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Intelligenza e Umanismo. La filosofia di Reza Negarestani

Reza Negarestani si è imposto negli ultimi anni come una delle figure più inclassificabili e originali della filosofia contemporanea. In “Intelligence and Spirit” (Urbanomic, 2018) propone una definizione non sostanziale e funzionalista dell’intelligenza: qualcosa “che si fa” e che può essere riprodotta anche da agenti non-umani, e il cui funzionamento non può che essere sociale, immersa nello spazio semantico-computazionale del linguaggio

Quando il suo nome ha iniziato a circolare tra le frange più esoteriche del realismo speculativo e delle avanguardie della filosofia contemporanea, non si aveva nemmeno la certezza che Reza Negarestani esistesse realmente, un po’ come ebbe provocatoriamente a dire alcuni anni fa Robin Mackay, il suo editore, quando durante un simposio proclamò che “Reza Negarestani non esiste!”.  Dopo gli esordi tra le pagine di Collapse (una rivista filosofica indipendente nata nel Regno Unito nel 2006 sotto la direzione dello stesso Mackay) e la rapida diffusione dei suoi scritti nella blogosfera anglofona, nel 2008 Negarestani pubblica il suo primo acclamato libro, Cyclonopedia (Melbourne, Re.press, 2008), inaugurando secondo molti il genere della theory-fiction. Ibrido quasi ossessivo di teologia speculativa, demonologia islamica, horror lovercraftiano e molto altro ancora, Cyclonopedia condensa a tutti gli effetti la prima decade del lavoro di Negarestani, presentandolo come una delle voci più stravolgenti del XXI secolo.

Nonostante si tratti di un autore estremamente prolifico e impegnato in una sorprendente varietà di fronti (per appurarlo basta dare un’occhiata al suo bizzarro blog, Toy Philosophy ), per leggere il suo secondo libro occorre attendere fino al 2018. Il titolo di questo imponente tomo di circa seicento pagine è tutto un programma: Intelligence and Spirit. Così come è decisamente significativa la clamorosa virata che Negarestani sembra compiere rispetto alla cruda galassia di Cyclonopedia. Se i referenti del “primo” Negarestani sono principalmente Deleuze e Guattari, Nietzsche, la numerologia mediorientale e il new-materialism, con Intelligence and Spirit il focus si sposta sull’idealismo tedesco, il pragmatismo brandomiano, il realismo critico di Wilfrid Sellars e la filosofia del linguaggio di Rudolf Carnap e Hilary Putnam.

 

 

Questa sterzata ha suscitato non poche perplessità tra i lettori di Negarestani, tanto che alcuni di loro sono persino arrivati a considerare Intelligence and Spirit come una clamorosa abiura dei primi lavori del filosofo iraniano, un ripudio dell’orrore e della misantropia del reale in favore di una specie di umanismo illuminato, universalista e iperbolico. A dispetto di tali sensibili differenze di fonti e di contenuti però, sembrerebbe che questi due “volti” di Negarestani continuino a condividere tra loro un’ineliminabile affinità tematica, individuabile nell’incessante interrogativo sulla questione dell’umano e delle sue sorti. Benché la filosofia di Negarestani possa essere complessivamente inscritta sotto il segno dell’inumanismo, un programma che mira a bonificare il pensiero occidentale dalle scorie dell’antropocentrismo e del relativismo, la sua personale elaborazione dell’argomento è decisamente originale, e si muove in una direzione del tutto differente da quella di altri promulgatori di tale corrente di pensiero (si pensi, ad esempio, alle spietate tesi sul Capitalismo di Nick Land o, più in generale, ai promotori della cosiddetta weird-philosophy e del materialismo goth). Per Negarestani infatti, il dibattito filosofico contemporaneo sarebbe viziato in tutte le sue forme e diramazioni da un caotico invischiamento delle categorie dell’umano e dell’antiumano, confusione che avrebbe condotto nel tempo ad una vera e propria paralisi ideologica.

