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La dialettica del Pop

In “Dialectic of Pop” (Urbanomic, 2019), una delle più sistematiche riflessioni sull’argomento, Agnès Gayraud analizza, sulla scia di Adorno, tutti i paradossi del pop: la sua autenticità inautentica, la produzione massificata di emozioni e identificazioni, la sua ripetizione di novità, la sua costruzione precisa di seduttività sonore. E invita a considerarlo nel suo senso più ampio che include tutti i generi di popular music come una forma d’arte moderna mediata dalla tecnologia sulla scia del cinema e della fotografia

VIDEO KILLED THE RADIO STAR

 

They took the credit for your second symphony
Rewritten by machine on new technology
And now I understand the problems you can see
The Buggles

 

Sono nato nel 1986 e fino a qualche anno fa la mia generazione era ben lontana dal sentirsi definire come “Generazione X”, linearmente piazzata fra  baby boomer millenial. In qualche modo i millenial eravamo noi, il futuro era nostro, toccava a noi entrare trionfalmente nel nuovo millennio, il 2000 attendeva fra le sue iperstizioni futuriste, le distopie illuminate e annientamenti capaci di risignificare misticamente la tecnologia[1].

Avevamo comunque una bella definizione calzante anche all’epoca, più legata alla tecnica e alla comunicazione che ad una teleologia umana, noi eravamo (e siamo stati per parecchio tempo) la MTV Generation: la profezia dei The Buggles era compiuta video killed the radio star e passavamo ore davanti la televisione per poter ascoltare musica, pronti con il dito su REC per registrare il video e riascoltare (e riguardare) quel che ci piaceva; segnando materialmente l’unione fra suoni e immagini e tracciando ulteriormente l’avanzata sul piano estetico della primarietà della visione.

Personalmente non ringrazierò mai abbastanza questa fase; nato e cresciuto in un ambiente tutt’altro che musicofilo, fino ad allora le mie orecchie erano state raggiunte soltanto da quello che si ascoltava in casa e la mia autodeterminazione sonora sembrava possibile solo nella scelta fra classici italiani come De André e Mina e un’indefinita disco di fine anni ’90. Ma arrivava il nostro tempo, e il 2001 portò, insieme alla scomparsa di un altro mondo possibile[2], l’apparizione di suoni e generi fino ad allora a me sconosciuti e irraggiungibili: vedevamo e sentivamo la musica rap, finalmente sdoganata dal rapper bianco, e la nascita di quella macrocategoria che avremmo poi chiamato nu-metal, spesso sovrapponibile a un altrettanto generico crossover. I generi si mischiavano e le nostre orecchie si abituavano a essere un contenitore per sonorità schizofreniche: tre-quattro minuti di Britney Spears seguiti dalle strane visioni di Aerials dei SOAD, i veloci ritmi di Eminem alla ricerca di se stesso alternarsi alla dolce melodia strascicata dalla voce di Dido.

E se finalmente avevamo un genere per ciascuno di noi, sapevamo, consciamente o meno, chi (o cosa) riusciva a generare: la fonte di tutto questo benessere sonoro era una e una soltanto e serviva un nome per il nostro insieme, lo spirito del tempo finalmente si dispiegava davanti a noi con tutte le sue possibilità e ci rendeva un popolo. Nonostante le resistenze elitistiche di alcune nicchie, saremmo stati infine costretti ad ammettere che tutto ciò che da lì passava, tutto ciò che ci entrava nelle orecchie, poteva e doveva essere ascritto all’universale del pop. Un popolo, mille generi: il compimento della Fenomenologia dello Spirito si raggiunse attraverso la musica e la sua risignificazione nell’immagine.

 

 

 

SUL CONCETTO DI POP

 

You can stand under my umbrella
You can stand under my umbrella, ella, ella, eh, eh, eh
Under my umbrella, ella, ella, eh, eh, eh
Under my umbrella, ella, ella, eh, eh, eh
Under my umbrella, ella, ella, eh, eh, eh, eh, eh-eh
AA. VV.

