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OPINIONI

Identità, differenze, assemblaggi. Cosa resta escluso dal dibattito sul politicamente corretto

Una società ideale fondata sui principi della identity politics, oltre che essere fondata sull’incomunicabilità, sarebbe una società data dall’insieme di gruppi isolati la cui identità non può mai modificare il sistema di relazioni in cui è inserita. Una società che non tollera il desiderio, il conflitto, l’immaginazione, l’intimità

Sulla questione della traduzione delle poesie di Amanda Gorman è stato già detto moltissimo. L’impressione è che si sia detto persino troppo, non perché il tema sia noioso, o perché la polemica sia nata e si sia consumata sui social, ma perché l’affermazione secondo cui una persona bianca non può tradurre una donna di colore – e più nello specifico, testi che toccano la questione razziale – ha, per molti versi, costretto molti altri a dire tutto quello che questa frase non dice. Contiene nella sua semplicità più livelli e una fallacia. E ha dunque costretto traduttori e traduttrici, scrittori e scrittrici, a un dibattito dispendioso in cui si è trattato in sostanza di dimostrare che il soggetto di questa frase non è propriamente la traduzione.

L’ha fatto in maniera chirurgicamente esatta Martina Testa. L’ha fatto Francesco Pacifico e altri ancora. Nominando ciò che in questa frase manca – un sistema più ampio di rapporti che in questo caso si chiama editoria, a sua volta intrecciato con rapporti più ampi che si chiamano dinamiche di razzializzazione, all’interno di un sistema ancora più ampio che si chiama capitalismo, il tutto situato, ossia provvisto di un’origine, che sono gli Stati Uniti d’America.

 

La frase è una tipica espressione di ciò che ormai comunemente viene chiamata identity politics – con un significato diverso da quello che aveva in origine. Che ha, come in molti altri esempi, il difetto – da cui la fatica – di togliere ciò che pone.

 

Frasi come queste finiscono per silenziare il problema che denunciano. Tesi del genere tendono infatti a porre questioni vere in maniera fallace, finendo per porre questioni finte in maniera apparentemente corretta. Entrare nel merito di simili affermazioni comporta un grandissimo dispendio di energia – mancando l’argomentazione è sempre il bersaglio a doversene fare carico.

 

Amanda Gorman (foto di Ted Talk da Flickr)

 

Sulla scorta dell’intervista a Martina Testa, è possibile dire che frasi del genere fanno qualcosa di paradossale, nella loro confusione linguistica. Nominano soluzioni senza mai nominare il problema – sembra basti sostituire un traducente, un individuo con un altro, per risolvere un problema che è sistemico. L’assenza di editori neri nell’industria statunitense – nota Pacifico – avrà pure delle cause. Dire che basta fare in modo che ci siano editori neri nell’editoria statunitense per ovviare al fatto che non ci sono editori neri nell’editoria statunitense è tautologico e nella realtà non porta da nessuna parte.

 

L’affermazione in questione semplicemente non nomina le strutture di potere che articolano i rapporti tra individui – e chiama per questo in causa singoli individui. È curioso che una frase del genere si sia andata a incagliare nella traduzione.

 

Si dirà che il punto è un altro, che il punto è non ricadere in quella trama che per secoli ha visto l’uomo bianco silenziare, appropriare e parlare per. Eppure chiunque abbia anche solo una vaghissima idea di cosa significhi tradurre sa che si tratta di una pratica la cui essenza, per così dire, è proprio la disparità. Si traduce sempre da una posizione di minorità nei confronti di un testo e di una cultura altra, cercando di restituire un sentire a parole in una lingua a cui viene chiesto di piegarsi per dirne un’altra.

Dunque non è solo errata, l’idea di traduzione di questa frase è paradossale: è un po’ come chiedere a un traduttore di tradurre se stesso. Dire che si può tradurre solo ciò di cui si ha fatto esperienza – la spiegazione offerta dalla giornalista che ha criticato la scelta fatta dalla casa editrice olandese quando ha puntualizzato che non si trattava meramente della questione razziale – è un po’ come dire che un attore può interpretate solo ciò che ha vissuto di persona. E che dunque intende l’identità e la sua controparte, la differenza, in maniera molto letterale, cioè senza l’idea che la differenza possa essere qualcosa di generativo.