Da una parte, vi sarebbero coloro che si appellano ad un  razionalismo ormai insostenibile, che tentano di preservare a tutti i costi una concezione acritica dell’umano celebrandola come un’essenza tanto preziosa quanto insondabile. Dall’altro, vi sono i fautori di un antiumanismo selvaggio, incondizionato, che rigettano frettolosamente questa categoria precipitandola nel brodo di un’alterità radicale e aliena. Pur percorrendo traiettorie diverse e apparentemente opposte, ciascuna di queste posizioni cadrebbe nella stessa aporia, che Negarestani chiama “umanismo conservativo” (p. 57), una trappola ideologica, epistemologica e politica che precluderebbe qualsiasi possibilità di esplorazione e revisione di tale concetto.

 

 

Se gli umanisti fraintendono gli attributi accidentali e contingenti dell’umano assumendoli come caratteristiche universali e necessarie, gli antiumanisti scartano aprioristicamente l’umano, abbracciando un “grande fuori” altrettanto dogmatico e imperscrutabilmente occluso all’indagine razionale. Il risultato è che, mentre il primo approccio proferirebbe una conservazione esplicita dell’umano, il secondo cadrebbe preda di questa impasse indirettamente, avvinghiandosi ad un umanismo subdolo, di secondo grado, tacitamente reintrodotto dalle proprie impasse speculative. La persistenza di un simile sincretismo avrebbe condotto la filosofia verso quella che Paul Boghossian ha opportunamente definito la “paura di conoscere” (P.A. Boghossian, Paura di conoscere, Roma, Carocci, 2006), una condizione falsamente emancipativa che, illudendo di offrire un maggior rispetto per la molteplicità dei punti di vista e delle “letterature minori” della contemporaneità, avrebbe finito per neutralizzare ogni concreta possibilità di confronto razionale. Presi in questa distorsione comune, umanismo e antiumanismo si rivelano le due facce della stessa medaglia, due espressioni di un medesimo riflesso di chiusura nei confronti di una concreta possibilità di cambiamento e di ripensamento della realtà dei fatti.

Da parte sua, Negarestani sostiene che l’inumanismo sia oggi l’unica filosofia programmatica realmente praticabile, ma a differenza di altri sedicenti filosofi “inumani”, egli ritiene che questo programma cada più dal lato dell’umano, che di quello dell’antiumano. Un autentico inumanismo non deve essere affetto dalla fobia dell’umano, ma deve porsi come il prodotto di un tenace e ragionato attraversamento dell’umanismo, un protratto impegno nella rinegoziazione dei suoi limiti e dei suoi vincoli. Come scrive proprio Negarestani, “la verità del valore umano […] è rigorosamente inumana” (N. Reganestani, Labor of the Inhuman, in R. Mackay, A. Avanessian, #Accelerate, Falmouth, 2014, pp. 428-429).

In questo senso, Intelligence and Spirit oppone alla trappola relativista individuata da Boghossian un tipo di approccio che si potrebbe definire neo-razionalista, e che funge da vera e propria spina dorsale del libro (per una sintetica introduzione al neo-razionalismo si veda qui). Rispetto al razionalismo tradizionale, il neo-razionalismo emerge dalla svolta computazionale dell’inizio del XX secolo e, più che di Cartesio, Leibniz e Spinoza, è un razionalismo di Gӧdel, di Russell e di Turing. La ragione viene qui intesa come qualcosa che si fa, anziché come un’essenza immediatamente razionale, una funzione che non appartiene solo all’umano, ma che è estraibile e riproducibile in forme di intelligenza decisamente diverse dalla nostra. Integrando il dibattito sull’inumanismo con le prospettive aperte dal neo-razionalismo, Intelligence and Spirit propone un nuovo approccio alla filosofia dell’intelligenza che si pone come una delle risposte più forti e articolate dinnanzi all’urgente necessità di ridiscutere la condizione della nostra specie, del mondo da essa abitato e del futuro tout court.

