MONDO

Kabul, la bomba e il teatro dell’assurdo

Hjalmar Jorge Joffre-Eichhorn è un theater maker tedesco-boliviano che usa diversi tipi di teatro partecipativo e politico, come il Teatro dell’Oppresso e il Playback theatre per lavorare con comunità in conflitto e creare le possibilità per un dialogo e una ricerca di soluzioni “dal basso”. Hjalmar lavora in Afghanistan dal 2007 ed è uno dei co-fondatori della Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (AHRDO). In questo momento si trova in Afghanistan e sta coordinando un laboratorio di teatro sui traumi di guerra e l’elaborazione collettiva del lutto; era a Kabul durante l’attentato esplosivo del 15 agosto, a seguito del quale ha scritto questo testo. Nel frattempo, a Kabul si sono verificati altri due attentati esplosivi con vittime civili; nell’ultimo di questi, il 6 di settembre, è rimasto ucciso anche Samim Faramarz, reporter e collaboratore del progetto, uno degli “amici afghani” citati in questo testo.

Tra le infinite possibilità di immaginare un art-attivista quella che, al momento, occupa principalmente la mia immaginazione è quella dell’artista come “becchino”, l’artista come escavatore umano.

L’immagine emerge come risultato di un’altra bomba suicida nella capitale dell’Afghanistan, Kabul, il 15 agosto, che questa volta centra come obiettivo un centro educativo del posto, in cui decine di giovani studenti si stavano diligentemente preparando per un imminente esame di ingresso all’università. Boom. In un singolo atto umano di barbarie, dozzine di giovani pieni di aspirazioni e talento, il futuro di ogni Paese, sono stati fatti a pezzi e, con loro, sono stati spazzati via centinaia di loro sogni, desideri e vocazioni.

Esattamente nello stesso momento in cui avveniva l’attacco, solo a pochi minuti di macchina da lì, diversi membri della Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (AHRDO; www.ahrdo.org) – una organizzazione civile locale e piattaforma di teatro – stavano per concludere le prove di un nuovo spettacolo contro la guerra, intitolato provvisoriamente “20 modi di morire in Afghanistan e 1 canzone d’amore”, che prende ispirazione dal famoso libro di poesie d’amore di Pablo Neruda. Per assurdo, avevamo passato una buona parte del pomeriggio provando un scena in cui un attentatore suicida si sta preparando al paradiso. Nonostante il tema macabro, l’umore per tutta la giornata era stato di immensa creatività, sperimentazione e composizione artistiche, con l’obiettivo di creare una pièce che funzionasse come un onesto tentativo di ritrarre in che tipo di crudele follia sono costrette a vivere le persone in Afghanistan, giorno dopo giorno.

Abbiamo finito le prove di buon umore, pronti a passare la serata con amici e famiglie, provando a godersi la vita nel bel mezzo di un contesto altrimenti ogni giorno più intollerabile, tormentato da 40 anni di guerra e di crudeltà umana.

A quel punto il telefono di qualcuno è squillato. Boom. Ci hanno detto che una esplosione suicida era appena avvenuta, proprio vicino a dove vivono la maggior parte dei performers, delle loro famiglie e molti dei nostri amici. La stanza è diventata silenziosa in maniera soffocante. Si incominciavano a sentire le prime ambulanze. L’odore nel nostro spazio delle prove improvvisamente ha preso l’odore di carne umana bruciata. La linea di divisione tra gioia e angoscia non ha senso in un luogo di guerra. Teatro dell’assurdo.

Quello che è successo nelle 24 ore successive è la versione afghana di ciò che Audre Lorde chiamava «la trasformazione del silenzio in linguaggio e azione». Insieme agli altri colleghi e compagni, gli stessi che fino a pochi momenti prima stavano provando la collaborazione e la solidarietà sul palco, adesso stanno esibendo le stesse qualità come parte di una risposta totalizzante, collettiva e urgente per aiutare le vittime e le loro famiglie. Non c’è tempo da perdere. Un comitato organizzatore viene messo in piedi. Persone che arrivano da tutti i differenti cammini della vita. L’energia è frenetica. Telefonate. Tweets. Email. Alcuni sussulti di rabbia e disperazione nel mezzo. Che fare con i corpi (non reclamati)? La maggior parte di loro non possono nemmeno essere identificati, dal momento che le loro famiglie spesso vivono molto lontano, da qualche parte nell’Afghanistan rurale, molto probabilmente ignari che ciò che rimane degli unici detentori del destino di famiglia in questo momento sta essendo preparato ad essere sepolti da empatici, ma anonimi morda shoye (coloro che lavano i cadaveri). La questione è urgente. I corpi hanno bisogno di essere sepolti presto per ragioni religiose, ma anche perchè, altrimenti, potrebbero essere prelevati dalle autorità del governo – al fine di assicurarsi, ancora una volta, che venga coperta la loro complicità in questo circolo della violenza, apparentemente senza fine.

Più telefonate. Più tweet. Più email. (Niente più singhiozzi, ogni respiro è necessario a fare giustizia per le vittime). Alla fine, la decisione è presa. Il giorno dopo verrà organizzata una sepoltura di massa. Il terreno della sepoltura è una collina non troppo lontana dal sobborgo in cui è avvenuto l’attentato. Fino a poche ore prima, la collina serviva come luogo molto popolare per fare i picnic: ma chi se la sente più di mangiare quando i suoi fratelli e sorelle sono appena stati spazzati via? Teatro dell’assurdo.

