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EUROPA

Il potere dello sciopero delle donne polacche

«Quando protestavo in difesa di una magistratura indipendente, ero un corpo che difendeva un’astrazione. Da ottobre non difendo più un’idea, ma il mio stesso corpo». Un racconto in prima persona delle lotte femministe in Polonia

L’8 marzo 2021, giornata internazionale dei diritti della donna, ho disegnato un fulmine sulla mia mascherina con del rossetto rosso, ho messo un thermos nel mio zaino e sono scesa in strada a rivendicare i miei diritti. Quel giorno, invece di ricevere i tradizionali regali per la festa della donna (un garofano patriarcale e un paio di collant), sono rimasta in piedi per sei ore in una rotonda di Varsavia, bloccata da un cordone della polizia mentre la temperatura scendeva sotto lo zero. Eravamo circa 200, tutte manifestanti pacifiche che raccoglievano firme per un’iniziativa dei cittadini per liberalizzare le leggi sull’aborto.

La polizia ci superava di gran lunga in numero; alcune persone hanno detto che ce n’erano almeno 2000. Continuavano a riprenderci con un megafono, dicendo che il nostro raduno era illegale. Li abbiamo messi a tacere con una Macarena. Alcune donne sventolavano copie della Costituzione in faccia agli agenti, mostrando loro la pagina che elenca il diritto alle proteste pacifiche. A volte la polizia trascinava una donna fuori dalla folla senza un motivo apparente, scaraventandola a terra. Io guardavo in faccia gli agenti che mi circondavano e gli gridavo «Vergogna!».

Soltanto sei mesi fa, non mi sarei mai messa di mia volontà di fronte a un cordone della polizia, ma è cambiato molto da allora.

La sentenza è stata emessa giovedì 22 ottobre 2020, nelle prime ore del pomeriggio. Una giuria di 15 giudici del Tribunale costituzionale aveva dichiarato che l’interruzione della gravidanza a causa di gravi e irreversibili malformazioni del feto era contraria alla Costituzione polacca.

Quel giorno mi faceva male tutto il corpo (ho pensato fosse a causa di esercizio fisico).

Mentre mi dirigevo con le mie amiche fuori da Varsavia, verso est, per raggiungere una casa vicino alla foresta, un gruppo di donne si stava radunando davanti all’edificio del Tribunale costituzionale. Da lì hanno marciato per diversi chilometri fino alla casa di Jarosław Kaczyński (presidente del PiS, partito politico di Diritto e Giustizia, e il politico più importante in Polonia), portando uno striscione che diceva «Vaffanculo».

Io e le mie amiche dovevamo festeggiare un fine settimana insieme, ma non abbiamo potuto fare nessun brindisi. Controllavamo le notizie ininterrottamente. La mattina dopo il nostro arrivo alla casa vacanze abbiamo letto che la polizia aveva usato gas lacrimogeni contro le manifestanti a Varsavia.

Ho avuto un’eruzione cutanea su tutto il corpo.

In tutta la Polonia, le donne hanno marciato per protestare contro la sentenza del Tribunale. Hanno marciato venerdì, hanno marciato sabato e hanno marciato domenica.

Hanno “marciato” perché secondo le attuali restrizioni per la Covid-19, le camminate sono permesse. Ci sono state centinaia di azioni dirette spontanee, organizzate principalmente da All-Poland Women’s Strike – «un movimento sociale popolare indipendente di donne incazzate». I cortei si sono tenuti in piccole città e paesi che non avevano mai visto le donne marciare prima.

Domenica, nella Chiesa della Santa Croce di Varsavia, una donna è salita sull’altare durante la messa e ha srotolato un cartello con su scritto «My body, my business». Degli uomini glielo hanno strappato dalle mani e l’hanno portata fuori dalla chiesa; qualcuno le ha messo una mano sulla bocca, qualcun altro le ha gridato: «Zitta, puttana». Nella luce dorata del sole ai margini della foresta, abbiamo guardato i filmati in cui le sedicenti guardie di sicurezza della chiesa spingevano un’altra manifestante giù per i gradini. «Non lasceremo che le chiese vengano profanate!», gridavano questi soldati di Cristo, uomini e donne orgogliosi della loro momentanea importanza. La polizia è rimasta a guardare.

Il mio corpo bruciava. Come una zona di guerra.

Lunedì siamo tornati a Varsavia. Mi sono unita alle donne che “camminavano” per le strade e intorno alle rotatorie. Ero nervosa. Da una parte, la Polonia era nel mezzo della seconda ondata del virus, con oltre 12mila nuovi casi al giorno; dall’altra, c’era la polizia. Durante la campagna elettorale estiva, i politici polacchi, guidati dal presidente Andrzej Duda, avevano affermato che la sigla Lgbt non descrive persone reali, ma un’ideologia.