 

Sembra partire da queste premesse, non troppo esplicitate, il lavoro di Agnes Gayraud (Dialectic of Pop, Urbanomic, 2019): un libro di musicologia, in riferimento costante a Theodor Adorno.

L’enorme mole di lavoro della filosofa francese, dichiaratamente dialettico, trova costantemente la propria antitesi nelle parole e negli scritti di Adorno, reo, a quanto pare, di una critica elitaria, eurocentrica, bianca del fenomeno musicale.
Con dei colpi di penna ben assestati Gayraud cancella e dimentica la posizione da cui Adorno parla, rendendolo un oggetto parlante, uno (o più) libri da cui estrapolare citazioni e concetti, rendendo così la propria ricerca una dialettica con i morti piuttosto che un movimento reale nel suo divenire perenne. La Dialettica del Pop è così svolta in maniera non-musicale, presentandosi così ancora nella sua forma cristallizzata di negazione di un nemico inesistente.

Da questa impalcatura si genera così un testo denso di riferimenti musicali, ma ben lontano dall’essere una ricerca, punta già fin dall’inizio al riassorbimento di tutto ciò che è ascoltabile ai nostri tempi dentro il calderone indifferenziato del POP: già dai primi capitoli capiamo che se un brano è ontologicamente ripetibile identico a se stesso sarà allora per l’autrice un brano pop.

Le contraddizioni sonore, storiche, politiche che incontriamo durante tutta l’epica della narrazione del pop vengono silenziate dalla voglia sconfinata di poterci trovare tutti sulla stessa onda, dalla necessità di infinito che una siffatta descrizione del fenomeno pop soddisfa, non lasciando sfuggire più nulla.

 

 

 

L’IMMEDIATEZZA DEL POP

 

In linea di principio l’opera d’arte è stata sempre riproducibile
W.Benjamin, L’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica

 

L’imperialismo del pop viene così esplicitato, più che dalle svariate descrizioni e definizioni presenti all’interno del volume, dal metodo con cui il discorso sul pop viene portato avanti: una dialettica che scorda se stessa e che lascia scorrere le argomentazioni inserendole nella teleologia dichiarata – una falsa dialettica che non si pone insieme alle contraddizioni incontrate nel proprio svolgersi ma che punta diretta al proprio fine. Un für uns hegeliano a cui non importa più né dell’ in-sé né del per-sé.

È così che troviamo la chiave con cui viene affrontato questa indagine musicologica: l’immediatezza del pop. Gayraud, nella necessità di seguire e tracciare la propria dialettica sofisticata, utilizza parti del pensiero di Benjamin quasi scagliandolo contro la (non)posizione di Adorno: nel famoso saggio L’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica la riflessione verte proprio sulla perdita di immediatezza di qualunque opera e sul modo di fruibilità di un’opera da parte del pubblico; Gayraud utilizza piuttosto questa posizione come un “dato di fatto”, prendendo per buono che, se la mediazione tecnica e tecnologica è ormai inserita sia nell’atto produttivo che in quello della fruizione (i due lati della dialettica dell’arte), il problema sparisce, avendo trovato la propria realizzazione nella negazione di un altro modo di produzione. L’immediatezza vien fuori come l’impossibilità di immaginarla diversamente.

E così anche l’individualizzazione dell’artista pop, il suo riconoscimento e la sua posizione all’interno del panorama musicale, diventa nel discorso della filosofa francese una necessità ontologica, di cui però ci si scorda nel momento (dialettico) in cui si analizza come questa individualità vien fuori: è la stessa autrice a ricordarci come nella composizione di qualunque brano pop intervengano diversi soggetti e sono gli stessi credit ad attestare questa molteplice genitorialità dei brani da classifica[3].