 

 

Linguaggio e capitale

Le interpretazioni letterali, oltre a essere noiose, hanno il grande difetto di limitarsi a nominare sempre e solo l’esistente. Bateson, che articola un concetto che dobbiamo a Saussure – l’idea di identità non positiva ma differenziale –, fa un esempio che spiega il funzionamento del linguaggio all’interno di un sistema più vasto che sono le relazioni.

 

Per Saussure nella lingua non ci sono che differenze – differenze senza termini positivi. Nulla può significare isolatamente. Bateson elabora questa idea, usando un gatto – che non parla. Un gatto che morde per gioco comunica “questo morso non è un morso”.

 

Quindi un essere umano che dice “buongiorno” con un tono di voce arrabbiato non sta dando il buongiorno. Persone che si provocano a vicenda dolore possono trarne piacere erotico. Secondo Bateson sistemi di comunicazione complessi, strutturati su messaggi disposti su vari livelli, sono alla base di fenomeni come l’ironia, il gioco, l’arte – e la società tutta.

Una società che ha bisogno di adottare le stesse regole che sono state elaborate dalle comunità Bdsm – per fare in modo che ci sia certezza riguardo alla meta-comunicazione all’interno di un contesto in cui il dolore è causato per provocare piacere – ha a sua volta qualcosa di estremo. Ha in altre parole bisogno della certezza che non tutta la comunicazione che usa sia reale. Una società – quella statunitense – che ha bisogno di dotarsi della regola del consenso esplicito nel caso di incontri sessuali tra persone postula un livello molto alto di insicurezza e fa pensare che i normali canali di comunicazione e di comprensione reciproca si siano rotti. Se in ambito giuridico il concetto di consenso rappresenta una conquista molto importante, il fatto che una conquista in ambito legale si traduca in una vittoria sul piano sociale è problematico.

 

(foto di Steve Jurvetson da Flickr)

 

Una società che generalizza una regola che si applica in un settore specifico in cui questa si rende necessaria ha generalizzato anche un bisogno che potremmo definire prescrittivo. E una società prescrittiva – qualcosa che somiglia molto a alle società che in ambito antropologico si chiamano fredde – è una società che non tollera l’assenza, quello che banalmente potremmo chiamare il non detto di una comunicazione, che tuttavia generalmente capiamo – spesso, per inciso, con il corpo.

 

C’è un’altra spiegazione alla regola del consenso: la società statunitense è sostanzialmente una società di consumatori e il modello importato anche nell’intimità è sostanzialmente contrattuale: stabiliamo a priori ciò che ci piace. Che va benissimo se uno già sa ciò che piace.

 

Perché l’idea che l’incontro con una persona sconosciuta possa essere il mezzo di esplorazione di qualcosa di sconosciuto di sé è chiaramente eliminata a priori. L’idea che l’altro possa essere ciò che provoca un incontro con una parte di sé che evidentemente non si possiede – in una logica appunto possessoria – è eliminata a priori. Dover nominare ciò che piace per evitare che si incorra in rapporti spiacevoli dimentica di nominare un problema più vasto. Sapere ciò che si vuole prima di provarlo infatti non ripara ciò che manca, che è in questo caso la possibilità che ci sia fiducia.

Il messaggio implicito e non detto che si costruisce nel momento in cui si fa del consenso una regola è che i rapporti tutti sono dei potenziali abusi. Viene da domandare se assieme alla soluzione di un problema – che confonde le sue conseguenze con le cause – non si stia anche promulgando una visione del mondo, una sorta di profezia che si autoavvera. In questo caso la favola dell’individuo autonomo e padrone di sé, dunque competitivo, aggressivo e predatorio. Se si elimina l’analisi del funzionamento concreto del sistema di potere che genera marginalità ed esclusione – il sistema di relazioni che influisce sui processi di soggettivazione di tutti gli individui, non solo di persone emarginate ed escluse – si finisce con una nozione molto astratta di potere.

Stessa cosa vale per la violenza, che in questo caso fa di ogni individuo – di ogni classe e di ogni categoria, di “tutti i maschi bianchi”, per esempio – un portatore sano di violenza.

