approfondimenti

ITALIA

La fase sindemica e il mutualismo negli spazi di movimento

Le esperienze di mutualismo e di sostegno dal basso alla salute che si sono diffuse a partire dall’emergenza pandemica in molti territori italiani, mostrano in controluce contraddizioni e nodi irrisolti. Un bilancio ambivalente che necessita di riaprire la discussione collettiva attorno a potenzialità rimaste perlopiù inespresse

Il mutualismo e la sfida delle epistemologie

La sindemia ha dato slancio a una serie di esperienze politiche di “mutualismo dal basso” che hanno riportato al centro dell’azione dei movimenti la pratica autorganizzata di sostegno alla salute sul territorio, in forma solidaristica e militante. Per adesso queste pratiche hanno prodotto un impatto ambiguo: la grande attenzione posta sulla salute psicologica, che alcuni di questi progetti hanno contribuito a costruire, non si è risolta in una grande capacità di mobilitazione e ricomposizione. Piuttosto sembra aver prodotto limitati esiti sul piano vertenziale – come per esempio il bonus governativo per l’intervento psicologico, che ha finito per rinforzare i ceti professionali e ricondurre il campo problematico della salute mentale a una dimensione individuale e privatistica.

Non stupisce che nel frattempo non sia avvenuto un incontro tra esperienze di mutualismo e movimenti per la difesa del servizio pubblico. Nelle discussioni di movimento legate alla difesa del Servizio Sanitario Nazionale è emersa spesso una lettura delle esperienze di mutualismo come una “quinta colonna” della destrutturazione del servizio pubblico. Probabilmente a fare da discrimine sono state le aree e le soggettività politiche che hanno messo in atto queste forme, ma su questo torneremo dopo.

Di fronte però all’assenza di un ampio movimento ricompositivo sui temi della salute e sul rilancio del Servizio Sanitario Nazionale dobbiamo analizzare queste esperienze nei loro limiti e nelle loro indicazioni positive: per il portato di soggettivazione politica, per la capacità di incidere direttamente sul malessere di moltissime persone, per le potenzialità di sviluppo a cui alludono. Va chiarito che queste esperienze svolgono anche varie forme di interlocuzione con le istituzioni e i territori a livello locale, di cui sarebbero da indagare il portato e le prospettive. Pur non esistendo ad oggi una aggregazione nazionale, alcune delle realtà di mutualismo italiane sono impegnate in un dialogo anche con le cliniche autogestite europee: tra i diversi attori coinvolti nel percorso di riflessione comune con le cliniche autogestite (soprattutto greche, inglesi e tedesche) c’è il Centro di Salute Internazionale di Bologna, che a livello locale svolge varie interlocuzioni istituzionali formalizzate e si rapporta soprattutto con gruppi di tecnichə e professionistə dei servizi. Il tema della ricerca e del rapporto con servizi e terzo settore non è stato abbastanza sviluppato nella rete e questo, insieme alle  questioni di egemonia e alla frammentazione di ipotesi organizzative, non ha favorito che la rete europea aiutasse nella produzione di strategie esplicite di movimento, legami chiari con altre mobilitazioni o ipotesi sul rapporto con le istituzioni.

Il principale esito di queste forme di movimento è che esse hanno costituito uno stimolo alla riflessione dei movimenti sui temi della cura e hanno attratto moltə giovani operatorə sanitariə in attività di grande valenza pratica, capaci di incidere sulla condizione concreta di popolazioni marginali, di popolazioni escluse dal servizio sanitario nazionale (i motivi di questa esclusione, spesso non determinata da condizioni burocratiche ma dal vissuto soggettivo delle persone, sono assolutamente da approfondire).

Aree e strategie nazionali

Gli ambulatori popolari ad oggi non hanno una significativa formula di aggregazione in Italia, allo stato attuale l’ipotesi più recente che si sta proponendo come luogo di aggregazione e dibattito per queste realtà è quella costituita dalla rete del mutualismo innescata dalle riflessioni di Rimake e Fuorimercato; non si tratta del primo tentativo di aggregazione a livello nazionale: nell’estate del 2022 si è svolta la prima assemblea nazionale pubblica degli Ambulatori Popolari a Labas a Bologna, a cui però non ha seguito uno sviluppo in termini di mobilitazione e di crescita del movimento a livello nazionale. Rispetto a questo tentativo, la rete innescata da Fuorimercato ha il merito di aver unificato nella riflessione mutualismo militante nato dai centri sociali e terzo settore più impegnato in pratiche emancipatorie. Contestualmente, sia il Gabrio con la Microclinica Faith di Torino sia la Brigata Basaglia di Milano (entrambi intervenuti all’incontro nazionale a Labas) hanno svolto autonomi tentativi di costruzione di reti, a Torino aggregando i laboratori mutualistici transfemministi, a Milano le reti antipsichiatriche e il terzo settore impegnato nelle carceri, nei CIE e in alcuni segmenti particolarmente innovativi dei servizi di salute mentale (come quelli che si rapportano con gruppi di utenza con modalità autogestionarie ed emancipatorie, a Modena o a Torino).

