MONDO

Interventi solidali internazionali: dalla depoliticizzazione alla conflittualità possibile

Riceviamo e pubblichiamo un approfondito contributo al dibattito aperto dall’articolo “Turismo umanitario o attivismo transnazionale“, apparso su DINAMOpress il 19 aprile.

Turismo umanitario o attivismo transnazionale”, è questo il titolo dell’importante contributo di Francesco Ferri e Lucia Gennari pubblicato qualche settimana fa sulle pagine on-line di DINAMOpress. L’articolo, indirizzando la sua analisi a partire dagli sviluppi solidali intorno alle recenti vicende migratorie europee, vuole aprire uno spazio di riflessione collettiva sulle attività in zone di confine, alla ricerca di tracce metodologiche che permettano di interrogarci sulla reale utilità dei viaggi solidali, al fine di comprendere quanto questo tipo di attivismo sia capace di trasformare i conflitti sociali contemporanei. Come Servizio Civile Internazionale portiamo avanti questa riflessione da più di trent’anni, per questa ragione accogliamo con entusiasmo la volontà di renderla collettiva e, aggiungiamo noi, (auto)critica.

Genealogia della depoliticizzazione

La violenta offensiva operata dalle politiche neoliberiste ai diritti sociali, culturali, civili ed ambientali può portare ad esiti paragonabili alla violenta offensiva operata da un esercito: distruzione delle infrastrutture di base, disfacimento del tessuto sociale, devastazione ambientale, perdita di vite. La violenza può quindi produrre effetti nella sua forma diretta ma anche in quella economica e culturale, dando vita a conflitti sociali, ambientali ed armati su scala locale ed internazionale.

Per queste ragioni si tende a vivere il conflitto come qualcosa di negativo e dal quale ci si vuole allontanare, una tensione ad oggi presente in tutto quel mondo più o meno visibile dove volontariato internazionale e attivismo politico si incontrano, in modo particolare quando legato all’associazionismo. A questo proposito, si può affermare che una parte dell’associazionismo di base (quello che negli anni ‘70 era definito “conflittuale”), legato ai valori del pacifismo e della nonviolenza attiva, abbia perso negli anni una parte della sua capacità di protagonismo nella realtà contemporanea, spostandosi su un astratto livello di analisi metodologiche o risultando complementare alle politiche istituzionali. Si è così allonanato progressivamente da un approccio “militante”, ovvero senza porre in discussione le basi stesse di un sistema violento ma limitandosi ad azioni di advocacy non organiche e quasi mai conflittuali con le istituzioni. Nonostante non sia questa la sede per approfondire un argomento complesso e mai realmente affrontato dagli attori coinvolti, nei giorni antecedenti il G8 di Genova l’approccio militante aveva permesso al mondo dell’associazionismo di base di essere inclusivo, di dialogare con chiunque ed essere presente con le proprie idee e con i propri corpi nei conflitti che attraversavano quegli anni, innescando processi di trasformazione sociale volti a svelare cause e conseguenze dei conflitti: i giorni del G8 furono paragonabili non tanto a un colpo di spugna quanto a un incendio, capace di bruciare quanto creato fino a quel momento e non permettendo una nuova stagione di semina.

Il mese di luglio 2001 può essere quindi individuato come momento originario della depoliticizzazione dell’associazionismo di base, attraversato da un dibattito tanto acceso quanto limitato su violenza e nonviolenza, provocando polarizzazioni mai sanate e allontanandolo de facto “dalla strada”.

Lavoro e volontariato: gli anni della sovrapposizione

A questo processo di de-politicizzazione ha contribuito una progressiva sovrapposizione tra mondo del lavoro e mondo del volontariato.