Eppure la datità di questo individuo molteplice (un nome per molti autori) non trova lo spazio di cui avrebbe bisogno, è un momento da togliere nella dialettica puntata alla verità e all’assoluzione del pop. Un popolo di individui che si ritrovano a ricordare tutti la stessa cosa e la linea proposta di sostituire ai concetti di autenticità e originalità con la memoria spinge verso una sclerotizzazione dell’individuo piuttosto che al suo disfacimento.

 

 

 

ON JAZZ

 

[…] perfino la possibilità della musica è divenuta incerta.
A minacciarla non è il fatto che essa sia decadente, individualistica o
asociale, come le rinfaccia la reazione: ma che lo sia troppo poco
T.Adorno, Filosofia della musica moderna

 

Si rimprovera continuamente e da più parti ad Adorno di non aver compreso il jazz, reo di non aver speso belle parole sul genere che andava affermandosi; ed effettivamente, se ci limitiamo ad analizzare i suoi scritti con un vocabolario in mano, possiamo tranquillamente dire che il filosofo tedesco non abbia afferrato la portata di quel che il jazz stava facendo alla musica.

Sembra comunemente accettato che Adorno, in un inseguimento ideologico, non sia riuscito a cogliere l’ondata liberatoria con cui il jazz ha investito il concetto stesso di musica: lo si immagina intento nei suoi Corsi Estivi di Darmstad ad ascoltare la musica colta e bianca a consumarsi il fegato osservando le orecchie del mondo puntate verso gli U.S.A. e le nuove culture. Ma quale limite vogliamo segnare alle sue parole?

Un discorso, filosofico o meno che sia, cerca sempre di tracciare da sé i limiti dei propri significati, articolandosi su enunciazioni che per il parlante appaiono sempre più necessarie, fornendo un po’ di possibile, rifiutando lo schiacciamento sul senso comune, su una lingua pop che di popolare ha solo la definizione, avendo ontologicamente un fondamento proprio sulla rimozione delle individualità che la parlano.

E se Adorno ha effettivamente scagliato infamanti accuse contro il jazz, basta seguirlo senza fine per scoprire che ciò che arriva a rimproverare all’entusiasmo libero che circondava l’ascolto è proprio la sensazione imposta di libertà: non avere più suoni per cantare la nostra libertà e il voler riportare i soggetti suonanti, soggetti emersi proprio dalle nebbie di comunità silenziose (o meglio, silenziate), a un necessario quanto vago riconoscimento individuale, che ne permetteva finalmente l’ingresso nelle classifiche, e l’appropriazione da parte di quella cultura bianca di cui lo si accusa di far parte.

Il discorso sul jazz diventa paradigmatico della continua malinterpretazione della posizione di Adorno: il nemico inesistente acquista un corpo, un pensiero e un nome e si fornisce così la dialettica dei presupposti necessari per svolgersi nell’inesorabilità della propria verità.

 

 

 

IL PARADOSSO DELLA MEMORIA

 

Chiudono le università del paradiso
La marcia dei paraggi, la previdenza dell’anima mia
Le bomboniere dell’angelo del paradiso
La prima volta non aveva le bomboniere il paradiso dell’universo
G.L.F.

 

E dunque, cosa dobbiamo ricordare, cosa ci fa ricordare il pop, ingabbiato dentro limiti che sembrano confini[4], di musiche e musici la cui differenza risuona più nel nome di chi canta che nei suoni ascoltati?
Un presupposto-posto, quello del pop, che ci invita violentemente a ricordare se stesso, a ricordare che c’è sempre stato un gusto pop, anche prima del pop.

La stessa Gayraud, nel tracciare i confini del genere si trova ad ammettere che «we might even say that pop has a finger in every pie», da Bach a Varèse fino a Ravi Shankar il limite del pop sembra spostarsi insieme a ogni suono ascoltabile; rintracciando questa caratteristica del pop di ricordare se stesso non tanto in uno stato di costante amnesia, quanto in una sorta di hypermnesia[5].

