Il beneficio del tempo: una vecchia illusione

Così giovanili e così mummificati, i protagonisti delle larghe intese

Il governo Letta sopravvive per piccoli passi e soprattutto per dilazione sistematica di provvedimenti, rosicchiamento di margini europei, interventi a pioggia per spostamento di voci di bilancio. Sopravvive nella paralisi di iniziativa e nell’impossibilità di una crisi, a causa delle paure incrociate di Pd e Pdl di togliere la fiducia e gettarsi in un’avventura elettorali dall’esito incerto, secondo gli ultimi sondaggi, e dai contraccolpi sicuramente negativi sui mercati. Gestire la crisi economica e gestire la catastrofe dell’ideologia neoliberista è doppiamente difficile, ai limiti dell’impossibilità non detenendo il controllo giuridico (Usa, Inghilterra) o pratico (Germania) degli strumenti finanziari e monetari. Non avendo il coraggio di rompere con i dispositivi imposti dalla Trojka (fiscal compact) e addirittura inseriti con entusiasmo bi-partisan in Costituzione (il pareggio di bilancio), i due poli sono obbligati a strillare buone intenzioni (opposte) senza disporre nemmeno di un euro per realizzarle e mandano avanti i loro pasdaran e organi di stampa per tener caldi gli argomenti di un’eventuale campagna elettorale, non prima dell’autunno comunque. Schermaglie risentite, ma tutto sommato di facciata.

A essere precisi i pasdaran li mandano avanti solo a destra, mischiando demagogia sulle tasse da abolire/restituire e alti lai sulle disavventure giudiziarie di Berlusconi. A sinistra si limitano a difendere l’indipendenza (nemmeno le sentenze) dei giudici che bastonano il Cav e, con vergognosa equidistanza, dimettono una ministra che ha rimediato alla bell’e meglio qualche elusione fiscale sotto i mille euro e vanno a cena e fanno salire al Colle un magnaccia di minorenni, condannato o prescritto per evasione di miliardi, compravendita di eletti e corruzione di giudici e (prossimamente) di testimoni.

Ma –si dirà– è una fase e poi il Pd, rinvigorito dal congresso e optando alfine fra il sonnifero Epifani e il pimpante Renzi si lancerà verso il futuro e staccherà la spina alle larghe intese. C’è pure una sinistra al suo interno, cui Sel fa l’occhiolino. Anche in questo caso, ci si illude del beneficio del tempo, sugli effetti mirabolanti del rimando nel futuro.

Meglio che non stacchino la spina, a leggere le considerazioni strategiche che Stefano Fassina oppone agli arzigogoli di Asor Rosa sul «Manifesto» del 26 giugno. Esordisce negando sfacciatamente trattarsi di una situazione di necessità e spacciandola invece “sfida”, poi perfeziona il machiavello spiegando che «il governo Letta non è al di sopra delle parti. È di due parti, alternative, temporaneamente insieme al governo», insomma, essendo un guazzabuglio, non è l’ennesima versione dell’interesse generale. Siccome è talmente inutile da non poter pretendere di essere una soluzione tecnica oggettiva, è…un superamento del governo Monti e «riapre la dialettica politica», la rende di nuovo visibile «dopo il mascheramento tecnico, super partes, dell’impianto liberista tentato nella stagione montiana». Insomma, siccome non solo ci siamo arresi al mercato, ma anche andiamo a cena con il più spregevole esponente del mercato (quello a cui i veri padroni manco si abbassano a telefonare), allora siamo di nuovo alternativi. Poi c’è la dialettica, che Hegel neppure è degno di allacciargli le scarpe, al Fassina: «identità alternativa al berlusconismo, non anti-berlusconiana». E, con una chiamata in correità di Tronti (cui consiglierei di non essere grato), difende il principio di rappresentanza, purché «rappresentanza di una parte… dei lavoratori dipendenti e precari, lavoratori autonomi, professionisti e imprenditori. Non un interclassismo de-vertebrato. Ma un progetto politico di interessi diversi orientati verso la rigenerazione europea della civiltà del lavoro», per superare «lo smarrimento antropologico denunciato dalla dottrina sociale della Chiesa» recuperando il senso del lavoro per la dignità della persona e per la costruzione della comunità». Invece di posti di lavoro, possibilmente più stabili e meglio pagati, tanta etica del lavoro, «quindi, un neo-umanesimo laburista come orizzonte del progetto politico». E qui siamo solidali con il vecchio filosofo nazista che, al sentir parlare di umanesimo, metteva mano alla rivoltella.

Se si vanno a vedere le ultime misure adottate dal Governo per l’occupazione giovanile (con grande rullare di tamburi sui presunti successi europei), constatiamo trattarsi di una distribuzione a pioggia di pochi spiccioli stornati da capitoli di bilancio analoghi o raschiati dal sistema fiscale (anticipazioni, sigarette elettroniche, ecc. –una partita di giro, in sostanza, per di più su fondi europei mica denaro fresco. Molto poco per incentivare con la decontribuzione contratti a tempo indeterminato, tanto più che nel medesimo tempo sono stati resi più appetibili con intervalli ravvicinati i meccanismi di contratto a termine, peggiorando perfino la legge Fornero nel senso di una maggiore flessibilità. Lo scetticismo sugli effetti è largamente diffuso perfino sulla stampa economica più favorevole, allarmata inoltre da un presumibile buco derivati proveniente dal passato. Per il resto –dall’Iva, all’Imu agli F-35, rinvii a non finire, magari a una manovra autunnale correttiva che definisca anche l’iceberg della nuova tassa sui rifiuti, la Tares, contro cui corre allegro il Titanic delle larghe intese.

Tutto palude, allora? Gli equilibri governativi, certo, e le dinamiche congressuali del Pd intorno alla resistibile ascesa di Renzi, pure. Ma ci sono più cose in cielo e in terra, e perfino tra le forze politiche e in Parlamento, di quanto non ne sogni la filosofia. Ci sono nuovi deputati e senatori insofferenti alla disciplina dei patiti di “sinistra” e del M5s, sopratutto allo schiacciamento del Pd su Napolitano-Epifani e del M5s sulla cupola Grillo-Casaleggio. I movimenti non sono morti e danno segni discontinui di risveglio dopo il consueto torpore elettorale. Cresce una tensione perfino fra sindacato e governo, stante il blocco retributivo e occupazionale sul doppio versante nazionale e aziendale. Non un movimento generale, piuttosto (per ora) una moltiplicazione di iniziative singole e di obbiettivi limitati (single issues). Ma abbiamo visto cosa può venire dalla protesta contro le spese folli degli stadi o il taglio degli alberi e può darsi che ciò si verifichi non solo in presenza di ceti medi emergenti e frustrati, ma anche di situazione di declassamento e precarizzazione nella fase stagnante del ciclo. Per ora è soltanto un’ipotesi, contro cui gioca il logoramento delle attese indefinite e della depressione che si autoalimenta.