La mancanza di opportunità di lavoro e di crescita professionale hanno alimentato nel tempo l’induzione al lavoro gratuito, allo sfruttamento consensuale delle competenze e delle abilità. Il lavoro non retribuito, mosso dalla convenienza economica, è divenuto agli occhi dell’opinione pubblica – e del diritto – stage, tirocinio formativo ed infine volontariato. Una confusione tra lavoro e volontariato in cui le rispettive definizioni, i confini concettuali e quelli normativi volutamente si sfiorano fino a sovrapporsi. È questa confusione nella percezione pubblica delle cose che sminuisce il ruolo sociale del volontariato e il valore del lavoro. In un contesto sociale in cui le persone sono sempre più consumatori e sempre meno cittadini, anche il volontariato è divenuto un prodotto e i volontari sempre più coinvolti in maniera utilitaristica per le più svariate attività. La precarizzazione che ha investito tutte le dimensioni della nostra vita non ha risparmiato le forme attraverso cui si manifesta l’impegno civile. Sempre più frequente è il caso di persone che vivono il volontariato come un momento estemporaneo, un’esperienza di solidarietà circoscritta nel tempo e nello spazio.

Allargare la prospettiva: il confine come conflitto, il conflitto come opportunità

Si può però uscire da questa impasse, attraverso un percorso che porti a riconsiderare il conflitto non come un immutabile momento negativo, ma come un momento di cambiamento dal quale non bisogna sottrarsi, perchè rende visibili le cause reali dei conflitti e favorisce la denuncia di tutte quelle dinamiche violente alle quali si vogliono contrapporre alternative. La critica e l’attività di “costruzione” sono due aspetti che dovrebbero essere connaturati nell’associazionismo di base, permettendogli di essere presente nel conflitto. Costruire nei conflitti è il motore del cambiamento sociale, poiché significa lavorare sulle cause che lo hanno generato: in poche parole, trasformare il conflitto.

Il conflitto si trasforma grazie al contributo di azioni e processi a lungo termine che cercano di cambiare le sue caratteristiche e manifestazioni agendo sulle cause strutturali, comportamentali e culturali. Per trasformare i conflitti è fondamentale costruire relazioni orizzontali ad ogni livello, superando quindi gerarchie e dinamiche di potere, favorendo l’inclusione e l’ascolto fra persone, organizzazioni e movimenti, promuovendo inoltre socialità e senso di comunità.

Le recenti vicende migratorie mostrano quindi come il confine sia la manifestazione di un conflitto, di difficile definizione perché legato a dinamiche locali e internazionali, spesso non direttamente correlate ma sempre esercitate sui corpi delle persone-oggetto. Le azioni portate avanti dall’associazionismo di base in relazione alle questioni migratorie non possono quindi prescindere da una visione della cittadinanza che vada al di là delle frontiere, riconoscendo ad ogni persona il diritto di ricercare per sé, il nucleo familiare e la propria comunità le condizioni per il soddisfacimento dei propri progetti di vita. Una ricerca che ha determinato e continua a determinare per milioni di persone l’esigenza di muoversi, di trovare la propria strada in altri luoghi diversi da quello di nascita. Tutto questo supportato da un quadro giuridico che riconosca libertà di movimento e un rinnovato contesto politico internazionale in grado di affrontare le cause alla base dei fenomeni migratori.

In questo senso, il contributo “Turismo umanitario o attivismo transnazionale” è uno stimolo per andare oltre le vicende legate alla presenza solidale in zone di confine, legandola a ogni geografia o a ogni istanza in cui si manifesti un conflitto.

Spartiacque: formazione e decentramento

Nell’articolo si citano tre spartiacque per meglio comprendere le differenze tra i vari tipi di interventi solidali: politicizzazione, continuità temporale, inchiesta giuridica e politica.

Questi tre elementi sono necessari per distinguere azioni solidali volte alla trasformazione sociale da altre di tipo assistenziale – per lo più mosse da spirito pietista – e, quindi, di normalizzazione del conflitto.