Ascoltare pop ci fa ricordare più di quanto effettivamente ricordiamo; l’emergere di un genere come la vaporwave sembra l’esempio più calzante per questa definizione, musica nostalgica, che sembra venire dai fumosi e mal registrati anni ’90, quando ancora non avevamo la tecnica di oggi, ma eravamo già chi siamo – il pop, come nel caso dell’hillybilly paradox descritto da Gayraud, inverte la causalità temporale, inventa passati mai esistiti in funzione del presente inafferrabile, pronto a cambiare alla velocità delle “classifiche” con la stessa schizofrenia di una stazione radio.

Non si intravede però alcuna fine a questo circolo vizioso, il desiderio di pop viene anzi descritto come desiderabile, l’unico desiderio capace di accompagnare la finitudine umana insieme alla propria unicità.

E ci chiediamo, alla fine del libro, perché il desiderio desideri la propria repressione?

L’hypermnesia che sembra liberarci anche e finalmente dalle catene di un passato troppo complesso da percepire non riesce, di fatto, a portar con sé anche l’unicità dell’ascoltatore e, legando il desiderio umano così strettamente a questo concetto di pop, si silenziano ancora una volta i soggetti muti: chi ascolta avrà il passato di chi è ascoltato.

Questo processo, per chi ascolta, non suona più così liberante e desiderabile, quanto piuttosto come un sigillo sulla propria memoria, un complesso gioco di rimandi sonori, simbolici, al passato di chi suona. La musica pop non suona troppo individualistica, come le rimprovera la reazione, ma troppo poco, accettando e riconoscendo nella propria costituzione solo chi è capace di suonare, oggettivando un pubblico ne il pubblico con cui si confronterà l’eventuale brano.

I soggetti pubblici sono così condannati più che ad un gioioso e creativo stato di hypermnesia a una ripetizione automatica di suoni e ritornelli che ne dettano l’esistenza nel mondo presente, in uno stato che assomiglia più a quello di chi soffre del morbo di Alzheimer[6].

 

 

 

UNO SOLO O MOLTI PUBBLICI?

 

Essere passato Essere ora E essere futuro
Cielo azzurro Del sole E molte verde
Noi esistere sulla terra
Passare naturale il giorni

Tomorrow

 

Ciò che si rimprovera così al libro di Gayraud, e a chiunque provi ad affrontare un discorso sul pop, è proprio il fatto di dimenticarsi di cosa si sta parlando, affrontando il discorso dalle proprie conclusioni piuttosto che dai punti di partenza, passando per constatazioni che, lette senza pregiudizievoli fini, possono risultare quasi ridicole: come arrivare ad affermare che «the entire world is moved by the activism of folk musician Joan Baez». La ristrettezza e la voglia imperialistica del discorso sul pop sembrano esprimersi perfettamente in una frase del genere, l’intero mondo del pop è il mondo centrato sull’Occidente, sulle classifiche, su quanto questo Occidente permetta un discorso e una musica “alternativa” ma comunque sempre ben territorializzata al suo interno. E da questo intero mondo son tagliate via intere aree di globo, numeri sconfinati di persone che hanno tutto il diritto di non aver idea di chi sia Joan Baez, del suo effetto sull’intero mondo occidentale, continuando comunque a suonare, cantare, lottare[7].

 

 

 

QUANTI POP(OLI) ESISTONO?

 

L’immenso lavoro svolto nella dialettica del pop viene infatti inficiato dall’impossibilità di uscirne fuori, posizionando così il testo e l’autrice nell’eterna verità che solo una dialettica hegeliana, troppo hegeliana riesce a possedere. Bisognerebbe piuttosto interrogarci sulla posizione che abbiamo assunto una volta arrivati alla conclusione imperialistica: se l’unico pop(olo) che riusciamo a sentire è il nostro, quello delle radio e delle classifiche, quello sempre identico a se stesso, rendendo pensabile anche la sparizione dell’esibizione dal vivo, l’unica possibilità di farsi sentire rientra ancora in quella del riconoscimento; quando il pop riconoscerà che un rumore è divenuto suono, allora sarà ascoltabile.