Sicuramente l’assenza di una prospettiva politica nazionale e di un coordinamento organizzativo pubblicamente riconosciuto, capace di tenere insieme mobilitazione, ricerca e interlocuzione con altri pezzi di movimento, non ha permesso lo sviluppo di un processo che avesse impatto sulle mobilitazioni. Tale assenza tuttavia è anch’essa una conseguenza di vari fattori. Più che concentrarci sul tema delle aree politiche e delle lotte di egemonia, un tema allucinatorio che rivela solo l’infantilismo di chi milita e che vorremmo far finta che non esistesse, preferiamo qui concentrarci su un nodo teorico: il mutualismo ha mostrato in questi anni dei limiti intrinseci nel campo della sostenibilità, della soggettivazione, della prospettiva strategica, delle forme di interlocuzione con i territori adiacenti (pubbliche istituzioni e terzo settore) e delle gravi insufficienze nello stimolo al conflitto. In alcuni dibattiti non è infrequente sentire ormai un rifiuto dello stesso concetto, criticato come una nuova forma più sottile e mistificata di assistenzialismo. Ma in che direzione il mutualismo può trascendere i limiti che ha mostrato?

Prassi politiche emancipatorie?

Il punto principale da cui guardare a questo campo denso di contraddizioni è il rapporto tra prassi mutualistica e possibilità di cambiamento delle epistemologie e delle modalità di azione codificate per intervenire sul disagio. Per aprire questo tema bisogna prima di tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci presenti nei movimenti: va assolutamente rifiutata l’idea semplificatoria che il mutualismo sia “la quinta colonna” dell’erosione del servizio pubblico – così la questione è mal posta e va ricompresa all’interno della domanda su come prassi ed epistemologie “di movimento” possano interloquire da una parte con le istituzioni esistenti e dall’altra con le altre ipotesi di mobilitazione che insistono sul terreno della salute e della sanità. Bisogna notare che l’accusa di essere “quinta colonna” viene da quei gruppi di operatori in posizioni intermedie le cui lotte sindacali e parasindacali di difesa del servizio pubblico non riescono mai a mettere in discussione come il servizio pubblico stesso funziona e non producono mai idee su come si potrebbe migliorarlo.

Certo, nell’azione degli ambulatori popolari possono esserci molte linee che rischiano di risolversi in inestricabili ambiguità: la prima sta nel farsi finanziare e da chi. Se le cliniche autogestite europee sono riuscite a entrare in parte nel sistema del mutualismo assicurativo, garantendo così un introito attraverso le comunità con cui operano, in Italia le fonti di finanziamento disponibili sono principalmente due: le ASL o le Fondazioni Bancarie. Le fondazioni bancarie, che negli ultimi anni stanno prepotentemente entrando nei programmi di finanziamento del welfare anche in coordinamento con gli Enti Locali, attraverso i “Fondi di comunità”, fanno questo mentre contemporaneamente promuovono programmi più generali di finanziarizzazione e mercatizzazione del welfare che rischiano di risolversi in forme di esclusione delle popolazioni marginali. Si può, e come, trovare un metodo per stare in queste linee di finanziamento continuando la lotta contro l’esclusione dal welfare finanziarizzato? Non abbiamo una risposta ma ci sembra in primo luogo tenere aperto il dibattito.

Farsi finanziare dalle ASL pone un altro ordine di problemi: se in parte si tratta di ottenere un riconoscimento della propria prassi, il rischio è che tali finanziamenti riproducano la targetizzazione della popolaizone utente secondo categorie standardizzanti che producono una discriminazione di chi è vittima di determinati processi di marginalzizazione. La cosiddetta “marginalità estrema”, i “poveri lavoratori”, gli “stranieri senza dimora” o i “senza dimora irriducibili”: può essere che una ASL particolarmente progressista finanzi un ambulatorio popolare perchè è l’unico che riesce a intercettare queste popolazioni; sarà possibile, una volta ottenuto il finanziamento, orientare la propria azione alla lotta per l’universalismo e contro le targetizzazioni discriminatorie dell’utenza?

Tocchiamo solo marginalmente l’altro possibile problema pratico del mutualismo militante: che in esso si esercitino nuove dinamiche del controllo del merito (per esempio: occupo per te se partecipi alle manifestazioni, ti do il cesto di pasta o le cure mediche se ti iscrivi al mio sindacato di base, conto quante volte ti fai vedere al centro sociale a fare i lavori per fare la nostra graduatoria da assistenti sociali, pensando questo conteggio come opera di “politicizzazione”); la fase di risacca del conflitto sociale in questo momento impedisce abbastanza che si verifichino questo tipo di distorsioni paraleniniste.