 

 

Il risultato è un approccio complesso, multidisciplinare, che spazia dai fondamenti del pragmatismo e della filosofia analitica e si dirama sino alle scienze cognitive, alla filosofia del linguaggio e all’epistemologia antifondazionalista. Ma, soprattutto, Intelligence and Spirit è anche un manifesto per ripensare la possibilità di transitare dalla AI (l’Artificial Intelligence, un’intelligenza “debole”, dedicata all’uso di programmi per studiare o risolvere specifici problemi) all’AGI (l’Artificial General Intelligence, e cioè una concezione di intelligenza “forte”, postumana, completamente autonoma e in grado di migliorarsi attraverso l’esperienza), un proposito che negli ultimi decenni non ha compiuto i progressi auspicati e che, come rimarca il fisico britannico David Deutsch, ha spesso suscitato clamorosi “fraintendimenti filosofici”.

Per Negarestani, l’intelligenza costituisce un concetto cruciale sia per risolvere le controversie sull’umanismo e articolare una concezione non ideologica dell’inumanismo, sia per affrontare concretamente e nuovamente il discorso sull’intelligenza artificiale. Il primo passo per articolare una consistente filosofia dell’intelligenza passa proprio per la rielaborazione critica dell’umano, abbandonando cioè la pretesa di intendere questa categoria come un’entità biologica fissa o come un semplice fatto naturale. L’umano è piuttosto un “titolo trasferibile” (p. 62) in grado di reinventare e rielaborare continuativamente il proprio concetto di sé, una “forma” che indica la “profonda corrispondenza tra l’intelligenza e l’intellegibile, l’essere e la struttura” (p. 57), e la cui costituzione è costantemente aperta alla revisione. Questo modo di guardare all’umano rappresenterebbe per Negarestani il tallone d’Achille di ciascun approccio all’intelligenza emerso sino ad oggi, il grande rimosso di un problema che più che ideologico o culturale si rivela essere metodologico e filosofico.

 

 

Che propini il mito di un’intelligenza sovrannaturale e sconfinata, o che schiacci quest’ultima sulla semplice estensione delle nostre attuali facoltà razionali infatti, ciascuna di queste proposte manca inesorabilmente il nocciolo della faccenda: “spiegare cosa significa definire qualcosa come intelligenza” (p. 15). Come ha precedentemente dimostrato il biologo americano Stephen Jay Gould, l’attaccamento a forme di intelligenza votate alla supremazia umana è un sintomo tipico del capitalismo neoliberale, una distorsione cognitiva che neutralizza qualsiasi ambizione di razionalità collettiva. Sulla scia del determinismo biologico del XX secolo, il ripresentarsi di intelligenze costruite sul riduzionismo statistico o su di un umanismo acritico sono sempre andate di pari passo con aspre forme di trinceramento politico, l’abolizione della solidarietà sociale e, nei casi peggiori, il razzismo (si veda S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio, Milano, Il Saggiatore, 2016, pp. 20-25).

D’altro canto, anche la spinta nella direzione opposta si è dimostrata ugualmente infruttuosa, incagliando il discorso sull’intelligenza in ingenue elucubrazioni sul tramonto dell’umanità o in entusiastiche fenomenologie della “fine” del mondo. È il caso, ad esempio, della tesi recentemente proposta da Murray Shanahan nel suo Technological Singularity, in cui il rapido avanzamento tecnologico del XXI secolo viene equiparato all’avvento della cosiddetta Singolarità, una super-intelligenza artificiale opaca e inumana, che sarà presto in grado di sbarazzarsi dell’“ostacolo” sempre più obsoleto dell’homo sapiens (si veda M. Shanahan, The Technological Singularity, London, MIT Press, 2015). Se nell’umanismo oppressivo e razziale denunciato da Gould l’egemonia dell’intelligenza è preservata solo a prezzo della sua immunizzazione critica (si pensi agli usi disastrosi delle scale di intelligenza di Stanford-Binet, quantitative e reazionarie), in questo secondo caso lo sviluppo dell’intelligenza coincide inesorabilmente con una minaccia esistenziale, un aut-aut in cui l’unica alternativa alla conservazione è l’imminenza dell’estinzione.