 

Nell’assenza, chiaramente, anche della sua controparte, la capacità di parlare a partire da sé che renda sensato il piano individuale. In assenza della quale ogni individuo non è che un rappresentante degno del suo genere, o della sua classe.

 

È una visione che pone l’onere del sistema sui singoli – senza indagare i nessi tra singoli e piano sistemico – e che finisce per fare delle lotte una questione “comportamentale”.

 

 

Le utopie del comportamento

L’esempio del consenso è utile: perché si tratta di una regola. E le regole, il loro essere sempre valide a priori, servono a ovviare all’incertezza, o a qualcosa che si è rotto e che difficilmente si riesce a ricomporre. Per semplificare, servono all’assenza di relazioni. In una società come la nostra è la legge che dovrebbe servire a riparare ciò che non funziona, ma solo nelle società utopiche, e quindi distopiche, la legge serve a costruire la normalità. Nelle società utopiche la legge è talmente pervasiva da non servire. Il comportamento di tutti i cittadini è in sé già legale – è identico alla norma, non devia, non produce scarti, non produce differenze.

 

Ciò di cui tutte le utopie hanno paura, come tutti i regimi totalitari, è l’incontro tra piani logici diversi che producono differenze. Certamente nessun regno utopico tollererebbe che si ricavasse piacere dal dolore.

 

Difficilmente potrebbe concepire qualcosa come la nostalgia per qualcosa che non c’è mai stato, o l’amore per ciò che nuoce. Cose di cui si occupa la letteratura, l’arte, e la censura. La categorizzazione, la compartimentalizzazione, sono dispositivi moderni per lo stesso fine. In questo senso è lecito chiedersi se il punto debole del capitalismo, la nostra utopia in costruzione, non sia proprio l’incontro di categorie che da sole, isolatamente, non producono nulla.

 

(“A Canadian Gun Pit” di Wyndham Lewis da commons.wikimedia.org)

 

Una società ideale fondata sui principi della identity politics, oltre che essere fondata sull’incomunicabilità, sarebbe una società data dall’insieme di gruppi isolati la cui identità non può mai modificare il sistema di relazioni in cui è inserita. Non è molto difficile da immaginare dal momento che non si tratta di altro che dello sviluppo naturale dell’affermazione secondo cui la società non esiste, esistono solo gli individui. Sarebbe una società molto letterale, in cui ci sarebbe bisogno di esplicitare tutto, dal momento che non esisterebbe la possibilità di formulare meta-messaggi, mancando il contesto più largo, sociale, in cui scambiarsi messaggi.

 

Soprattutto, una società del genere non sarebbe in grado di tollerare l’assenza, o di immaginarla – infatti il capitalismo realista si tiene sull’identità tra il reale e il possibile. Questo significa che non sarebbe in grado di tollerare il desiderio, il conflitto, l’immaginazione, l’ironia, l’ambiguità, la fiducia, l’intimità.

 

Che l’identity politics sia una trappola – o che sia un’istanza giusta intrappolata – lo si capisce guardando Amazon – nello specifico, l’editoria su Amazon. La produzione costante di categorie esistenziali o identitarie serve alla creazione di categorie di consumatori: l’invenzione di profili serve a vendere. In quella che è a tutti gli effetti una ghettizzazione delle soggettività – generi che tra loro non si toccano – è molto facile scambiare ciò che piace con ciò che si è. Sappiamo anche, dagli studi che sono stati fatti sulle piattaforme in generale, che il profiling – oltre a essere una pratica poliziesca – serva ad anticipare, a creare, bisogni e comportamenti che solo il mercato soddisfa. A patto che i generi non si intersechino, perché Amazon, per dire, non sarebbe in grado di anticipare una soggettività che non si lasciasse includere in maniera abbastanza ordinata nella sottocategoria creata appositamente, personalizzata.

 

 

Appropriarsi di appropriazioni

I rapporti tra le politiche identitarie e il mercato sono complessi, nel senso che è difficile risalire a chi ha fatto cosa prima. C’è certamente in atto una dinamica di appropriazione, il punto è che si è già giunti al punto di non capire chi appropria cosa. Fatto sta che improvvisamente, pare, l’interlocutore delle lotte sia diventato il mainstream. In un cortocircuito per cui, pare, ciò che conta è come ci rappresenta Netflix. È chiaramente in atto un meccanismo di anticipazione delle istanze da parte delle grandi aziende, le piattaforme, le multinazionali.