Una domanda che permetta di ampliare lo sguardo

Guardare con occhio critico al nodo delle prassi, dirimere se queste siano emancipatorie o se riproducono i saperi e le gerarchie di ruoli esistenti, pur se trasposte in altro contesto, è la strada attraverso cui possiamo riflettere sulle strategie politiche di superamento del mutualismo. Significativo in primo luogo che questa domanda, e questo sguardo sulle prassi, tiene insieme il mutualismo militante, il terzo settore e il servizio pubblico. Unificare, creare movimento ampio, non può che intercettare nodi problematici e riflessioni comuni che emergano da questi tre ambiti. La domanda correttamente posta sarebbe: in che misura le riflessioni scaturite dalle prassi mutualistiche militanti possono costituire un’indicazione su come modificare la governance dei servizi pubblici, anche nell’ottica della costruzione di un movimento più globale, dando risposte al senso di vuoto sperimentato da chi opera nel pubblico e nel terzo settore e in questo porre le basi della costruzione di una nuova epistemologia – che si rapporti diffusamente con il sociale?

L’interlocuzione con queste realtà dovrebbe cioè sviluppare una riflessione comune sulla teorizzazione della militanza e sull’epistemologia della salute. Queste azioni mutualistiche riescono a promuovere pratiche di salute dal basso in cui si realizzino forme di partecipazione comunitaria non tecnicizzate? (vale a dire che superino la distinzione di potere tra chi attraversa questi spazi come tecnichə e chi come utente?). Una conseguenza di questa interrogazione sarebbe quella di avere elementi in più su come questi processi riescano ad essere in relazione non meccanicamente con mobilitazioni e vertenze, se cioè possano esitare nella creazione di un corpo sociale in cui la salute come processo relazionale si affermi anche come rivendicazione del controllo popolare sul servizio pubblico esistente.

Un campo in cui applicare queste domande è quello delle reti territoriali di prossimità, oggi al centro dell’interrogazione più blandamente riformista, affinché nella domanda politica si possa coinvolgere e convogliare quel terzo settore e quell’associazionismo che a tutt’oggi sono imbricati in pratiche di partecipazione manipolate dalla governance. Sarebbe molto limitante farsi scavalcare dall’elaborazione innovativa di questi contesti che, attraverso i temi della “coproduzione”, della “salute mentale in tutte le politiche”, della lettura dei bisogni condivisi nella “coproduzione” tra il terzo settore e i servizi pubblici, danno interpretazioni da sinistra dell’innovazione. Sarebbe politicamente insostenibile restare in ritardo rispetto a queste elaborazioni, e questo si verifica se gli ambulatori popolari e i progetti mutualistici si limitano a fornire prestazioni sanitarie e psicologiche individuali.

Il supporto psicologico e il rischio di riproduzione delle epistemologie dominanti

L’esempio dell’ascolto psicologico, fornito da molti di questi sportelli mutualistici, costituisce una cartina di tornasole delle attuali stridenti difficoltà. Si può accontentarsi di collocare la pratica militante nell’orizzonte della psicologizzazione individuale dei bisogni? E, nel caso si voglia superarla andando in direzione di una epistemologia modellata sulle esperienze di psicologia di base integrata con le cure primarie, quindi contemporaneamente rispondendo e riformulando collettivamente e storicamente il mero “bisogno di sostegno psicologico”, con quali interlocutori e con quale visione strategica questo è possibile? In qualche modo, occupando una zona interstiziale, gli sportelli popolari di salute potrebbero avere le risorse pratiche e cognitive per superare l’epistemologia dei servizi istituzionali ma solo se si pongono nell’ottica di contribuire alla autorganizzazione e alla redistribuzione dei saperi in vista di una azione più ampia sui territori e sulle comunità, e su come esse sono tematizzate dai servizi pubblici esistenti, all’interno di essi, in un sistema di allenze con chi promuove le elaborazioni riformiste nei suoi dintorni. Si tratterebbe di stare dentro le discussioni sulle case di comunità e sull’assistenza territoriale, con le elaborazioni nate dalla proprie pratiche politiche, ma non con una logica meramente acquisitoria (cioè puntando all’obiettivo che il proprio sportello popolare venga finanziato per andare a costruire un ulteriore segmentino in un complesso di servizi sanitari “neutrali” e “pluralistici”, in cui per esempio sono convenzionati e finanziati contemporaneamente e a pari merito centri sociali che lottano contro le disuguaglianze e associazioni provita che insultano le donne fuori dai consultori).

