ROMA

Il pallone commissariato

Tra sciopero del tifo e curve commissariate, il prefetto e il governo provano a disegnare i confini di un nuovo modello di tifoso: il cliente dello stadio. Riusciranno le curve a reinvetarsi ed essere all’altezza di questa offensiva?

Un derby del genere non si era mai visto. Curva Sud e Nord hanno deciso di rompere la vetrina dello spettacolo e disertare la madre di tutte le partite, per protestare contro le misure repressive che investono gli stadi in generale e l’Olimpico in particolare. Si tratta delle ormai famose barriere di divisione (ma non solo) che hanno spacchettato i “settori popolari” dall’inizio della stagione. Barriere imposte dal super prefetto Gabrielli che in questi giorni sta concedendo interviste a profusione col piglio commissariale – al limite della provocazione – tanto caro al governo Renzi.

Il succo è questo: in nome della pubblica sicurezza e della pubblica incolumità, si è deciso di restringere la capienza delle curve e sottoporre i tifosi che le abitano a un rigido controllo. Ma i conti non tornano, fin dalle premesse, visto che i numeri di Gabrielli sono immaginari: in alcune partite, alla luce dei circa 8 mila posti disponibili, le curve si sarebbero riempite indebitamente fino a 12 mila tifosi, roba da campo di concentramento. Fallace anche la ricostruzione storica: lo stadio Olimpico non è teatro di scontri e violenze, al suo interno, da almeno 30 anni, se si escludono alcune scaramucce avvenute in tribuna Tevere in alcuni derby di qualche anno fa e la folle serata del “derby del bambino morto“, del febbraio 2004. Gli unici episodi degni di nota sono avvenuti all’esterno dell’impianto, le cui responsabilità portano dritti-dritti dalle parti di via Genova, nelle stanze del questore: nel maggio 2014, l’aggressione nei confronti dei tifosi del Napoli, in cui fu ferito a morte Ciro Esposito; nel 2007, gli scontri a seguito dell’assassinio di Gabriele Sandri.

Se davvero il problema è quello della capienza e della diffusa pratica dello “scavalco” dai settori limitrofi, basterebbe vendere meno biglietti, rimodulare i posti e mettere un po’ di steward tra un settore e l’altro. Il punto invece sembra un altro e si evince analizzando le nuove norme relative all’ordine pubblico e le sanzioni, amministrative e penali. Ad oggi ci si può beccare un Daspo (Divieto di accesso a manifestazioni sportive) o rischiare sanzioni semplicemente cambiando il posto assegnato, lanciando un coro, innalzando striscioni (come avvenuto ai tifosi laziali, durante la recente partita di coppa contro il Rosenborg). Il decreto legge 119/14, varato direttamente nelle stanze del ministro dell’interno Alfano prevede un inasprimento radicale della normativa: il divieto potrà essere disposto dal questore (salvo convalida dell’autorità giudiziaria), non solo per i cosiddetti “reati da stadio”, ma anche contro tifosi denunciati o condannati per delitti contro l’ordine pubblico. Si prevede anche un “Daspo collettivo” per interi gruppi di tifosi o per illeciti commessi all’estero. In caso di recidiva, poi, la durata minima del Daspo viene portata a cinque anni e quella massima a otto. Ai “daspati” recidivi potrà applicarsi la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, estendendo nei loro confronti una disciplina riservata finora agli indiziati di appartenere a organizzazioni di tipo mafioso o terroristico.

Sulla sanzione-rappresaglia l’avvocato Lorenzo Contucci, noto difensore di tanti tifosi, ha fatto chiarezza pochi giorni fa dai microfoni di una radio romana: “Si tratta più che altro di un annuncio propagandistico. Non si tratta di Daspo collettivo ma dell’utilizzo della fattispecie del concorso nello svolgimento di un reato, già previsto dal nostro codice. È sicuro, comunque, che la carica ideologica di questi provvedimenti ha già portato a un restringimento dei diritti, al limite della costituzionalità“. In questo senso vanno alcune recenti sentenze, come quella del gip di Roma, che ha tolto l’obbligo di firma a un tifoso romanista già colpito da Daspo, reo di aver acceso una torcia durante una protesta fuori e lontano dallo stadio Olimpico.

In questo quadro, a Roma, si aggiunge un cambiamento di gestione minuta e pervasiva dell’ordine pubblico nello stadio, inaugurata lo scorso anno. È esperienza frequente dei tifosi di curva, essere sottoposti a perquisizioni minuziose e reiterate, compreso l’obbligo di togliersi le scarpe, come avviene negli aeroporti. Pre-filtraggi all’esterno, tornelli e perquisizioni, una via crucis per entrare alla fine in uno stadio fermo agli anni ‘80, con servizi fatiscenti e spalti scomodi costruiti a 100 metri dal campo.

