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La frontiera australiana

Sesta tappa di Venezia Salva sul western di W. Thornton, Sweet Country

Come nasce il diritto? Carl Schmitt avrebbe detto secondo un atto originario di conquista, spartizione e produzione in un certo spazio. Warwick Thornton ha mostrato in immagini l’applicazione pratica di questo principio nel Nord dell’Australia nel suo ultimo film, Sweet Country, presentato in concorso a Venezia. La storia, ripresa da fatti realmente accaduti, è ambientata nel 1929 ad Alice Springs (località di nascita del regista e dello sceneggiatore David Tranter, entrambi di ascendenza aborigena), in una terra di mezzo contesa tra nuovi colonizzatori e nativi.

 

Ad Alice Springs mancano sia una chiesa che un tribunale, l’etica e la legge che normano la vita civile della conquista, e il mondo è diviso in due tra i bianchi proprietari e gli schiavi aborigeni, trattati come merce di scambio. Non potrebbero essere all’apparenza più diversi Fred e Harry: il primo (S. Neil) è un padrone comprensivo ed egualitario, cattolico e pastore che sfrutta i lavoratori con benevolenza, il secondo (E. Leslie) è un colono nuovo arrivato, reduce della prima guerra mondiale, alcolista violentissimo. Rappresentano due forme di gestione del “lavoro”: coperto di morale religiosa ed egualitaria il primo, brutale e feroce il secondo. I due però sono in realtà due facce della stessa medaglia dato che cooperano tra loro e si prestano i propri schiavi a vicenda. Quando il violento Harry si metterà a usare gli schiavi di Fred con gratuita brutalità facendoli lavorare senza cibo né paga e cercando addirittura di approfittarsi sessualmente delle loro donne ne nascerà un conflitto che porterà uno degli schiavi a uccidere Harry a colpi di fucile a seguito delle sue minacce e violenze.

 

La fuga di due di questi schiavi (Hamilton Morris e Natassia Gorey-Furber) avviene in spazi sterminati di terriccio rosso, senza nessuna consolante o epica colonna sonora, tra deserti lucidi di sabbia e alberi verdeggianti: un’immensa distesa di terra nullius. Il diritto, infatti, si basa sull’appropriazione del suolo, la sua spartizione in proprietà private e la trasformazione per mezzo del lavoro. Forma dell’ordinamento e costituzione della nazione che funzionarono anche per la colonizzazione australiana con l’espropriazione delle res nullius dei nativi, appropriabile a mezzo di massacri – l’ultimo proprio a Coniston nel 1928, un anno prima degli eventi descritti nel film. Gli aborigeni che non erano morti ammazzati oppure uccisi dalle malattie erano stati messi a lavoro come schiavi e il loro diritto consuetudinario precedente eliminato. Non furono mai risarciti. Neppure dalla sentenza Mabo del 1992 che, riconoscendo il diritto di un gruppo tribale a una terra posseduta con documentata continuità, non costituisce altro che un indennizzo culturale circoscritto. Le terre migliori, infatti, erano state già privatizzate.

 

Quella stessa vaghezza costituzionale e legislativa nella tutela dei diritti degli abitanti originari si riflette oggi nella violazione dei diritti dei migranti moderni, implicitamente ricondotti alla condizione otto-novecentesca dei nativi. L’ingiustizia strutturale verso di loro funziona da paradigma di ogni espropriazione e sfruttamento su scala planetaria, così come ne è simbolica ratifica il rapimento dei minori a scopi “assistenziali”, legalizzato ancora nel piano emergenziale noto come Northern Territory Emergency Response, messo a punto nel 2007 dal primo ministro conservatore Howard, feroce nemico sia di aborigeni che di migranti.

 

Non è un caso che Thornton – che fa parte di una lunga serie di registi australiani che si interrogano sul rimosso aborigeno a partire da casi di violenza e discriminazione – scelga un western esteticamente raffinato per spiegare la nascita del diritto in Australia come confisca e conquista, con la specificazione che l’appropriazione avviene, prima ancora che sulla terra, sui corpi. Delle donne prima degli altri. E lo fa mostrando non solo l’originarietà ma anche l’ineluttabilità della violenza, usando con maestria la tradizione orale aborigena per cui le storie non solo scavano nel passato ma anticipano il futuro. Come ne L’ultima onda (1977) di Peter Weir, dove l’avvocato bianco difensore degli aborigeni è ossessionato da un sogno profetico: uno tsunami apocalittico spazzerà via tutti i colpevoli delle violenze inflitte a nativi e natura. Thornton, invece, passa dalla metafora alla storia diretta, perfino alla cronaca processuale, perché il rimosso culturale è diventato protesta civile, discorso diretto sulla violenza senza rinunciare al contesto nativo: il deserto, i flashforward rivolti al futuro invece che al passato stanno lì a segnalare l’impossibile composizione di eguaglianza cristiana e razza, astrattezza del diritto e sua costituzione materiale.

I precedenti articoli della rubrica Venezia Salva, direttamente dalla mostra del cinema di Venezia

Ex Libris, di A. I.

• L’inattualità del comunismo, di Pietro Bianchi

• I terremotati di Amatrice e le case degli “altri”, di Ambra Lancia

• Il flusso ingovernabile, di Tania Rispoli

• This is the end, di Pietro Bianchi