C’è poi da tematizzare seriamente il cambiamento del ruolo dell’utenza, in una fase in cui la logica prestazionale è stata incorporata dalle popolazioni e ha finito per sovradeterminare il tipo di richiesta di salute. In questo la specificità degli ambulatori popolari può situarsi nella capacità di leggere politicamente il nesso tra salute e forme di oppressione sistemica – che tra l’altro costituirebbe l’unica forma di soggettivazione non meccanica, se fatta in un’ottica di reciprocità – in modo che si realizzi quella capacità di vedere «la malattia come assenza di partecipazione», come scriveva Maccacaro.

Laddove sui tavoli AUSL queste realtà mutualistiche incontrano altri soggetti che fanno più o meno le stesse cose (cioè si concentrano su target di utenza simili: gruppi sociali marginalizzati e non altrimenti presi in carico) ma collocandosi nel terzo settore, c’è da chiedersi se la loro lotta può risolversi in una richiesta di riconoscimento economico (cioè sedersi al tavolo della istituzionalizzazione spartitoria del terzo settore) oppure se, sulla base di queste potenzialità, si possa sviluppare un dibattito che infetti il sistema con l’interstizialità delle proprie pratiche e crei nuove alleanze anche con il terzo settore più istituzionalizzato.

Per concludere: domande aperte

In definitiva riteniamo che da queste esperienze, in salute mentale come in salute generale, possano emergere stimoli e indicazioni positive per una più complessiva riconcettualizzazione di come lavorare per la creazione di un movimento unitario e incisivo. Le sintetizziamo brevemente. Gli ambulatori popolari sono consapevoli del fatto che nella fase di crisi pandemica e postpandemica si è verificata una progressiva modificazione del target che trovava interessanti le loro offerte: se prima ci si limitava alla marginalità estrema, spesso costituita da popolazione migrante senza diritti, negli ultimi anni il bisogno di prestazioni sanitarie o psicologiche “popolari” ha interessato anche fasce di popolazione più socio-economicamente integrate. Lungi dal partire da questa esperienza per decretare la fine del servizio pubblico e avviare la linea degli ambulatori popolari in ogni quartiere – irrealizzabile oltre che ambiguo come programma – tale circostanza può portare a svolgere un lavoro serio di conricerca su quali processi stanno alla base dell’allargarsi del cono d’ombra del servizio pubblico.

Oltre all’indagine su quali sono i profili delle persone che non trovano assistenza nel servizio sanitario nazionale e su come il sistema frammentario dei Lea e Leps produca sacche strutturali di esclusione, l’analisi va posta anche su alcune dimensioni (la desoggettivazione, la reificazione, l’asimmetria di potere, il sessismo, ecc.) che informano i modelli clinici dominanti e la cui condivisione critica può favorire la nascita di forme circolari e diffuse di conflittualità. Una conflittualità che, saldandosi anche con le elaborazioni emancipatorie sulla salute di prossimità possibili nell’ambito del terzo settore e con la messa in crisi dello sguardo medico-clinico che viene dai movimenti delle persone queer, disabilitate e neurodivergenti, sia in grado di incidere complessivamente sul sistema sanitario pubblico.

Forme di coproduzione di salute, riattivazione del legame comunitario, costruzione di comunità coese al di là di singoli luoghi identitari, capacità di tematizzare e mettere al centro dell’azione l’arretratezza della formazione medica e dell’organizzazione sanitaria e sociosanitaria, possono essere i portati più emancipatori di questo gruppo di esperienze. In questo superamento delle asimmetrie e dei ruoli, in questa diversa tematizzazione del fare comunità, può svilupparsi anche un discorso sui modelli di militanza. Uscire da forme di leninismo abborracciato che vorrebbe risolvere le esperienze delle varie aggregazioni popolari nell’ottenere una convenzione per finanziare la militanza con il welfare in dismissione è il primo rischio da scongiurare; ampliare gli spazi di azione e di interlocuzione sarebbe l’orizzonte generale verso cui tendere.

Una riformulazione dei modelli di militanza dovrebbe poi proporsi altri due obiettivi: smettere di pensare che la militanza costituisca corpi separati all’interno della società, permettere l’emersione di forme di mobilitazione sociale non identitarie e generalizzabili; iniziare a tematizzare e rendere visibile l’infinito lavoro di cura che sta dietro a organizzazioni che – anche quando vivono di un rigido formalismo esplicito – tendono a occultarlo. Il lavoro di cura quotidiano su cui si fonda la sopravvivenza delle strutture politiche che fanno mutualismo viene occultato e riformulato allucinatoriamente come questione di identità e di egemonia: questo sarebbe il punto da superare definitivamente.

Immagine di copertina da Wikimedia Commons di Aleksandr Glukhov. Composition 2018. 2016