Un problema primariamente estetico dunque e, come tutti i problemi estetici, irriducibile all’unità, quanto piuttosto esploso nella molteplicità dei soggetti percipienti; irriducibile anche alla mera tecnica e tecnologia dei mezzi di produzione estetici senza affiancarli alla percezione di tali mezzi, alle loro espressioni possibili, ai concatenamenti che mettono in atto[8].

E ci troviamo d’accordo con Kulesko quando, nella sua analisi del lavoro di Gayraud, chiude con una riflessione sul ruolo della critica che «si presenta in quanto analisi dei materiali, della storia, delle tecniche, dei mezzi, dei territori, delle cronologie, delle tassonomie, delle biografie, dei regimi di produzione, degli ecosistemi musicali e via dicendo»; è proprio di questo funzionamento della critica che bisogna riappropriarsi, una critica divisiva piuttosto che unificante, capace di dar conto dell’esistenza di diversi pop e popoli e di togliersi dall’impaccio in cui la si ritrova nei tempi contemporanei, ridotta a semplice ancella della Cultura, della cui esistenza e legittimità si affretta sempre a rendere conto, anche a costo di cancellare e non riconoscere tutto ciò che viene silenziato nel suo nome.

 

In copertina Azealia Banks nel video di “212”. Le playlist, dal canale YouTube dell’editore Urbanomic, sono intese come accompagnamento del libro

 

 

[1] Tutti i computer del mondo, all’arrivo del 2000 avrebbero pensato (?) di essere nel 1900, cancellando tutti i nostri progress.

[2] La fine di tutte le politiche utopistiche che ci volevano lanciati nel villaggio globale suonò come uno sparo

[3] Un esempio concreto: basta aprire la pagina wikipedia dell’hit Umbrella, che lanciò Rihanna su tutte le classifiche in scala mondiale, per leggere «originariamente la canzone era stata scritta per Mary J. Blige, ma la cantante rifiutò; successivamente fu offerta a Britney Spears, ma anche lei declinò. Infine, fu assegnata definitivamente a Rihanna. La canzone è stata scritta da The-Dream, Christopher Stewart, Kuk Harrell, Jay-Z, e prodotta da Stewart». Una canzone scritta da un insieme di maschi per una voce femminile.

[4] Il primo paragrafo che si incontra nel libro di Gayraud (nella sua traduzione in inglese) è intitolato proprio Borders.

[5] Parola coniata quasi in opposizione ad amnesia: uno stato quasi ipnotico di super-ricordo.

[6] Non è sconosciuto il fatto che le persone che soffrono di questa malattia tendono a ricordare e ripetere ritornelli, musiche di quando c’erano.

[7] Bisognerebbe anche ricordare che l’intero mondo non parla la stessa lingua, e che per sentire e capire la “lotta” espressa da Baez, Lennon e compagnai cantante, bisognerebbe saper sentire e capire l’inglese.

[8]«il principio di ogni tecnologia è quello di mostrare che un elemento tecnico rimane astratto, assolutamente indeterminato, finché non lo si riconduce al concatenamento che esso presuppone. Ciò che è primo in rapporto all’elemento tecnico è la macchina: non la macchina tecnica che è essa stessa costituita da un insieme di elementi, ma la macchina sociale o collettiva, il concatenamento macchinico che determinerà ciò che dovrà essere elemento tecnico in un certo momento, quali ne saranno l’uso, l’estensione, la comprensione, ecc.». G.Deleuze e F. Guattari ricordano questa “molteplicità” continuamente, e l’uso di concetti come deterritorializzazione risulterebbe un semplice ed evocativo gioco di parole se non calato nella costellazione concettuale che porta con sé.