decenni e sull’evoluzione plutocratica dei poteri economico-politici che hanno provocato la “grande frattura” tra l’uno e il 99% dei cittadini. La presidenza Obama, sia per la spinta dei movimenti sociali che per il ruolo antagonista svolto contro i repubblicani e la sua componente più reazionaria, ha creato speranze di cambiamento che in larga parte si sono rivelate illusioni, ma certamente ha evidenziato le linee di faglia che percorrono le élite politiche affatto omogenee o coese, comprese quelle legate al partito democratico, così come la solidità delle lobby economico-finanziarie. I “fat cats” dei mercati finanziari, l’opposizione repubblicana, così come le pressanti richieste dei movimenti sociali hanno messo in ulteriore difficoltà il presidente a cui è toccata in sorte la gestione della fine dell’«età dell’oro» del capitalismo USA e il suo declino sul piano internazionale, di cui l’affaire Siria ne è solo il segnale più recente.

Al contempo, Obama è costretto a trovare un equilibrio tra queste forze che gli permetta di consolidare il consenso ottenuto dei democratici e non disperderlo in vista delle prossime elezioni. Le due riforme su sanità e immigrazione, che hanno costituito la breccia per la vittoria alla seconda rielezione, stanno scontando i duri attacchi da parte dei repubblicani, ma stanno anche disvelando in modo inequivocabile le forti contraddizioni che contraddistinguono la posizione dei democratici. A questo proposito, Bruno Cartosio ci indica le questioni più delicate e i recenti sviluppi nel dibattito politico.

Il suo lavoro si è generalmente concentrato sulla storia contemporanea degli Stati Uniti, dai conflitti sul lavoro di fine Ottocento fino ai lunghi anni Sessanta del secolo ventesimo, mentre il suo ultimo lavoro si è dedicato ad analizzare la politica più recente. In particolare, mi sembra interessante capire come la presidenza Obama abbia gestito i rapporti con il partito repubblicano in occasione della discussione sul bilancio e lo shutdown: quali sono i termini di questo rapporto e dove sta conducendo gli USA in questa fase complessa della sua storia?

Innanzitutto, il cosiddetto shutdown, derivato dall’indisponibilità di fondi per pagare una serie di salari e stipendi dello Stato Federale e per la ricaduta da parte dei singoli stati, unito all’innalzamento del tetto del debito consentito allo stato Federale, sono due aspetti molto recenti e abbastanza indicativi di una contrapposizione molto radicale fra partito repubblicano e democratico intorno alla questione del bilancio. In secondo luogo, c’è stato un netto mutamento nella posizione di Obama in quanto Presidente degli USA dopo la rielezione del 2012. C’è stato essenzialmente un rafforzamento derivante dalla sconfitta dell’antagonista. Obama ha vinto e quindi è più forte, perchè nel momento in cui è stato messo in discussione ne è uscito vincitore. La sua posizione gli permette, nella sua lettura della realtà, di denunciare la posizione dei repubblicani e contrapporsi in modo deciso a loro, sapendo di poter contare sulla possibilità di dare voce alle proprie ragioni, denunciando i repubblicani e avendo l’appoggio di gran parte della popolazione.

In terzo luogo, si registra un esplicito appoggio della popolazione che, oltre ad averlo rieletto, negli ultimi anni è stata sensibilizzata in parte dai democratici, in parte dai movimenti del tipo Occupy, oltre che dai media i quali hanno dovuto occuparsi del problema delle disuguaglianze. Il partito repubblicano, diviso al proprio interno, si contrappone alla politica di apertura e disponibilità dello Stato all’innalzamento del debito, finalizzato a politiche a favore dei ceti meno abbienti, esponendosi così al forte contrattacco dei democratici e di Obama. Il Presidente ha gestito questa situazione delicata “manovrando dalla seconda fila” e mandando avanti il partito democratico, intervenendo rare volte, ma con interventi espliciti.

Lei ha fatto adesso riferimento ai movimenti Occupy. Nel suo testo ricorre spesso la questione della plutocrazia, quei gruppi oligarchici che stanno fortemente monopolizzando la politica statunitense, a partire dal problema dei finanziamenti alle elezioni, e costituiscono un apparentemente solido 1% al “governo” del paese. Al contempo, Obama è stato spinto proprio da questi movimenti nella sua campagna elettorale, portandolo poi nuovamente alla presidenza per il suo secondo mandato. Occupy e le mobilitazioni continue, condotte prevalentemente dagli “ispanici” che sin dal 2006 si sono date per la riforma dell’immigrazione, sono movimenti che hanno espresso un’opposizione molto forte alla politica presidenziale. Come il progetto sulla sanità e la riforma dell’immigrazione sono stati presi in considerazione da Obama? Quale sbocco possono trovare tali questioni, ridefinendo nel contempo il ruolo stesso del presidente nel suo scontro con i repubblicani?

