ROMA

Integrazione, calcio e libertà: l’Atletico Diritti ti cambia la vita

Calcio e cricket, uomini e donne, migranti e rifugiati, persone libere e persone private della libertà personale: nella polisportiva nata nel 2014 si incrociano tante storie accomunate dalla passione per lo sport

Nella vita, poche cose come lo sport uniscono le persone. Le sensazioni dello spogliatoio, allenamento dopo allenamento e partita dopo partita, non hanno forse eguali. In una squadra di calcio si indossa tutti la stessa maglia e si calcia tutti verso la stessa porta. Insomma, si è tutti uguali. È questa la magia dello sport.

Era il 2014 quando i soci di Progetto Diritti e Antigone diedero vita all’Atletico Diritti, una squadra di calcio che unisce sotto lo stesso cielo migranti, rifugiati, detenuti, studenti universitari e lavoratori. Le due associazioni si interrogavano sul linguaggio universale dei «marginali» ed è qui, grazie anche all’appoggio dell’Università Roma 3, che nasce il disegno di un laboratorio per l’integrazione. Quasi subito si sparge la voce nei centri d’accoglienza, negli ambienti sportivi e financo nelle università. L’idea di un team di calcio come veicolo per integrare aveva rapidamente acceso i motori e richiamato a sé tantissimi ragazzi.

La Polisportiva Atletico Diritti sorge inizialmente come squadra di calcio a 11, ma negli anni si allarga e già 365 giorni dopo, sempre con lo sguardo rivolto all’integrazione e al rispetto dei diritti umani, nasce una formazione di cricket composta da migranti indiani e bengalesi, tutti residenti a Terracina. Sulla scia del cricket, sempre nel piccolo comune in provincia di Latina prende vita anche una squadra di calcio a 8 composta di giovani migranti provenienti da tutto il mondo.

@Giacomo Zito

Il progetto vive di luce propria. L’Atletico Diritti è infatti completamente autofinanziato. Per sopportare le spese destinate ai campionati, ai tesseramenti dei giocatori e al materiale sportivo intervengono anche sponsor e sovvenzioni. Non mancano infine donazioni o piccoli gesti di solidarietà, che attraverso una campagna di crowdfunding tentano di dare una mano al progetto possa continuare per la sua strada. I quattro punti cardinali sono altruismo, fratellanza, inclusione e partecipazione.

Federico Stefanutti è il coach della principale squadra di calcio. L’allenamento si svolge nel Centro sportivo Danilo Vittiglio due volte a settimana, il lunedì e il giovedì, sempre la sera dalle 21:30 alle 23:30. La squadra è composta da 25/26 giocatori. «La maggioranza è rappresentata da studenti universitari e amici, poi ci sono una decina di immigrati ivoriani e capoverdiani ed infine due detenuti», racconta Stefanutti. Entrando in campo mentre i ragazzi fanno riscaldamento, si assiste a un clima di festa e al contempo di grande impegno. I giocatori corrono e fanno gli esercizi sempre con il sorriso stampato in faccia. «L’approccio di ognuno è assolutamente fantastico – continua il coach – Sia agli allenamenti che alle partite vengono tutti con un forte spirito agonistico e di collaborazione. Da quando sono qua non ho mai visto un solo litigio». Secondo Federico, l’obiettivo di chi ha creato il progetto è stato centrato in pieno: «È senza dubbio il miglior modo per integrare le persone e fare capire che siamo tutti uguali».

I ragazzi originari di Capo Verde sono in Italia da più di 10 anni e parlano perfettamente la nuova lingua. Vanno a scuola e lavorano. I ragazzi ivoriani sono invece arrivati da poco e frequentano una scuola d’italiano, anche se parlare e rapportarsi con i compagni di team vale mille volte di più. Felicien, ivoriano di 23 anni, è l’attaccante più forte della squadra: «L’anno scorso sono stato il capocannoniere, ho segnato 30 gol. In questa stagione sono fermo a 8, per ora». All’Atletico Diritti ha trovato amici e un gruppo di persone che lo fanno sentire a casa. L’arrivo, invece, fu disumano: «Sulla nave eravamo in 130. Siamo partiti dalla Libia e dopo 24 ore in mare siamo scesi a Lampedusa. È stato bruttissimo, ma ora mi trovo bene ed ho anche un lavoro. Faccio l’operatore sociale». Come spiega il mister, giocare a calcio all’Atletico Diritti rappresenta una vera e propria cura: «Per migranti e rifugiati è il modo migliore per stare lontani da giri strani e pericolosi. La maggior parte di loro non ha niente e parte totalmente da zero. Devono costruirsi tutto. Qui hanno la possibilità di stringere amicizie, inserirsi in una cultura diversa e imparare anche bene la lingua. Si può dire rappresenti la loro personale rivincita».