Quando questa “ideologia” è scesa in strada per affermare la sua forma umana, la polizia ha brutalmente arrestato gli attivisti e li ha spostati da una stazione di polizia all’altra, lasciando i loro avvocati a brancolare nel buio.

Ora, non è stata “un’ideologia” a camminare per le strade, ma madri, nonne, figlie, sorelle e mogli. Forse è per questo che la polizia era più cauta. Stavano in disparte e mettevano in guardia dal pericolo di contagio con i loro megafoni. Abbiamo ballato in strada al ritmo del nuovo inno delle proteste: qualcuno aveva notato che il ritmo di Call On Me di Eric Prydz si adattava perfettamente alla frase «Fuck off PiS» (in polacco, Jebać PiS), faceva persino rima. I tram si sono fermati e hanno iniziato a suonare il clacson a ritmo.

Qualche giorno dopo ero di nuovo in strada. Il sole scottava; con una mano spingevo la mia bicicletta e con l’altra reggevo un cartello bianco con un fulmine rosso. Un fulmine è un avvertimento (è il simbolo delle proteste delle donne polacche dal 2016). La gente è uscita sui balconi e ha applaudito; avevano disegnato dei fulmini sulle lenzuola e le avevano appese alle finestre; il simbolo adornava le vetrine dei negozi davanti a cui sfilavamo. Abbiamo marciato verso il palazzo del parlamento con euforia. Eravamo furiose, gioiose e forti. I tassisti con i fulmini sui parabrezza e sui cofani si sono uniti a noi, bloccando le strade. Non si trattava più solo dell’aborto. Si trattava della dignità di ognuna di noi.

Quando sono arrivata a casa quella sera, mi sono resa conto che avevo perso l’olfatto.

Venerdì, una settimana dopo che il Tribunale costituzionale aveva annunciato la sua sentenza, il movimento All-PolishWomen’s Strike ha indetto una grande protesta a Varsavia.

Centomila persone hanno marciato per le strade della capitale. Io invece, con un test Covid positivo in mano, ho solo potuto appendere un fulmine alla finestra e seguire i social network dal telefono.

Ho dormito malissimo per giorni. Le immagini si mischiavano nei miei sogni febbrili: Jarosław Kaczyński pronunciava un discorso alla nazione, tutto ciò che lo riguardava era confuso, il suo busto, le sue braccia, le sue parole e i suoi pensieri («La scelta è tra la chiesa o il nichilismo», diceva); 430.000 persone in centinaia di città e paesi “camminavano” per le strade e davanti alle chiese; agenti di polizia in borghese picchiavano i manifestanti con manganelli estensibili; il numero di telefono di Abortion Without Borders scritto con lo spray sui portoni delle chiese e sulle fermate degli autobus; milizie di destra trascinavano la gente fuori dalla folla per azzuffarsi; gas lacrimogeni spruzzati in faccia a giornaliste e donne parlamentari che mostravano i loro documenti d’identità; slogan su pezzi di cartone tenuti in alto: «Occupatevi del corpo di Cristo»; «Il mio corpo non è una bara»; «Prova a portare a termine i tuoi calcoli renali»; «Se i chierichetti rimanessero incinta, l’aborto sarebbe un sacramento»; «Un governo non è una gravidanza», «può essere interrotta».

Cinquant’anni fa, giovani donne venivano in Polonia dalla Svezia per abortire; sotto il comunismo, l’operazione era accessibile, non c’erano limitazioni significative. Oggi, la Polonia ha una delle leggi sull’aborto più restrittive del mondo. Fino al 2020 l’aborto era permesso solo in tre casi: quando la vita della donna era in pericolo, quando si scoprivano deformità fetali gravi e incurabili e quando la gravidanza era la conseguenza di uno stupro. Negli ultimi tre decenni, in un paese di 40 milioni di persone, il numero di aborti legali si è aggirato intorno ai 1000 all’anno (con una breve impennata a circa 3000 nel 1997, grazie a una temporanea maggiore flessibilità della legge). Ovviamente, questo è solo quello che ci dicono le statistiche del governo. Si stima che ogni anno circa 150.000 donne polacche interrompono una gravidanza al di fuori di questo sistema. Come siamo arrivati a tanto?

Tutto è cambiato nei primi anni ’90, quando la nostra giovane democrazia ha tentato di gestire una transizione dal comunismo al capitalismo alla velocità della luce.

A quel tempo, i politici e la Chiesa raggiunsero un compromesso tacito: l’élite politica era d’accordo che le questioni riguardanti la famiglia, la sessualità e la morale sarebbero state decise dalla Chiesa cattolica; nel frattempo i politici avrebbero placato gli scontenti causati dalla transizione alla democrazia e tenuto a freno i peggiori impulsi dei nazionalisti. Per dimostrare il rispetto di questo accordo, nel 1993 il governo centrista modificò la legge sull’aborto. Quasi due milioni di firme per la petizione a favore di un referendum sull’aborto contarono meno della necessità di ottenere l’appoggio dell’episcopato.