Anche la nostra associazione si è trovata negli ultimi tempi ad affrontare questi aspetti, proprio in relazione alle vicende migratorie che attraversano l’area balcanica. Di recente, affiancandoci ai nostri partner serbi, abbiamo promosso un progetto di “Interventi civili di pace al confine serbo-ungherese”, per il supporto delle persone migranti in transito nei Balcani, la cui libertà di movimento è ostacolata dalle politiche europee di chiusura dei confini, a cui si aggiungono le quotidiane violazioni dei diritti umani portate avanti dalla polizia di frontiera e da gruppi più o meno apertamente neofascisti. Questo tipo di intervento rientra all’interno dell’ambito puramente umanitario e, se vogliamo, assistenziale. Il suo carattere politico risiede tuttavia in una volontà manifesta tanto semplice quanto necessaria: quella di agevolare il viaggio delle persone e garantirne la libertà di movimento. Come già avvenuto in Italia e Francia, la solidarietà diretta alle persone migranti rientra ormai in quella zona grigia tra legalità e illegalità, con una progressiva tendenza verso la seconda e, di conseguenza, la possibilità di incorrere in misure penali. Di questo ne siamo consapevoli, rispondendo con la proposta di un approccio di “legittimità” e di quotidiano lavoro di inchiesta, sempre attraverso lo strumento del volontariato, che permetta di svelare le cause del viaggio forzato.

Agli spartiacque già presentati vorremmo poi aggiungerne altri due: formazione e decentramento.

Da sempre consideriamo i momenti di formazione propedeutici a prendere parte a qualsiasi attività di azione solidale, indipendentemente dal fatto che la persona abbia già avuto esperienze affini. Gli incontri di formazione che la nostra associazione porta avanti sono legati a qualsiasi aspetto del nostro operato: il coordinamento dei campi di volontariato internazionale, la partecipazione ai campi di volontariato internazionale, la presenza civile in aree di conflitto armato a bassa intensità (Palestina, Kurdistan, Libano e, appunto, Balcani). L’obiettivo degli incontri di formazione è quello di favorire una presenza che sia consapevole delle dinamiche in loco e rispettosa del contesto ospitante, al fine di produrre dinamiche solidali e di cooperazione virtuose lontane dall’assistenzialismo e dalla normalizzazione, con l’obiettivo ultimo di svelare le cause alla radice dei conflitti. L’elemento pivotale di questi momenti è l’utilizzo di un approccio legato all’educazione non-formale, che si realizza per lo più attraverso sessioni di gioco: teatro dell’oppresso, role-plays, schieramenti. Anche le sessioni più orientate alla discussione collettiva sono portate avanti attraverso brainstorming (facilitato e, spesso, silenzioso) o prevedono l’utilizzo di elementi audiovisivi e, soprattutto, dell’elemento esperienziale, importante per trasmettere un approccio empatico e diretto dell’intervento in loco. L’educazione non-formale permette quindi di discutere del politico ed è esso stesso un approccio politico, perché permette di scardinare le dinamiche frontali e verticali di trasmissione del sapere, favorendo la partecipazione di tutte e tutti nonché lo scambio di saperi, rendendo la conoscenza un bene comune in divenire. Quando affermiamo la necessità di questi momenti formativi anche per persone che hanno già avuto esperienze affini, lo facciamo a partire dalla nostra esperienza trasversale nel mondo del volontariato internazionale e dell’attivismo politico. In relazione al secondo, il ragionamento è declinato in una (auto)critica che deriva dalla prossimità con chi è mosso/a da spirito militante. Le dinamiche dell’attivismo politico sono spesso solo all’apparenza orizzontali ed inclusive, a partire dai più classici momenti assembleari: può dirsi inclusiva e orizzontale una discussione in cui sono sempre le stesse persone a discutere? Può dirsi costruttiva una discussione che, nonostante l’aspetto formale del superamento della frontalità, è spesso poco più che un collage di opinioni che non si ascoltano? Pensiamo di no, per queste ragioni nei momenti di formazione esploriamo l’ambito della comunicazione non-violenta e dell’ascolto attivo, elementi volti a scardinare le dinamiche di cui sopra.