In breve, la collina sarà occupata e nessuno fermerà i miei amici nel fare quello che è necessario fare. “Siamo feriti e pericolosi, e non ci fermerete”, così ripete la battuta di uno dei personaggi del nostro nuovo spettacolo. Nonostante tutto, la sicurezza sarà di nuovo un problema: in passato, troppe volte quelli che sono andati a piangere le morti dei loro cari sono diventati a loro volta vittime di una esplosione suicida.

Da qui, sono portate avanti altre discussioni con il commando locale della polizia per garantire la sicurezza durante il seppellimento. Hanno promesso di aiutare, ma poi non si sono fatti vedere.

Chi si è fatto vedere, invece, sono centinaia di persone; tra di loro, i miei amici-attori, attrezzati con pale, picconi e altro materiale per scavare (come un unico escavatore), determinati a deporre i resti di chi «ha incontrato la propria fine prematuramente, la cui morte non è una giusta conclusione di una vita ma la sua violenta interruzione» (Quentin Meillassoux). L’atmosfera è soffocante. È uno dei giorni più caldi dell’anno ma nessuno si preoccupa del calore: è la cultura della morte e dell’impunità che regna in Afghanistan da così tanto tempo (con il generoso supporto di gran parte della cosiddetta comunità internazionale – shame on you) a far ribollire il sangue di queste persone. Questo e il fatto che improvvisamente un gran numero di poliziotti armati (non collegati con il commando della polizia citato prima) appaiono sulla scena e provano violentemente a disperdere la folla, ferendo due persone durante l’operazione. Non c’è bisogno di dirlo, la loro missione fallisce: lo scavo comincia. Pale e picconi ovunque. I corpi dei martiri vengono trasportati. Lacrime di dolore. Lacrime di rabbia. Lacrime ribelli. Lacrime rivoluzionarie. Noi non dimenticheremo. Troppo è troppo.

Pochi momenti dopo, di ritorno in ufficio. Gli escavatori umani sono sparsi da tutte la parti. Alcuni sono stesi sul pavimento. Altri sono crollati sulle sedie. Un altro è buttato sul divano, si fa misurare la pressione; qualcuno riesce ancora a continuare a inviare tweet e messaggi telefonici. Occhi svuotati e silenzio esausto ovunque. I singhiozzi tornano. Beckett avrebbe perso la testa, in Afghanistan. Viene servito il tè. Provo timidamente a chiedere come è stato lassù sulla collina, per loro. Le risposte provocano il dolore di un morso di serpente:

«Ciò che mi sono continuato a chiedere, mentre stavo scavando la tomba dei nostri amici martiri, è: chi sarà a scavare la mia tomba se un giorno, probabilmente presto, sarò ucciso in qualche stupido attentato?»

«La cosa peggiore della situazione attuale in Afghanistan è che morire violentemente è diventata la norma e tutto quello che puoi fare è chiederti costantemente quando sarà, alla fine, il tuo turno di essere ucciso. Io spero che, quando succederà, almeno morirò subito. Non voglio morire con una morte lenta e solitaria».

E, infine: «Per quanti anni ancora potremo chiedere alla gente dell’Afghanistan, giorno dopo giorno, di rialzarsi dalle ceneri dei cadaveri dei propri sogni mutilati? Quante altre volte ancora la Fenice potrà risorgere, prima che muoia, alla fine, di sfinimento e disperazione?»

Boom. Eccoci. La domanda definitiva sulla vita umana, resultato di decenni di guerra, sconfitta, disumanizzazione e speranze continuamente tradite. Boom. Boom. Boom. Non ho dubbi, Beckett avrebbe certamente perso la testa nell’Afghanistan di oggi. Oppure, in fondo, forse no. Perché – ed è tutto quello che posso dire i miei amici art-attivisti e escavatori umani non sono assolutamente disposti a gettare la loro – insanguinata – spugna, per il momento. Al contrario, parafrasando James Baldwin, li ho visti scossi molte volte e ho vissuto per vederli spezzati, ma non li ho mai visti arrendersi. Le loro ali possono essere stanche ma la loro fenice interiore sta, ancora, risorgendo, ogni giorno.

Restare in vita è (anche) una questione politica.

PS. la prima del nostro nuovo spettacolo andrà in scena come era stato previsto. I performer hanno deciso che questo fosse il momento perfetto per portare avanti l’atto di accusa contro coloro che preferiscono uccidere perchè non hanno abbastanza coraggio per vivere.

PS2. Naturalmente i miei amici art-attivisti, escavatori umani hanno nomi. In ogni caso, preferiscono rimanere anonimi dal momento che non voglio rivendicare crediti individuali per ciò che è stato uno sforzo collettivo sovraumano.

Nei momenti difficili come quello che stiamo affrontando ora in Afghanistan, è bene sapere che ci sono persone ed entità là fuori su cui poter contare e fare affidamento per avere supporto, cura e solidarietà. La mia cara amica e collega Jessica e gli altri membri di H.E.A.T. Collective1 fanno esattamente parte di questa categoria di persone. Tashakor. Manana. Grazie.

1 Il collettivo H.E.A.T. è stato fondato dalla direttrice artistica Jessica Litwak per creare, promuovere e inspirare espressioni artistiche concentrate sulla guarigione, l’istruzione, l’attivismo e il teatro.