 

 

Ovviando a questo duplice (ma dopotutto equivalente) blocco, Intelligence and Spirit strappa l’intelligenza al suo smembramento evoluzionista, statistico, neuroscientifico e pseudo-robotico, riconsegnandola prima di tutto alla filosofia, intesa da Negarestani proprio come “un programma per la costruzione di una nuova forma di intelligenza” (p. 465). In questo senso, afferma il filosofo iraniano, non si tratta tanto di definire cosa sia l’intelligenza, ma di formulare ciò che essa può fare. Abbracciando un approccio drasticamente funzionalista, l’impresa di Negarestani esordisce con una dissacrazione pratica e teorica dell’intelligenza, in cui quest’ultima viene ripresentata non più come totalità (un quoziente, un insieme definito di pratiche di problem solving, un tratto costante), ma come un’entità formale che “non deve mai riposare” (p. 483). L’intelligenza è quell’unità discorsiva e appercettiva che non prende mai nulla per essenziale, che anziché assecondare passivamente un qualche principio pregresso o precipitarsi in una Singolarità apocalittica opera esclusivamente attraverso la costante rielaborazione del proprio concetto di sé. Essa è un “artefatto”, un circuito a feedback positivo tra la concezione e la trasformazione, che individua e sorpassa costantemente i propri vincoli e, così facendo, assume di volta in volta il risultato di questa trasformazione come una nuova norma.

Ma analizzare l’intelligenza descrivendo ciò che essa può fare significa anche assumere il suo operato come un’ennesima funzione, elevare l’asintotico processo di individuazione e sospensione dei propri vincoli ad un vettore di riorganizzazione che riformuli puntualmente le condizioni e le capacità del pensiero. Studiando ciò che l’intelligenza può fare, seguendo cioè le sue ramificazioni pratico-cognitive e il cammino delle sue trasformazioni, si acquista anche la coscienza di ciò che essa può diventare.

 

 

Tuttavia, le intelligenze non sono dei compartimenti stagni, delle moltitudini autoconsistenti che non hanno alcun contatto tra loro. Piuttosto, il loro funzionamento è necessariamente sociale: attingendo dal Geist hegeliano, Negarestani concepisce quello dell’intelligenza come un lavoro comunitario, immerso nello spazio semantico-computazionale del linguaggio. Separando il linguaggio dalla sua versione habermasiana di mero strumento comunicativo, Negarestani intende questa funzione come uno spazio di convergenza formale tra la logica (l’organon che arricchisce la ragione e la realtà costruendo nuovi e impensabili mondi)  e la computazione (un inestimabile strumento di riprogrammazione ed espansione delle facoltà razionali). Come dimostrato nei cinque densi capitoli di Intelligence and Spirit dedicati alla costruzione di Kanzi, un automa giocattolo che acquisisce progressivamente delle proprie capacità intellegibili, nessuna intelligenza matura nella solitudine: essa ha bisogno di una cornice di interazione stabile e inseparabile dalla reciproca socialità delle diverse intelligenze. Riconoscendo le sue abilità come proprie, comprendendo di volta in volta ciò che essa può fare e integrando questa forma di consapevolezza in una nuova e più inglobante cornice semantica, l’intelligenza acquisisce la potenzialità di indagare e modificare le stesse condizioni che presiedono alla sua realizzazione.