 

Ci è stato ricordato in queste settimane come alla base dei processi di sostituzione di un sistema inclusivo basato sul lavoro e i diritti ci sia molto spesso un progetto di capitalizzazione delle “risorse umane” che, non a caso, si struttura sull’inclusione differenziale – “diversity management” – uno strumento nato con buone intenzioni, usato poi per includere donne, omosessuali, neri, al fine di incrementare il fatturato annuo di un’azienda.

 

In questo senso l’espressione “appropriazione culturale” non ha alcun senso se si tralascia l’analisi dai meccanismi culturali: non sono mai singoli individui ad appropriare culture, sono eserciti, gruppi industriali, eccetera. Lo stesso può dirsi dell’appropriazione discorsiva che serve uno scopo ulteriore oltre a quello meramente commerciale, che è la pacificazione sociale, ottenuta per via di una sorta di produzione di consenso preventivo. Sono meccanismi abili che nominano questioni reali – le diseguaglianze, il razzismo, il sessismo – svuotandole di conflitto.

 

(foto di GoToVan da Flickr)

 

I movimenti farebbero bene a tenere conto di questi processi in atto. Dire che il problema del capitalismo è una questione di presenza significa dire che ha senso fino a un certo punto attaccare per imitazione, per corrispondenza. Far saltare la logica della categorizzazione pacificante – una forma di inclusione che predetermina spazi, che tiene in piedi il sistema elargendo porzioni di partecipazione che possono essere controllati – dovrebbe significare lavorare al sovvertimento dei meccanismi della prevedibilità, della produzione di soggettività da mettere a valore, non sui contenuti identitari da portare al tavolo di chi detiene le regole della distribuzione.

 

C’è bisogno di un aggiornamento, nella misura in cui a essere saltati, in realtà grazie alle lotte, probabilmente in primo luogo grazie a Black LivesMatter, sono gli equilibri tra produzione e riconoscimento: c’è da chiedersi se il fatto che oggi Netflix ci rappresenti per quello che siamo – con tutta la diversità reale che compone le nostre società, dunque soggettività non binarie, non bianche, non conformi e via dicendo – sia un riflesso di cambiamenti in atto o l’anticipazione di cambiamenti da capitalizzare.

 

Un’idea molto confusa di riconoscimento – che domanda inclusione al soggetto sbagliato – finisce per darsi in termini di rispecchiamento: pare a tratti che l’agenda della discussione politica venga dettata dal mainstream, da Hollywood, e in generale dalla produzione di immagini – più difficilmente di parole – in cui diventa molto facile intravedere una conquista anziché uno svuotamento.

 

 

Una visibilità sbagliata

Farlo con la letteratura è più difficile – le parole si muovono in maniera diversa rispetto alle immagini, difficilmente si lasciano fissare, come una foto in cui riconoscersi – a meno che non siano slogan, o claim. Eppure questa ondata ci dice che è il turno della parola parlata e scritta. Mentre si discute, fintamente, di poesia, è arrivato il turno di Nabokov – Lolita. E di articoli che mettevano in fila tutti i protagonisti maschili negativi della storia della letteratura. Da Cime Tempestose ad American Psycho. Come se uno dei compiti della letteratura non fosse quello di farci avvicinare al male. Persino la letteratura, dove diventa molto difficile stabilire se effettivamente è possibile parlare di una “funzione” – è ora investita da quell’approccio che vorrebbe ripulire il mondo dal male, a partire non dalle cause ma dai luoghi della sua visibilità.

 

È un assunto molto ingenuo quello secondo cui il piano della visibilità intratterrebbe rapporti diretti con i processi sociali di invisibilizzazione. L’idea di visibilità delle politiche identitarie è, di nuovo, molto letterale.

 

L’eliminazione della dimensione discorsiva dalle pratiche porta a una sorta di sopravvalutazione collettiva del potere delle immagini. E si traduce in prodotti in cui il rapporto tra la capacità delle immagini di rispecchiare e la loro capacità di generare è ambigua: ora sono le immagini a riconoscere noi. Le dinamiche di inclusione sono affidate a Netflix, a un’industria culturale improntata a una strana idea di vero. Di contro, in questo rapporto ambivalente con il mainstream, sembrerebbe che la rappresentazione fedele, dettagliata e minuziosa delle nostre vite abbia acquisito un valore politico. È la poetica del verismo basic, direbbe Walter Siti.