Nessuna amministrazione poteva mettere in discussione il ruolo della chiesa negli equilibri di potere, nemmeno il governo di sinistra eletto nel 1997. Ma il compromesso che i politici hanno fatto sul corpo delle donne non è servito a niente. I conservatori hanno comunque conquistato il potere quando il PiS è stato eletto nel 2015. Il desiderio dei nazionalisti di controllare i nostri corpi si è dimostrato ancora più forte. La sentenza del Tribunale del 22 ottobre significa che in Polonia non ci sarà praticamente nessun aborto (almeno ufficialmente).

Le donne hanno risposto con un’esclamazione che è diventata il principale grido di protesta: «Vaffanculo!». Ma questo a molte persone non stava bene. Alcuni commentatori e i soliti signori saggi dei media hanno spiegato alle donne che con questa volgarità stavano minando le proteste, che dividevano invece di unire. Altri dicevano: «Continuate, fate pure la vostra rivoluzione, ma dovreste dotarvi di una strategia politica». «Chi ricorda le folle in strada a Parigi nel 1789? La gente ricorda Robespierre! La gente ricorda Danton!» Dei politici ci si ricorda, degli uomini, il messaggio era che noi donne avremmo fatto meglio a cercare di entrare in politica, non limitarci a gridare «Vaffanculo». Che, inoltre, è maleducato.

Lo ammetto, all’inizio quel «Vaffanculo» suonava male alle mie orecchie e aveva un sapore aspro sulla mia lingua. Anche se ho marciato a intermittenza dal 2015, quando il PiS ha inscenato un colpo di stato contro la separazione dei poteri in Polonia, cercando di riempire i tribunali, generalmente mi tenevo in disparte.

Non mi piace la sensazione di stare in una folla, di essere spinta a conformarmi a un certo tipo di espressione politica. Ma quando quel «Vaffanculo» mi si è bloccato in gola, e ho cominciato a chiedermi perché. Sono stata cresciuta da una madre professoressa e da un padre politico, in una famiglia liberale, che si faceva beffe dei ruoli di genere tradizionali e credeva che prendere decisioni sulla propria vita fosse un diritto umano fondamentale. Nonostante ciò, quando ho esaminato i miei pensieri, ho scoperto che il patriarcato era profondamente radicato in me. «Smettila di fare la difficile»; «Sii educata»; «Non chiedere troppo»; «Gli uomini ne sanno di più, quindi non creare problemi».

Quando protestavo in difesa di una magistratura indipendente, ero un corpo che difendeva un’astrazione. Da ottobre non difendo più un’idea, ma il mio stesso corpo.

Tre mesi dopo l’annuncio della sentenza, il 22 gennaio 2021, il Tribunale costituzionale ha pubblicato le motivazioni per intero. Lo stesso giorno, il governo le ha pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Polonia, facendo così entrare in vigore la legge. Molti esperti legali sostengono che la sentenza dell’ottobre 2020 non è legalmente vincolante, affermano che il Tribunale stesso è illegittimo perché il PiS ha inondato il tribunale di persone leali al partito violando la Costituzione polacca. Ma che cosa cambia? Così com’è, il governo ora obbliga le donne polacche a far nascere dei bambini malati. Gli uomini in giacca e cravatta dicono che così almeno potremo battezzare i bambini prima che muoiano. E le donne avranno delle stanze speciali in cui poter piangere. Che bel governo abbiamo.

Quel giorno, a gennaio, le proteste sono scoppiate in tutto il paese. Io ero fuori città, in montagna, a disegnare fulmini nella neve. Le proteste sono durate per alcuni giorni, poi è tornata la calma. Ma un’altra manifestazione è stata indetta per l’8 marzo, la giornata internazionale dei diritti della donna. Sapevo che dovevo esserci.

Quella sera, mentre il cordone della polizia si stringeva intorno a me – quattro file di uomini con giubbotti antiproiettile –, ho avuto paura. Era primordiale, viscerale. Volevo fuggire, ma non mi sono mossa.

Quando protestavo in difesa di un sistema giudiziario indipendente, ero un corpo che difendeva un’astrazione; marciavo per senso del dovere, non per convinzione. Protestare contro la legge sull’aborto è diverso. Da ottobre non sto difendendo un’idea, ma me stessa. Balliamo e gridiamo e ci infuriamo per il diritto di decidere sul nostro corpo. Davanti al cordone della polizia, ho urlato «Vergogna!». Ho urlato «Vaffanculo!». Ho guardato i poliziotti negli occhi. La paura è sparita. Ora non ho più problemi con i «Vaffanculo».

