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Il nazismo addomesticato di “Generation War”

Sulla miniserie andata in onda su Rai3

In Italia arriva con il titolo “Generation War”, ma il titolo originale della produzione tedesca è ben più evocativo: “Unsere Mütter, unsere Väter”, “Le nostre madri e i nostri padri”.

Dopo aver visto i tre episodi (che da noi verranno suddivisi in due serate, nel prime time di RaiTre del 7 e dell’8 febbraio), ci siamo resi conto che la fiction che promette di raccontarci la vita delle “persone comuni” in Germania durante il nazismo, dietro la cortina spettacolare di una trama avvincente e gli effetti speciali di una produzione importante, nasconde una funzione ideologica ben precisa. L’insidia è contenuta fin dal titolo originale, che rievoca la domanda che assillò le generazioni successive al nazismo (“Cosa facevano i miei genitori durante il nazismo? Si resero complici dell’orrore?”), che produsse rimozioni nei primi decenni e conflitti durissimi negli anni Sessanta e Settanta. E oggi? Il film promette di rispondere finalmente a quella domanda. Con tutta evidenza lo fa analizzando gli eventi storici in funzione dell’attualità.

La narrazione tossica di “Generation War” comincia nel 1941, a Berlino. Nel retronegozio di un bar cinque ventenni pieni di speranza si salutano: sono tutti ad un bivio della loro esistenza. Ci sono due fratelli che indossano la divisa della corazzata dei “levrieri” della Wehrmacht, Wilhelm e Friedhelm. Il primo, il maggiore, è un graduato intriso di valori guerreschi. Il secondo è un idealista tutt’altro che convinto della necessità della guerra. Sono in procinto di partire verso il fronte orientale. Anche l’infermiera Charlotte sta per andare verso est: sarà impegnata negli ospedali da campo che seguono a distanza l’avanzata delle truppe del Führer. E poi ci sono Greta, che invece sogna di far carriera come cantante, e il suo fidanzato Victor, un giovane ebreo. Il festino d’addio si svolge in perfetta tranquillità, potremmo trovarci dovunque in Occidente e in qualsiasi momento del Novecento, se non fosse che un ispettore delle SS bussa alla serranda del locale, attirato dal ritmo della vietatissima musica swing che allieta il convivio. I cinque non paiono troppo scossi. Si danno appuntamento per il natale successivo: la Russia capitolerà nel giro di sei mesi, prima dell’arrivo del generale inverno, si assicurano l’un l’altro. Persino l’ebreo Victor si dice ottimista, e spera che, una volta tolto di mezzo Stalin, le campagne antisemite si placheranno.

Da questo momento in poi, le cinque vite testimoniano per cinque lunghi anni il lento scivolare verso la barbarie. “Dobbiamo dire addio al mondo che conoscevamo”, si dicono i soldati per farsi coraggio e tollerare le violenze. Osservano in un’altra occasione i protagonisti, quasi negare ogni possibile alternativa: “Dopo il Terzo Reich non viene nulla”. Lo sguardo sulle vite normali di persone comuni nell’ultima fase del nazionalsocialismo parrebbe essere un punto di vista scomodo eppure coraggioso per inquadrare la “zona grigia” individuata da Primo Levi. Quello spazio drammatico cioè che nei campi di concentramento separava i carnefici dalle vittime, i padroni dagli schiavi, e che fornisce un’indicazione generale: più si abbassa la soglia della dignità umana più è impossibile distinguere il male dal bene. Non esistono barriere impermeabili, l’uomo è indotto dalla sua finitezza a contaminarsi col male assoluto.

Ma nel caso di “Generation War” non è così. Stefan Kolditz e Philip Kadelbach, autore e regista, hanno ben altre intenzioni. “Generation War” non dispiacerà a molti negazionisti: i lager non entrano nelle vite dei protagonisti, entriamo solo per poco dentro al vagone piombato nel quale finisce Victor, le uniche violenze tedesche contro gli ebrei sono opera di nazisti sadici e psicopatici. Non esiste la banalità (e la normalità) del male pianificato e non c’è il sistema industriale, organizzato e freddamente pianificato, dell’Olocausto. Lo sterminio lascia il posto a crimini individuali. Per qualche minuto dietro le linee del fronte orientale assistiamo all’arresto in massa di ebrei, ma questo è messo in atto da ferocissimi “ausiliari ucraini”. I soldati semplici nazisti appaiono quasi turbati vedendoli in azione. “Il male dei nazisti è quasi negato, ma è soprattutto limitato a pochi Ss sadici da cartone animato e a qualche comandante della Gestape, che sono crudeli coi loro soldati quasi quanto con ebrei e russi”, ha scritto il New York Times recensendo il film.

I crimini di guerra vengono presentati quasi come necessari: ad un certo punto al graduato Wilhelm viene richiesto di far fuori un soldato russo. Quando quest’ultimo – che è all’inizio di una crisi di coscienza che allude al fatto che il nazismo abbia in qualche modo tradito le sue intenzioni, che insomma non fosse malaccio nelle premesse – ricorda al suo superiore che uccidere i prigionieri di guerra è vitato dalla Convenzione di Ginevra, si sente rispondere che non c’è nessun problema: “La Russia non ha firmato la Convenzione”.

Anche i partigiani vengono investiti dal relativismo di cui è intriso “Generation War”. Dopo che la televisione pubblica tedesca Zdf ha mandato in onda il film, l’ambasciatore polacco a Berlino si è detto “costernato” per l’immagine che questo offre dei partigiani che si opponevano ai nazisti. Essi sono antisemiti. Per di più, come ha ricordato la rivista tedesca Konkret, l’antisemitismo dei combattenti polacchi appare più feroce di quello dei tedeschi perché “passionale” e non freddo come quello dei nazisti. Eppure, ha ricordato il diplomatico, la maggior parte degli alberi piantati nel Giardino dei Giusti di Yad Vashem in memoria di chi rischiò la vita per salvare ebrei dallo sterminio, sono intitolati a cittadini polacchi.

Tutto ruota attorno alla necessità di far sentire gli uomini comuni come vittime della storia, e non come protagonisti (e in alcuni casi come colpevoli di essersi schierati dal lato sbagliato). Tutta la trama pare pensata per assolverli di fronte ai drammi della storia e alla guerra generalizzata. È come se le coscienze individuali e le responsabilità collettive scomparissero di fronte ad un’esplosione di violenza che investe tutti, non solo i nazisti, producendo una sorta di relativismo che gioca pericolosamente a favore della trama (le sorti di cinque vite in balia del male) ma rema contro la memoria collettiva e l’analisi storica.

Si intitola proprio “Uomini comuni” il libro di Christopher Browning che ha passato in rassegna i verbali degli interrogatori di 210 tra i 500 poliziotti riservisti del Battaglione I che fra il 13 luglio 1942 e il 5 novembre 1943, proprio nel pieno degli anni in cui si svolge “Generation War” assassinarono una per una circa 38000 persone in Europa orientale e parteciparono alla deportazione a Treblinka di 45000 Ebrei. Perché quegli “uomini comuni”obbedirono così efficientemente e prontamente agli ordini? Dagli interrogatori emerge una spiegazione diametralmente opposta a quella, in fondo consolatoria, proposta dalla fiction: chiunque può diventare un carnefice, annichilito dalla paura di trasgredire agli ordini e incoraggiato dallo spirito di gruppo.

*Dal blog suduepiedi.net