Il segnale è inequivocabile: dare una dura lezione a ciò che resta del vecchio tifo di curva, dissodare il terreno da anomalie e “resistenze”, per affermare un nuovo modello di cliente, anestetizzato, monitorato e fidelizzato al consumo compulsivo. Una sorta di tifoso 3.0, come quello immaginato dal progetto di nuovo stadio di Tor di Valle: un supermercato disciplinato, con una curva a 50 euro a partita, abbonamenti che valgono uno stipendio, a cui si deve sommare il costo del “diritto di prelazione” pluriennale. La campagna di marketing di Pallotta e soci è già partita, nonostante le crescenti riserve politiche e le ipoteche giudiziarie che gravano sul progetto, spacciato per grande occasione di crescita della città. Un progetto che rischia di rappresentare la grande opera, “stile Expo”, in cui si misurerà la gestione “efficiente e rigenerativa” di Tronca e soci. Stesso discorso si potrebbe fare per il vecchio progetto (bocciato) di Lotito sulla Tiberina, zona a rischio esondazione, che prevedeva una analoga colata di cemento attorno allo stadio.

E così, mentre la gestione delle curve da “laboratorio sperimentale dell’ordine pubblico” si trasforma compiutamente in commissariamento neoliberista del calcio, le istituzioni del calcio italiano continuano a dare il peggio di sé, tra indegnità morale, subalternità politica, corruzione e fedeltà ai poteri forti.

La vicenda tragi-comica di Carlo Tavecchio, presidente miracolato della Figc, ci ha regalato un altro capitolo illuminate, dopo gli insulti ai giocatori neri e le affermazioni misogine. “Non ho nulla contro ebrei e omosessuali, ma teneteli lontano da me. Come quell’ebreaccio di imprenditore”. È stato il Corriere della Sera a pubblicare alcuni passaggi di una lunga chiacchierata avvenuta la scorsa estate tra Tavecchio e il direttore del quotidiano online SoccerLife Massimiliano Giacomini. A dire il vero, lo scandalo sembra un’operazione a orologeria, con l’intervistatore nel ruolo confidenziale che prova a imboccare le risposte. Risposte indegne che, però, arrivano puntuali senza alcun argine, etico o di mero opportunismo politico.

Lo spettacolo seguito non è stato dei migliori. Dal mondo sportivo solo condanne proforma, dissociazioni fuori tempo massimo e la solita giostra dello scaricabarile. Qualche richiesta di dimissioni è giunto da esponenti di Pd e Sel, dall’Arcigay, dalle comunità ebraiche e, soprattutto, da tantissimi tifosi comuni che hanno inviato messaggi alle redazioni dei giornali sportivi e televisivi. Il governo tace o fa finta di niente, come le società, mentre il Coni si nasconde dietro la foglia di fico dell’autonomia politica delle federazioni. In nessun paese europeo un personaggio simile sarebbe rimasto un minuto in più al suo posto. E non si tratta certo di nostalgia passatista nei confronti di un mondo popolato da ben altri personaggi – gli Anconetani, i Rozzi, i Lenzini – di un calcio che non tornerà più (“l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, diceva Pier Paolo Pasolini), ma dello sfondamento di ogni limite etico e politico, funzionale alla riduzione della Figc a un baraccone paralizzato da scontri di potere.

Cosa fare, dunque, in questo scenario sconfortante? Il pallino torna in mano ai tifosi, quelli delle curve in particolare, attesi da una sfida complicata, alla luce soprattutto del tunnel soggettivo, culturale e “politico” in cui si è ficcato il “mondo ultras” dei gruppi organizzati. La bandiera dell’Acab e i rigurgiti identitari, spesso fascisti e razzisti, non hanno scalfito le misure repressive degli ultimi anni che ha decimato i “militanti” delle curve, né costruito consenso e relazioni con il resto dei tifosi, né incrinato minimamente l’affermazione del neo-calcio, con la sua coda velenosa fatta di calendario-spezzatino e dittatura delle pay tv. Qualcosa si muove in Europa, tra l’Inghilterra e la Germania, diverse tifoserie iniziano a organizzarsi contro l’aumento dei prezzi e le speculazioni delle società

Lo stesso sciopero del tifo, se prolungato all’infinito senza obiettivi specifici, mezzi adeguati e soluzioni creative, non farà che anticipare i desideri di Gabrielli e soci, una sorta di eutanasia assistita della passione popolare per come l’abbiamo vissuta fino ad oggi. Serve altro per andare oltre la resistenza e la testimonianza. Per non consegnare, anche lo stadio, alla normalizzazione commissariale del “nuovo” che avanza.