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Il martello sonoro di Capitan Hook

Se il bassista dei Joe Division sbarca a Roma con i The Light

La location non aiuta affatto. Il Palatlantico è lo specchio dell’offerta musicale romana: uno spazio più adatto a convention di partito, meeting di venditori di detersivi, partite di calcetto indoor. Tutto, meno che concerti degni di un ascolto umano. Scopriamo l’evento poche ore prima, sfogliando pigramente le pagine culturali di un noto portale web. Peter Hook, bassista e fondatore dei Joy Division e New Order, torna a Roma con il suo nuovo progetto, che prevede la rivisitazione di due pietre miliari della musica di fine Novecento: “Unknown Pleasure” e “Movement”.

Un veloce ripasso dal Bignami del rock: nel 1977, a Manchester, Peter Hook fonda e guida la “Divisione Joy” (il reparto dei campi di concentramento nazisti in cui le prigioniere venivano costrette a prostituirsi) insieme a Bernard Summer, chitarrista, e Stephen Morris alla batteria, fino allo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 1980 in seguito al suicidio del cantante Ian Curtis (trovato impiccato dentro casa, con la tv ancora accesa, poco prima della partenza del tour americano).

Parliamo di quel crinale straordinario, tra fine Settanta e inizio Ottanta, in cui si fondano si mescolano si inseguono l’onda lunga e più scura del punk, i primi vagiti dark, i sinth proto dance, i delay delle chitarre new wave e la ritmica ossessiva delle batterie suonate e delle drum machine. Il teatro di questa epopea è Manchester, la città industriale in declino, che prova a inventare un nuovo mondo tra la restaurazione tacheriana e i fantasmi delle fabbriche chiuse e abbandonate. Il proscenio è quello della Factory, che dal 1976 vede la nascita di un onda musicale impressionante, immortalata per sempre dagli scatti fotografici di Kevin Cummins, il Caronte della Manchester sonora: il primo mitico concerto dei Sex Pistols davanti a una trentina di persone, il punk dei Buzzcocks e dei Fall, il pop senza paura degli Smiths, e poi Magazine, A Certain Ratio, Durutti Column, New Order.

Tra gli Ottanta e i Novanta si passerà alle follie lisergico-danzerecce dell’Hacienda: Happy Mondays, Stone Roses, Inspiral Carpets, Charlatans. Una lunga stagione che incorona il manager-impresario Tony Wilson, la cui storia viene raccontata nella pellicola 24 Hour Party People di Michael Winterbottom, titolo mutuato il dal pezzo-manifesto degli Happy Mondays, contenuto nel primo album della band (1986). Da li a pochi anni, verrà il tempo degli Oasis, ma ci fermiamo qui.

Questa è la storia densa e seminale che fa da scenografia immaginaria a questo uomo di 58 anni e ai suoi quattro sodali che aprono le danze alle 21.30 spaccate. I riff di basso di Hook, inconfondibili, prima ossessionanti poi danzerecci e solari, ricamati su pochi semplici accordi, bussano all’anima dei trecento fortunati che assistono al concerto con un’attenzione e un rispetto d’altri tempi. Senza inutili enfasi, facili entusiasmi da imbelli. Si ascoltano i brani come si ascoltano i racconti di un caro vecchio zio tornato da un lungo viaggio, un po’ misterioso, in giro per il mondo.

Senza girarci troppo intorno si parte con il pacchetto-Joy. Ed ecco subito la sferzante Disorder e la robotica She’s lost control. Poi arriva la transizione alla dance-electro di Movement, primo disco dei New Order, passaggio essenziale (psico-musical-terapeutico) che fece sopravvivere i tre musicisti dell’epoca alla scomparsa di Ian. I due bassi (quello di Hook è a sei corde) sparano il suono inconfondibile alla “hooky” da due testate identiche, poggiate su doppio cono, ai lati della batteria, e duettano senza sosta con la chitarra e il sinth, le basi elettroniche incorniciano un’atmosfera catartica, tagliata da luci blu cobalto e rosso scuro.

Il pubblico segue assorto il decollo, poi si scalda rimanendo composto, le luci illuminano facce emozionate dai 20 ai 55 anni e le magliette con il celebre pulsar di “Unknown Pleasure. Chi batte il ritmo con il piede, chi si ciondola, chi muove il dito verso il cantante, chi intimamente rivive sonorità adolescenziali, chi scambia con il vicino sguardi d’intesa per l’ennesimo giro cult sciorinato con rigore. Ma non c’è alcuna drammatizzazione né inerzie decadenti fuori tempo massimo. Lo stesso Hook, in un libro-intervista di qualche tempo fa, volle riconsegnare al pubblico un’immagine meno seriosa e nichilista dei Joy Division: «Ho solo mostrato che eravamo ragazzi normali – ha raccontato – Ragazzi stupidi quanto basta, ma serissimi sulla musica. Vorrei che altri ragazzi formassero band e non si fermassero davanti al mito. Non esiste mistero: ti alzi dalla sedia e fai bene ciò che vuoi fare».

Siamo ormai a mezzanotte. Tra un intermezzo e l’altro, si alternano senza soluzione di continuità pezzi dance/dark/new wave/post punk, fino al tripudio finale di Temptation e Ceremony, i due pezzi che maggiormente legano la produzione dei Joy Division e dei New Order, in quanto la loro “release” ufficiale è postuma alla morte di Curtis. Seguendo l’onda emotiva di queste note, il gruppo decide di congedarsi con due regali attesi: Trasmission e Shadowplay. Parte istantaneo il primo accenno di pogo, addolcito dall’emozione di acoltare e vedere dal vivo quel giro di basso tanto stupido quanto meraviglioso.

Per un attimo, tutti, vediamo salire sul palco un uomo dinoccolato, in pantalone nero e camicia grigia, capelli brizzolati. Prende il microfono guardando fisso in un punto lontano, poi chiude gli occhi e piega la testa verso l’asta del microfono. Al primo colpo di cassa si muove come scosso da un corto circuito, taglia l’aria con rapidi movimenti angolari, a scatti, con le braccia, le mani, le gambe. La sua voce viene da chissà dove perché, come dice Emidio Clementi, “consapevole che il peso del mondo è un peso d’amore troppo puro da sopportare”. Ed è l’amore che ci farà a pezzi, again.

Non è salito, ma l’abbiamo visto tutti.