PRECARIETÀ

L’Italia non è un Paese per giovani? Facciamo sì che lo diventi

Dopo la risposta di Exploit Pisa all’articolo “Cara Roberta, se la ricerca in Italia fa schifo la colpa è anche un po’ tua“, la replica di Francesco Cancellato**

«Hai toccato un nervo scoperto». Così mi è stato detto, dopo che l’articolo dal titolo “Cara Roberta, se la ricerca fa schifo in Italia è un po’ colpa tua” è stato massacrato sui social network. E forse è vero, in fondo. Perché da qualunque parte la si guardi – quella di chi sta, quella di chi va – la questione dei ricercatori universitari è un nervo scoperto. Sia che abbiano soldi e successo altrove. Sia che non li abbiano qui.

E forse, quando si tocca un nervo scoperto, bisogna stare attenti a come lo si fa. Non con l’accetta di un titolo aggressivo e, certo, poco garbato per chi ne è il destinatario. E nemmeno rischiando di sbeffeggiare chi ha ingoiato calici amari e chi li sta ancora ingoiando. Precauzione che io non ho avuto, e mal me n’è incolto. Ben mi sta e me ne scuso.

Però. Però la questione, al di là del galateo, esiste ed è sul tappeto. Perché è evidente che un moto di orgoglio collettivo per una giovane ricercatrice expat di successo che risponde a tono a un ministro può, sui social network, assurgere a rappresentazione teatrale, simbolica di una rivalsa collettiva contro la politica, i baroni, l’establishment. Ma nella realtà dei fatti non lo è, nemmeno un po’.

E non lo è perché il successo di Roberta D’Alessandro è suo, e solo suo. Perché la sua denuncia ex post non le ridarà un bel nulla di quel che ha perso in passato, né tantomeno cambierà il destino di chi sta subendo le medesime ingiustizie, qui e ora. Non lo è perché non fa altro che attestare l’unica via di fuga possibile, allo stato attuale, contro lo status quo: andarsene e riscattarsi individualmente. E poi, eventualmente, prendersi qualche rivincita. Perché il sistema, in Italia, non si può cambiare.

Eccoci al punto. Il sistema non si può cambiare? Se devo basarmi sulle opinioni che ho raccolto in questi giorni, la risposta è no. È no per persone di valore che di università sanno più e meglio di quanto sappia io, come Michele Boldrin ed Emanuele Ferragina, secondo cui i ricercatori – banalizzo – non sono dei rivoluzionari e come tali non vanno trattati. È no anche per i molti ricercatori che mi hanno scritto, criticandomi pesantemente, il più delle volte, sui social network o via posta elettronica e che mi imputano soprattutto il fatto di non poter sapere quel che loro hanno passato, o stanno passando. Parlano dell’università, certo. Ma parlandone, parlano dell’Italia. Un Paese che così com’è non gli piace e nel quale si sentono privi di voce e spazio politico. Perché non gliene danno, dicono. I politici per primi. E i media, poi.

Potrebbero prenderselo, però, quello spazio e quella voce. Altrove, del resto, se lo sono preso ed era gente uguale a loro. I nostri ricercatori sono un corpo professionale, sociale, demografico che, nei fatti, non è altro che la copia carbone del nucleo originario di un movimento come Podemos. Un movimento nato pochi anni fa nelle aule delle università madrilene e che ha preso più di un quinto dei voti alle ultime elezioni iberiche. Là, quel corpo sociale è partito dagli atenei, è passato dalla piazza degli indignados, a Puerta del Sol, si è preso la Spagna e, insieme al suo omologo di centro destra Ciudadanos, promette di cambiare radicalmente – non solo di ringiovanire – la classe dirigente del Paese.

Da noi, probabilmente, manca la consapevolezza che invece ha animato sin dall’inizio l’azione di Pablo Iglesias e dei suoi. Più precisamente, quel tipo di consapevolezza che fa dire che se non provo a cambiare le cose sono parte del sistema vigente, sia che di quel sistema io interpreti la parte della vittima impotente, o quella di chi ce l’ha fatta altrove. O quella del giornalista col ditino alzato. O quella di chi gli risponde indignato per leso vittimismo. O quella di chi di fronte a tutto questo, chiude il browser, annoiato da tanta inconsistenza.

Quindi sì, se la ricerca fa schifo, e con lei pure l’Italia, la colpa è anche un po’ nostra, e mi ci metto anche io, insieme a Roberta, a Silvia (su Linkiesta), a voi e a chiunque mi abbia scritto e criticato, in questi giorni. Meno, ovviamente, è colpa di chi ci ha provato, non riuscendo tuttavia a ottenere quel che voleva. Di mio, come giornale, posso metterci uno spazio mediatico in più, per dar voce alle proteste e alle proposte di chi ci sta provando, ad avere spazio e voce. Cosa che abbiamo fatto, in passato, e che di sicuro faremo ancora di più. Ma voi – perdonate l’ardire di un consiglio – fatelo ancora di più. Perché ce n’è bisogno. Perché se non si è parte della soluzione, si può essere solo parte del problema. Vale per noi, così come vale per voi. Tertium non datur.

* direttore de Linkiesta

** Questo articolo e quello scritto da Exploit Pisa sono stati pubblicati in contemporanea su DINAMOpress e su Linkiesta.