@Giacomo Zito

La fetta più grossa della squadra era inizialmente formata da studenti universitari, ma con il passaparola la voce si è sparsa in fretta e ora fanno parte del gruppo anche lavoratori di un po’ tutte le età. Il capitano è Davide D. di quasi 40 anni: «Sono venuto a conoscenza del progetto da un amico e ora sono diventato il capitano». Anche ai suoi occhi nello spogliatoio si vive in totale armonia: «C’è un clima pazzesco. Si suda, si corre, si fanno amicizie e ci si diverte tantissimo. Tra di noi siamo come fratelli. Io vado quasi sempre in macchina a prendere Kiab e Felicien, così andiamo insieme al campo. La grande bellezza dello sport è che mette tutti allo stesso livello. Siamo tutti uguali». Per il capitano questa esperienza ha un significato profondo: «Ascoltare e conoscere le storie dei miei compagni di squadra mi ha dato l’opportunità di osservare il mondo con occhi diversi e capire realtà che per me erano prima sconosciute».

Sempre del cosiddetto gruppo dei “senatori” della squadra fa parte anche Luca T. di 42 anni, di ruolo portiere: «Sono un giornalista freelance. Ho collaborato con il Fatto Quotidiano, Left, Espresso, La Gazzetta dello Sport, ecc. Vengo a giocare qua perché il calcio è la mia passione. Sono 30 anni che gioco tra Promozione, Eccellenza e C2, ma questo ambiente e questo spogliatoio non è paragonabile con tutti gli altri in cui ho vissuto. C’è un affiatamento incredibile. È impossibile per me non venire ad allenarmi durante la settimana e nel week-end a giocare il campionato». I festeggiamenti quando si vince sono il sale dello sport e tra l’altro all’Atletico Diritti capita spesso di battere gli avversari, dato che occupa i piani alti della classifica e la vetta dista soli 5 punti: «Quando si vince, ovviamente festeggiamo in spogliatoio e poi a volte andiamo fuori a cena».

Come detto, fanno parte della squadra anche due detenuti: Francesco P. e Alessio A., rispettivamente di 30 e 47 anni. Alessio è ora un uomo libero, ma si è avvicinato all’Atletico Diritti nel 2018, quando ancora era in regime di semilibertà: «Il progetto che sono riusciti a mettere in piedi funziona alla grande. È una comunità bellissima e si respira un’aria meravigliosa. Per chi è detenuto è un’opportunità immensa – continua Alessio – Si ha la chance di muoversi senza essere intrappolati dentro quattro pareti e dietro a sbarre d’acciaio». Offre poi una chiave di lettura originale, lui che nella squadra ora ci gioca da uomo libero, ma che vi era entrato in semilibertà: «Ricordo che l’anno passato eravamo in tre detenuti, ma io ero l’unico in regime di semilibertà. Gli altri due, finito l’allenamento dovevano rientrare in carcere, mentre io e tutti gli altri andavamo a casa. Questa esperienza fa riflettere tanto». Per chi sta scontando una pena, l’avventura dell’Atletico Diritti è tutto. È una valvola di sfogo enorme, un’occasione di riassaporare la libertà e, da un lato, è anche una piccola riscossa.

Un’altra delle anime della polisportiva è Carolina Antonucci, da due anni allenatrice della squadra femminile di calcio a 5 del carcere di Rebibbia. La sua esperienza alla guida del team ha inizio a settembre 2018, ma purtroppo le sue giocatrici non possono prendere parte alla competizione: «Non abbiamo potuto disputare il campionato a causa del campo in cemento non regolamentare. Per l’intera stagione ci siamo però allenate e partecipato a tornei amichevoli come triangolari o quadrangolari. Nonostante ciò, è comunque servito e le ha sicuramente fatto bene». La formazione è composta da detenute di tutte le età: la maggioranza delle giocatrici si concentrano tra i 20 e i 30 anni, ma del gruppo fanno parte anche donne sui 40 e 50.

Carolina Antonucci a un allenamento

Per quanto riguarda la nazionalità, s’incontrano soprattutto detenute di nazionalità italiana, mentre le altre sono di origini sudamericane, slave e africane. Si tratta di un campionato amatoriale del C.S.I. e le partite si giocano tutte in carcere, racconta Carolina: «Questa volta è andata diversamente rispetto all’anno passato e siamo riusciti a iscrivere la squadra sia al campionato che alla coppa. Le partite si giocano tutte a Rebibbia e a ogni incontro c’è anche un po’ di pubblico a tifare. Ci sono sempre 15/20 detenute che vengono a vedere le gare». Ovviamente il gruppo cambia spesso, dato che alcune detenute finiscono di scontare la propria pena, mentre altre invece fanno ingresso nel carcere.

Lo sport, il gioco di squadra e il movimento sono fattori importantissimi per le donne che si trovano dentro. «Tutte le detenute vivono questi momenti alla grande. Non c’è mai stato un solo un problema da quando le alleno. Per loro è un’opportunità immensa quella di giocare insieme a calcio. Sfruttano le partite e gli allenamenti per divertirsi, sfogarsi, stringere legami ed anche come forma di riscatto sociale. Ricordo – continua Carolina – che al primo allenamento le detenute si sono presentate separate seguendo le due distinte sezioni della struttura, ma dopo di che non è più successo e si sono unite per fare gruppo». Ora che si è a circa metà stagione, la squadra si trova prima in classifica, a pari punti con la Polisportiva Millesimo.

Foto di copertina di Giacomo Zito