Delle centinaia di migliaia di donne che erano in strada in autunno, oggi ne rimangono solo poche centinaia. Molti ci chiedono che senso abbia avuto. L’ennesima rivolta romantica che non ha portato a nulla, una specie di tradizione polacca, dicono gli “zii baffuti”, annuendo saggiamente. Ci offrirebbero i loro consigli, ma hanno paura di essere mandati a quel paese, il che offende la loro sensibilità. Non riescono a vedere che un grande cambiamento è già avvenuto. Ora le donne polacche chiedono il pieno accesso all’aborto legale fino alla dodicesima settimana di gravidanza.

Questa richiesta ha il sostegno del 66% dei cittadini polacchi. Il PiS ha inavvertitamente costretto gli altri partiti a prendere una posizione al riguardo. Anche l’opposizione più centrista (bloccata nel suo stesso balletto con il clero) ora è favorevole all’aborto fino a dodici settimane in caso di «condizioni di vita difficili» (qualunque cosa significhi). I “signori molto saggi” sono stati accolti con un definitivo: «OK, boomer».

Il movimento All-PolishWomen’s Strike (un’iniziativa informale e imparziale) ha organizzato un Consiglio costituzionale. Le leader (o meglio, le coordinatrici) hanno raccolto gli appelli che provengono dalle strade e li hanno trasformati in 13 richieste, che vanno dai diritti delle donne, all’educazione, all’ambientalismo.

Non solo vogliamo l’accesso all’aborto legale, ma anche un sistema giudiziario indipendente, un governo laico e i pieni diritti umani. La sentenza del cosiddetto Tribunale costituzionale può andare a farsi fottere, il cosiddetto Tribunale costituzionale può andare a farsi fottere e il governo può andare a farsi fottere.

Ottocento persone si sono offerte volontarie per lavorare insieme e discutere su come implementare queste richieste. Le idee vengono pubblicate su un sito web dove chiunque può dire la sua. Quale sarà il risultato delle consultazioni? Forse un reportage, forse un dialogo con il parlamento, forse un nuovo contratto sociale. Il movimento Women’s Strike, nonostante i buoni consigli degli “zii baffuti”, non vuole trasformarsi in un partito. Questo non significa che non possa influenzare la politica. Il suo slancio evidenzia qualcosa che molti polacchi non capiscono: i politici non sono autorità che possono dare ordini su come devono essere le nostre vite, i politici sono persone impiegate da noi per gestire il paese. Possiamo cogliere l’opportunità di decidere attivamente come sarà il nostro paese, non solo alle urne una volta ogni quattro anni, ma ogni singolo giorno.

Sto guardando tutto questo in tempo reale. Molte delle persone intrappolate dai cordoni della polizia nelle città polacche avevano 17, 18, 19 anni. Sono stati brutalmente trascinati via dalla folla e arrestati. Gli adolescenti che protestavano davanti alle chiese in tutta la Polonia sono stati derisi dai preti: «Chiedete scusa alle vostre madri, non vi hanno raschiato via». Si stanno rendendo conto del fatto che un’icona a forma di fulmine sulla foto del profilo di Facebook può comportare una riduzione del voto per la condotta e che i loro insegnanti che sostengono la protesta possono essere puniti dal Ministro dell’istruzione per comportamento volgare.

Nonostante tutto questo, si presentano per le strade, preparati a resistere ai cordoni e agli attacchi. Portano coperte termiche e tè caldo per proteggersi dal freddo; occhiali protettivi per proteggersi dai gas lacrimogeni. Scarabocchiano fulmini e «JebaćPiS» sui marciapiedi con il gesso.

L’ultimo sondaggio indica che il 30% delle persone tra i 18 e i 24 anni ha opinioni di sinistra. Questo è il doppio di un anno fa. Come l’autrice e attivista dei diritti umani Agnieszka Graff ha scritto lo scorso novembre: «Si comportano come se non avessero mai sentito parlare del “compromesso”. Per loro, Giovanni Paolo II è una figura storica, non un santo».

Ci sono donne di tutte le età che si sono avventurate nelle strade per la prima volta nella loro vita, temendo di trovarsi da sole nel mercato centrale di una piccola città, con in mano un cartello con un fulmine disegnato sopra. Ma non sono mai state sole. Non sono l’unica a essere cambiata in questi mesi. Il cosiddetto compromesso è finito. E a coloro che ancora lo sostengono, posso solo dire: «Andate gentilmente affanculo».

Tutte le immagini dalla pagina Facebook di Ogólnopolski Strajk Kobiet

Articolo pubblicato sul magazine on-line LeftEast

Traduzione dall’inglese di Gloria Bucari per DINAMOpress