EUROPA

La difficile (ma non impossibile) volata di Corbyn

Tre anni e mezzo dopo il referendum sulla Brexit e con nove anni di austerity targata Tories alle spalle, il Regno Unito si reca alle urne in una giornata di importanza storica: l’esito delle elezioni determinerà il futuro del paese per le prossime generazioni e avrà un impatto rilevante anche sul processo di (dis)integrazione europea

Il dado è tratto. In una giornata sferzata dal freddo e dal vento, il Regno Unito si appresta a compiere una scelta che ormai tutti i media non esitano a definire epocale. Il risultato delle elezioni sarà infatti decisivo per l’infinita e annosa questione della Brexit: Boris Johnson, leader dei Conservatori, promette l’approvazione rapida del suo accordo (da lui stesso congelato in Parlamento per poterlo utilizzare come arma principale nella sua campagna elettorale) e un’uscita dall’Unione Europea entro il 31 gennaio; il programma di Jeremy Corbyn, candidato del Labour, prevede invece una rinegoziazione dell’accordo con l’Unione Europea (a salvaguardia dell’ambiente, degli standard agro-alimentari e dei diritti sul lavoro) e l’indizione di un secondo referendum in cui scegliere fra il neo accordo negoziato dal Labour e Remain. Basterebbe già questo tema della Brexit a conferire alla giornata odierna un carattere storico.

Tuttavia, la posta in palio è in realtà molto più elevata e va ben oltre la relazione futura con l’Unione Europea. Il Regno Unito post-crisi finanziaria del 2008, dopo ben nove anni di austerità imposta dai Tories (i primi 5 anni in coalizione con i Liberal Democratici) è un paese in forte emergenza sociale. Le cifre parlano chiaro e restituiscono un quadro drammatico, forse poco conosciuto al di là della Manica: oltre 14 milioni di poveri di cui 4 milioni e mezzo di bambini ; 320.000 persone senza casa (135.000 bambini), di cui 5.000 censiti a dormire regolarmente in strada (numeri probabilmente molto sottostimati); 726 persone senza fissa dimora ritrovate prive di vita nel solo 2018 in Inghilterra e Galles; food banks che somministrano 3 milioni di pasti gratuiti ogni anno a cui si rivolge il 2% delle famiglie britanniche; migliaia di persone con disabilità decedute in attesa del pagamento dei sussidi i quali sono stati tagliati di 34 miliardi sterline dal 2010 ad oggi;  5.500 pazienti deceduti in attesa di un letto negli ultimi tre anni; ingente indebitamento giovanile per effetto delle tasse universitarie alle stelle (9.000 sterline all’anno); servizi pubblici e trasporti di qualità sempre più scadente a prezzi esorbitanti (provate a prendere un biglietto ferroviario last-minute per Londra da Edinburgo: oltre 250 sterline, solo andata… La lista potrebbe, purtroppo, continuare all’infinito descrivendo le condizioni di estrema indigenza in cui versa una fetta molto consistente della popolazione britannica taglieggiata da nove anni di politiche economiche dei Tories imposte con la solita retorica del necessario rigore dei conti pubblici (trascurando puntualmente di ricordare i 500 miliardi di sterline spesi nel triennio 2008 – 2011 per salvare gli istituti di credito dal collasso finanziario).

Il Regno Unito è quindi posto di fronte a un bivio: continuare con un governo Tory, ormai in mano al sovranista, machista e razzista Boris Johnson, verso una società sempre più diseguale e segregata socialmente; o invertire la rotta di 180 gradi e cominciare a smantellare pezzo per pezzo il thatcherismo, palese e non, che governa il paese dal 1979. Questo è l’obiettivo che si pone il Manifesto del Labour It’s Time for Real Change, For the Many not the Few. Un programma elettorale che chi scrive non esita a definire radicale se non rivoluzionario, dato il contesto storico attuale. Le politiche laburiste prevedono infatti la ri-nazionalizzazione dei servizi pubblici (acqua, poste, rete nazionale di fibra ottica, gas, elettricità) e dei trasporti con controllo popolare da parte degli utenti, università gratuite per tutte/i, assistenza sanitaria gratuita per gli anziani, blocco dell’aumento dell’eta’ pensionabile, aumento assegni familiari per ogni figlio e del salario minimo da 8,21 £ a 10 £, cancellazione dei contratti a zero ore (zero-hours contracts), investimenti ingenti nel servizio sanitario nazionale (NHS) e revoca dell’esternalizzazione di importanti servizi ospedalieri, revisione drastica del programma di sussidi (benefits) con l’abolizione immediata delle sanzioni, costruzione di 100.000 case popolari all’anno. Corbyn e McDonnell (cancelliere ombra e vera mente dietro l’elaborazione del programma economico) intendono inoltre mettere in pratica una transizione ecologica del sistema produttivo finanziato con ingenti tasse ai produttori di combustibili fossili (si parla di 10 miliardi di sterline) e trasferire parte del controllo (intorno al 5% delle azioni) delle grandi aziende sopra i 250 dipendenti ai lavoratori con l’obbligo di rappresentare questi ultimi all’interno dei consigli di amministrazione. Il tutto finanziato da un aumento delle tasse al 5% più ricco dei cittadini (sopra 80.000 £ lorde all’anno), come esposto in modo dettagliato nel grey book (previsione di bilancio) allegato al Manifesto. In poche parole, un esperimento di socialismo nel cuore dell’Europa.

La domanda a questo punto è: ce la farà il Labour? Nonostante i sondaggi, la campagna mediatica profondamente avversa di tutte le testate giornalistiche (“Guardian” compreso, basti vedere la copertura faziosa del presunto scandalo di antisemitismo all’interno del Labour) e, soprattutto, l’eredità del voto sulla Brexit, che mette in pericolo i seggi nelle circoscrizioni che hanno votato in massa per il Leave nel 2016, Corbyn può ancora farcela. Esclusa una maggioranza assoluta (realisticamente impossibile), il Labour potrebbe forse riuscire a formare un governo di minoranza o di coalizione con i LibDem (che in cambio chiedono la sua testa, con il placet anche delle istituzione europee), gli scozzesi (SNP) e i gallesi (Plaid Cymru). Le code odierne ai seggi e l’iscrizione di milioni di persone ai registri elettorali (in maggioranza giovani) sembrano indicare una tendenza in questa direzione. In attesa dei risultati di questa sera, una cosa è certa: un governo a guida Corbyn potrebbe aprire uno spazio di possibilità in Europa per un’opzione politica ormai praticamente scomparsa (elettoralmente parlando) dal vecchio continente.