Sulla questione dell’immigrazione, la posizione di Obama e della sua amministrazione presenta molti elementi di ambiguità. Da un lato, si vuole dare la cittadinanza anche ai figli di immigrati illegali che siano andati a scuola e abbiano raggiunto una certa anzianità scolastica, riconoscendo per così dire l’appartenenza agli Stati Uniti. Questa sua proposta è stato un elemento che gli ha portato molti consensi da parte della comunità ispanica, composta in buona parte da messicani. Al contempo, c’è una politica di rafforzamento del controllo alle frontiere: un muro infinito di cui si parla molto poco, ma è un vero e proprio muro della vergogna, tanto quanto quello di Israele, che viene continuamento rinforzato e presidiato. Si è incrementato il budget per aumentare le forze di polizia e dotare di nuovi mezzi il personale di controllo al confine. Questo è un dato estremamente negativo, se lo guardiamo da un punto di vista di sinistra, cioè favorevole a una diversa gestione del problema dell’immigrazione.

D’altra parte, Obama ha avversato la legge in materia approvata dallo Stato dell’Arizona: una legge fortemente repressiva e caratterizzata dal pregiudizio razziale. In questo senso, c’è il tentativo di affrontare il problema dell’immigrazione con un’apertura mentale diversa da quella dei repubblicani, o almeno delle sue componenti più reazionarie che esprimono una politica basata sull’essere “contro tutto”. Invece, Obama cerca di far accettare la sua politica migratoria nei termini di una gestione ragionevole che non apre i confini a tutti i migranti, ma si rivolge alla parte più disponibile dei repubblicani. Il limite di questa sua posizione sta proprio nella sua ambiguità: non c’è un progetto unitario che riesca a gestire il problema dell’immigrazione, del controllo e della regolazione dei flussi senza far ricorso agli altri mezzi che sono propriamente repressivi. Secondo me la sua politica ha dei forti margini di ambiguità che la rendono non convincente.

Il progetto sulla sanità, entrato in vigore a ottobre, si sta scontrando con l’inadeguatezza delle strutture elettroniche che dovrebbero gestire il flusso delle domande di accesso. Tale flusso è stato talmente forte nei primi giorni che i democratici ne hanno tratto un dato diretto di approvazione della riforma, proprio perché molta gente vuole entrare nel nuovo sistema di assistenza. Però il flusso è diventato talmente grande e le strutture così inadeguate che il sistema si è intasato e poi bloccato: i democratici hanno fatto davvero una figuraccia, dimostrando che non sono in grado di gestire quello che loro stessi hanno messo in moto.

I repubblicani hanno condotto un’opposizione radicale, sconsiderata, illogica, pazzesca e reazionaria. Tale opposizione ha modificato il progetto che, rispetto alla formulazione iniziale, è smembrato, reso meno efficace, molto diluito, meno inclusivo e molte persone ne sono immediatamente escluse. Questo risultato è appunto dovuto al lavoro sistematico che i repubblicani hanno fatto per smontare e rendere inefficace questo progetto e dei compromessi che l’amministrazione Obama ha dovuto accettare per poterlo portare a termine. Tutto ciò rende il progetto solo parzialmente efficace, meno ampio di quello che avrebbe voluto e sarebbe dovuto essere, soprattutto – devo essere preciso – ha in sé un limite molto grave. Nel momento in cui la Corte Suprema ha riconosciuto la costituzionalità del progetto, al contempo ha rifiutato di renderne obbligatorio il finanziamento da parte degli stati, così da lasciarlo alla volontarietà delle adesioni. Circa venticinque stati, ovviamente a direzione repubblicana, hanno deciso di non finanziarlo e questo di fatto rende parziale e deficitaria la sua attuazione. In breve, nello stesso momento in cui è stato deciso che non era possibile opporsi al progetto è stata smontata l’obbligatorietà di metterlo in moto e quindi la sua stessa forza. Obama deve fare i conti con questa contrattazione, rispetto alla quale non è in condizione di prendere iniziative in questa fase, ma visto che non è possibile una rielezione spero che si impegnerà a superarlo in qualche modo negli anni mancanti alla scadenza del suo mandato.

Rispetto ai movimenti, dobbiamo dirci che Occupy è entrato in una fase carsica. Al contempo, è vero che c’è stato un rafforzamento del movimento dei latino-americani che hanno preso iniziative forti, ampie e importanti, le quali hanno avuto anche un eco e una pubblicità considerevole. Però dobbiamo dirci che da solo non basta.