editoriale

Il formicaio impazzito

Tutti contro tutti, tutti abusivi e porcelli

La clamorosa pronuncia della Corte Costituzionale, che ha cassato due punti fondamentali del Porcellum –l’abnorme premio di maggioranza senza minimo e le liste bloccate– lasciando sopravvivere solo il proporzionale con soglia d’accesso , ha gettato lo scompiglio in tutto il campo parlamentare, dove partiti e frazioni di partiti si dimenano come formiche impazzite, in un clima che non è di invalidazione legale ma certo di delegittimazione politica.

In parole povere: da 8 anni ci si è mossi con organi eletti in modo incostituzionale, ciò che si riflette sulla stessa produzione legislativa e amministrativa. In ogni organismo storico –pensiamo in primo luogo alla Chiesa– il diritto distingue fra perennità dell’ufficio e indegnità di chi l’occupa abusivamente e dunque i sacramenti amministrati da un prete pedofilo restano validi e così le ordinazioni sacerdotali fatte da un vescovo simoniaco. Principio di continuità. Ma l’istituzione perde consensi e si rende obbligata una sua riforma dall’interno o dall’esterno, pena lo sputtanamento della missione spirituale e dogmatica. Non è questione di far dimettere i parlamentari imputabili al decaduto premio di maggioranza e ai governi da loro determinati (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta), per non parlare della presidenza Napoletano-bis, e neppure di annullare tutte le leggi posteriori al Porcellum del 2005 o a alla sua cancellazione, ma di prendere atto politicamente del fallimento di un’esperienza anche sul piano costituzionale –su quello economico ha già impietosamente giudicato la crisi.

In particolare, appare inammissibile che un Parlamento siffatto possa ambire a modificare la Costituzione e, anzi, che l’abbia già fatto con l’inserimento di soppiatto, per ordine di Bruxelles e Francoforte, del pareggio di bilancio nella Legge fondamentale e con la stipulazione di impegni internazionali funzionalmente correlati quali il fiscal compact e il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil. Governo e Parlamento si sono dimostrati incapaci di concordare una legge elettorale sostitutiva del Porcellum per una serie di veti incrociati e lo sono tuttora, dopo che la Corte ha tolto le castagne dal fuoco eliminando il ricatto di un premio di maggioranza al buio e in una sola Camera. Impotenti su una legge ordinaria, a quale diritto e con quale plausibilità pensano di portare avanti un processo di revisione costituzionale, partito in modo grottesco con i quaranta “saggi” chiusi a conclave in un albergo di lusso a Francavilla al Mare come i quaranta ladroni nella caverna di Ali Babà? Con un clamoroso sbrego, per di più, alla procedura di revisione, cioè all’art. 138?

Già prima della sentenza, il castello di carte era crollato sulla decadenza di Berlusconi e sulla fine delle larghe intese che, nel progetto nefasto e autoritario di Napoletano, avrebbe conseguito il suggello con le “grandi riforme” economiche e istituzionali, a garanzia dell’estinzione del welfare e della democrazia. La crisi micidiale della rappresentanza, dei partiti e dello Stato dei partiti non poteva di sicuro essere arginata da quel progetto, ma la realtà ha mandato a gambe all’aria tale maldestra operazione. Essa sopravvive oggi, con un pacchetto ridotto, solo per essere accoppiata in illogico connubio con la legge elettorale e stiracchiarne i tempi di approvazione per far durare un altro anno il governo Letta.

Subito dopo l’ignominiosa cacciata di Berlusconi dal Senato, è scattata la vendetta di FI, con Brunetta che ha attaccato le ingerenze di Napolitano e criticato il metodo dello scavallo del 138 proponendo invece, con offerta irricevibile, il referendum diretto sulle grandi opzioni (monocameralismo, riduzione parlamentari, giustizia –Dio sa cosa in nome della “pacificazione”– e soprattutto semi-presidenzialismo alla francese), contando di volta in volta di trascinare nel voto popolare anche i renziani. Progetto fumoso, ma intanto il no di FI toglie la maggioranza dei 2/3 nelle Camere, manda in fumo il lavoro dei “saggi” e inibisce la stessa formazione della commissione parlamentare costituente. Fin qui con il pieno consenso di Renzi, che aveva una sua confusissima ipotesi di riforma e soprattutto non voleva che il macchinoso congegno costituzionale prolungasse troppo la vita del governo Letta, dunque puntava a tenere il Porcellum e andare al tavolo a vedere, cioè elezioni a marzo. Superfluo aggiungere che, essendo Napolitano il tutore di Letta e Cuperlo, la sfida al Supremo Badante stava giusto nelle corde del sindaco fiorentino aspirante Sindaco d’Italia.