A ciò si lega un aspetto ancora troppo diffuso nell’attivismo politico, che sia internazionale o prossimo geograficamente: quello della proiezione di sé sulle altre e sugli altri. Idealizzare e proiettare le nostre aspettative, motivazioni e idee politiche sul soggetto geografico, sociale e personale del nostro operare – che deve essere sicuramente militante come noi, potenzialmente con un alto livello di istruzione, sempre pronto a lanciarsi nel conflitto – sono il primo passo per oggettizzarlo e forzare processi di crescita sicuramente non mutualistica, né orizzontale. È questa proiezione che sta alla base di tanti “flussi” di attivismo internazionalista, a volte mossi da una narrazione autoreferenziale o precipitosa di vertenze “emergenziali”, mancanti quindi di un approccio (auto)critico. Chiapas, Palestina, Kurdistan, Grecia, Balcani e Ucraina sono state tra le cornici più attraversate dall’attivismo internazionalista negli ultimi anni, poiché spesso unite da parole chiave comuni di richiamo (antifascismo, processi di giustizia sociale, critica dello stato-nazione). Nonostante queste cornici portino evidenti segnali di resistenze e/o processi di costruzioni di società nuove, le letture proposte sono a volte approssimative perché caratterizzate da meccanismi di proiezione, creando de facto vertenze di prima e seconda fascia, queste ultime accompagnate da altre parole chiave meno appealing dal punto di vista militante: Sri Lanka, Sahara Occidentale, Tibet, Azerbaigian, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria ecc.. Un approccio acritico verso le prime che, nel peggiore dei casi, si è trasformato in proto-turismo. La Palestina è sicuramente una delle geografie più colpite da questa presenza solidale poco ragionata e molto egocentrica, in modo particolare dopo la Seconda Intifada con il cosiddetto “turismo dell’occupazione”. Da una parte, è quindi da valorizzare la capacità di leggere le dinamiche internazionali, dall’altra c’è il rischio di operare attraverso le lenti della solidarietà “condizionata”, pratica distante dall’internazionalismo e dalla trasformazione sociale.

Questo processo di proiezione di sé sul soggetto del nostro operato, nonché la sua oggettificazione, non si lega solamente alla presenza sul campo ma anche in progettualità più strutturate e afferenti all’ambito della cooperazione internazionale. Che processi di autonomia può favorire un progetto coordinato da una geografia terza con personale espatriato? Dove risiede l’approccio mutualistico e di crescita comune? Pensiamo che la cooperazione decentrata sia uno strumento più in linea con il fine di costuire società giuste attraverso processi realmente collettivi e inclusivi, per questa ragione non possiamo esimerci dall’affiancare e non scavalcare i nostri partner, proporre e non imporre, vedere e ascoltare prima di parlare. I nostri partner locali, le nostre compagne e compagni, sono coloro che meglio di chiunque altro conoscono la realtà geografica, sociale e culturale in cui si realizza l’azione solidale, sono loro a conoscere i propri bisogni personali e, di conseguenza, legarli a problemi più ampi quindi ai conflitti che vivono. Di conseguenza sono i primi soggetti a poter proporre soluzioni e quindi azioni efficaci di trasformazione del conflitto e di costruzione di società nuove.

Queste valutazioni sono sempre messe in discussione nel nostro operato da uno scenario internazionale mai così fluido e stratificato, in cui i processi sociali e politici non possono più essere letti attraverso le lenti di venti o trent’anni fa. Come abbiamo avuto modo di evidenziare, sono anche messe in discussione da un’evoluzione dell’approccio alla solidarietà, sempre più orientato al soddisfacimento individuale (in tutte le sue sfumature) e non collettivo. Nonostante le sfide siano sempre più ardue, queste sono al contempo stimolanti, poiché necessitano un lavoro costante su noi stessi, sulle nostre contraddizioni e sulle modalità per portare avanti il nostro operato, sempre mosso (e sempre dovrà esserlo) dalla volontà di incidere sulla realtà circostante insieme a chiunque si riconosca nella costruzione di relazioni orizzontali ad ogni livello, nel superamento di gerarchie e dinamiche di potere, favorendo l’inclusione e l’ascolto reciproco. Nella speranza che questo dibattito possa continuare con altri contributi perché necessario e per crescere, chiudiamo affermando che questi ragionamenti portano a una costante rimodulazione delle forme, tali da poter intercettare la più ampia fetta di motivazioni che spingono ad intraprendere azioni solidali, senza però cedere nei contenuti al fine di un processo di crescita graduale e mutualistico.

* Servizio Civile Internazionale

Foto tratta dalla pagina fb dello Sci