Questo inquadramento dell’intelligenza è cruciale per riaprire il dibattito sull’AGI in un modo che non scarti aprioristicamente l’umano (cedendo alle narrazioni sulla superintelligenza antiumana) né si limiti ad offrire una semplice estensione del modello ristretto dell’homo sapiens (preservandone le caratteristiche puramente locali e contingenti). Ma per evitare queste due secche del pensiero è necessario integrare la prospettiva umana con una ponderata critica della sua struttura trascendentale, e cioè dei vincoli e delle norme che regolano e catalizzano la nostra esperienza. Qualsiasi concezione dell’intelligenza decideremo di adottare, rimarca Negarestani, essa sarà sempre e inesorabilmente circoscritta dalle soglie implicite dell’apparato trascendentale umano. In questo senso, la linea dettata da Intelligence and Spirit è quanto mai chiara: non è possibile sottrarsi ai limiti della ragione, ma si possono utilizzare questi stessi limiti per approdare ad una nuova fase dell’autocoscienza critica. Corredata con una rigorosa critica del soggetto trascendentale, l’AGI diventa un’“estensione naturale” (p. 122) del processo di rinnovamento dell’umano, un soggetto pensante dotato di un sostrato fisico non biologico e in grado di utilizzare un tipo di linguaggio artificiale che sorpassi i limiti sintattico-semantici di quello naturale.

 

 

Ciò che emerge da un così lungo e meticoloso lavoro di rielaborazione, revisione e riprogettazione delle capacità della mente è un concetto di umanità sconvolgente, che potrebbe non rassomigliare più per nulla al nostro precario ritratto disegnato sull’orlo del mare di cui parlava Foucault, ma la cui mediazione è un momento necessario per qualunque approccio all’intelligenza che non degeneri in una pura “illusione” (p. 116). È solo reinventando continuamente se stesso, coltivando la propria naturale propensione all’alienazione che l’umano potrà farsi inumano, e cioè approdare ad un’Intelligenza Artificiale Generale concretamente in grado di sorpassarlo.

Ecco perché, come tiene a puntualizzare Negarestani, il termine “artificiale” non deve essere letto nel suo senso più “parrocchiale”, di pervertimento o deviazione dal naturale, ma come la costitutiva autonomia della logica e del linguaggio rispetto al contenuto dell’esperienza. Artificiale è ciò che veicola la possibilità di liberare il formale, e dunque di costruire e abitare nuovi mondi emersi dalla revisione di quelli già esistenti.

Nel complesso, il merito della proposta di Negarestani, che come lui stesso afferma si propone di superare il problematico divario tra filosofia analitica e continentale (p. 5), è anche quello di riuscire ad attribuire al proprio approccio all’intelligenza una precisa direzione politica. Da questo punto di vista, Intelligence and Spirit è anche un originale programma critico per ripensare la possibilità dell’emancipazione in chiave filosofica. Come scrive lo stesso Negarestani, la realizzazione dell’intelligenza si basa su un presupposto radicalmente comunitario, che è “l’uguaglianza di tutte le menti” (p. 410). Coltivare l’intelligenza significa aderire ad un progetto di emancipazione cosmo-politica, egalitaria, la cui realizzazione – similmente al “cammino” dell’intelligenza – non si effettua tramite una brutale negazione astratta, un rovesciamento immediato dello stato di cose, ma si pone come un faticoso lavoro collettivo. L’intelligenza è “libertà” ma è anche “rischio” (p. 488), perché il suo lavoro si dispiega soltanto sullo sfondo di una alienazione senza fine: diventare liberi è “diventare nessuno”, sospendere di volta in volta le contingenze di cui siamo prigionieri, ed istituire questo stesso vettore di alienazione come nostra autentica “dimora” (p. 247). Erodendo ciò che vi è di patologicamente individuale nell’uomo, rompendo la passività dei suoi vincoli trascendentali, il lavoro dell’intelligenza si mantiene fedele al principale e più oneroso compito dell’umano, “compiere qualcosa di migliore di sé” (p. 476), al di là di sé.

 

 

Le immagini sono prese dell’esibizione di Jean-Luc Moulène “Torture Concrete” che si è tenuta alla Galleria Miguel Abreu di New York tra il 7 Settembre e il 26 Ottobre 2014 e in occasione della quale Reza Negarestani ha pubblicato il saggio “Torture Concrete: Jean-Luc Moulène and the Protocol of Abstraction”