In cosa consiste il terremoto innestato dalla Corte Costituzionale? A chi hanno voluto dare un ceffone? Ai parlamentari infingardi e porcellosi? Naturale, ma anche e in primo luogo è stata una sottile vendetta contro Napolitano (e il suo reggicoda Scalfari), che li aveva pressati oltre ogni limite per rinviare il giudizio sine die nella paura che, togliendo il premio di maggioranza, facessero cadere il principale spauracchio contro il ritorno alle urne e quindi danneggiassero tanto la “stabilità” di Letta quanto l’avventurismo di Renzi, speranzoso, al pari di Berlusconi, di usufruire proprio di quel premio. Renzi allora ha dato fuori di matto e Napolitano si è permesso di mettere i piedi sul piatto proclamando che la nuova legge dovrà sconfiggere il proporzionalismo e favorire il bipolarismo: ma si crede davvero il medico dell’inferma Italia, Sua Immensità come lo chiama Crozza?

Tutti contro tutti: il formicaio è impazzito nel momento di massimo scollamento del ceto politico dalla situazione reale, la rappresentanza si dissolve in un balletto di reciproche accuse di abusività mentre gli indici di povertà, disoccupazione e recessione vanno alle stelle, condite di una tonalità depressiva e “sciapa” che l’annuale rapporto Censis registra con pittoresca puntualità.

Eppure, nell’impasse delle riforme e nel simmetrico appassire della letteralità a oltranza di Rodotà e dei promotori della scialba manifestazione del 12 ottobre, torna a proporsi una problematica costituzionale che ai movimenti non può restare indifferente, per quanto non immediata né fondamentale in un’agenda delle lotte. Un discorso di cornice, che però tracima nel quadro a supporto delle iniziative e per il loro sviluppo riflessivo. Andiamo a vedere.

La repressione delle lotte e l’imposizione dei vincoli europei e neoliberisti passa attraverso pratiche amministrative, leggi di stabilità e articoli del CP ripescati dalla legislazione fascista o di nuova introduzione: nel rozzo caso italiano, a parte la recidiva, i reati di concorso morale, devastazione e saccheggio o attentato agli organi costituzionali, in quello spagnolo più sofisticato le recentissime misure di censura e illegalizzazione di pratiche comunicative sul web. Tuttavia vi sono alcune premesse costituzionali la cui cancellazione fa parte di qualsiasi campagna politica volta a modificare il codice (per esempio, il primo comma dell’art. 79, che condiziona l’amnistia alla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera) o a consentire politiche economiche autonome dai dogmi liberisti e dai diktat europei (le aggiunte all’art. 81 implicanti l’obbligo del pareggio di bilancio tranne “eventi eccezionali”).

Ci sarebbe qualcosa da dire anche sul vincolo di mandato dell’art. 67, retaggio del primo liberalismo e già contenuto nello Statuto albertino, art. 41. Il divieto di mandato imperativo sta in molte costituzioni, ma significativamente non se ne fa cenno in quella Usa, dove anzi è presente a livello di molti stati la pratica del recall (destituzione referendaria degli eletti), residuo dell’acceso dibattito sulla natura della rappresentanza che lasciò il punto indefinito nella stesura della Costituzione federale. Istituti simili sono stati introdotti di recente in Sud-America e altrove, mentre la Carta portoghese impone la decadenza ai parlamentari che cambiano partito.

Forse non è il caso di lasciare a Grillo una rivendicazione che era il cuore giuridico della Comune di Parigi…

Lo stesso si potrebbe dire per il supporto costituzionale a proposito di altri campi tematici come il diritto all’accesso, la definizione dei beni comuni, la tutela dell’ambiente naturale –al di là della dilatazione analogica di formulazioni ormai datate o dell’interpretazione estensiva delle categorie di pubblico e privato. Cominciamo a pensarci.