E la sua domanda – se per essere credibili in ambito letterario non sia diventato necessario imitare la rappresentazione della realtà piuttosto che la realtà stessa, dal momento che l’immagine mediatica e spettacolare si è a tal punto impossessata del nostro cervello – potrebbe essere in questo senso aggiornata. Forse le politiche identitarie non sono altro che lo sforzo di credere a se stessi, in un’imitazione ricorsiva tesa a fissare il vero della propria identità.

 

È un vero ottenuto per via sottrattiva, comportamentale – alcune cose non si dicono, altre non si fanno, altre ancora si cancellano – a cui ci si adegua, nel senso di copiare, nella produzione di una soggettività che sia il più possibile fedele e identica a se stessa.

 

Questo realismo fallace – direbbe Siti – produce tipi, stereotipi, prototipi. La proliferazione di categorie identitarie serve banalmente a supplire alla mancanza di reali meccanismi di inclusione – negli Stati Uniti d’America serve a supplire alla mancanza di un’idea funzionale di società. In cui il pubblico sia il contenitore che struttura uguaglianze sostanziali, almeno questo il suo compito, in cui le differenze possono coesistere anziché competere.

 

(immagine di Lorenz Seidler da Flickr)

 

Di frasi come «un traducente bianco non può tradurre una poeta nera» ce ne sono molte e ce ne saranno molte. Bisognerebbe innanzitutto rifiutare la qualità fintamente astratta di asserzioni del genere – questa logica ha una provenienza: gli Stati Uniti, spesso le sue accademie, le sue università private. Da cui importiamo istanze in una maniera che paradossalmente non legge questa ricezione acritica nei termini di quella stessa colonizzazione che queste asserzioni denunciano. Un esempio di ricezione acritica potrebbe essere per esempio l’adattamento superficiale del discorso sulla razzializzazione che in Italia finisce per invisibilizzare quanti non rientrano nella categoria di “persona con la pelle molto scura”.

 

Le ondate migratorie italiane hanno molte provenienze che difficilmente si lasciano ridurre a immagine spendibile nei media. In secondo luogo bisognerebbe distinguere le pratiche di sinistra da quelle che non lo sono – e che probabilmente non sono neanche pratiche –; stare in guardia contro le appropriazioni generate da dinamiche specifiche che caratterizzano gli Stati Uniti – non il resto del mondo.

 

Di recente su Twitter hanno fatto coming out quanti si definiscono Map, Minor attracted person, persone adulte sessualmente attratte da minori. La loro è una bandiera arcobaleno, molto simile a quella Lgbtq, solo più sbiadita. Se sia un rebranding della pedofilia è una questione aperta. A ogni modo il “movimento Map” sta chiaramente imitando, per legittimarsi, un altro movimento, che ha ben altra storia. E nel farlo risignifica la stessa idea di discriminazione a suo favore – la discriminazione basata sul genere o sugli orientamenti sessuali non è altro che una questione di “gusti personali”.

 

 

Le politiche identitarie sono di sinistra?

Sono esempi di questioni complesse – e faticose – che intrecciano problemi reali con soluzioni finte, o soluzioni giuste per problemi inesistenti. A volte in maniera inscindibile. Diventa legittimo chiedersi: è davvero di vitale importanza partecipare a tutte queste discussioni? Sono tutte indicative di qualcosa? E se lo sono, di cosa?

 

L’identitarismo delle politiche identitarie supplisce a qualcosa che renderebbe le nostre identità libere di non dover essere strumentalizzate ai fini dell’inclusione sociale. Se non si tiene a mente il progetto più ampio l’identità diventa il fine che dimentica il contesto.

 

A questo riguardo sarebbe utile ritornare a leggere David Foster Wallace, lo scrittore che forse manca di più oggi, che metteva in guardia, in questo senso, contro il politicamente corretto: ogni linguaggio significa qualcosa e significa anche se stesso, e soprattutto significa chi lo usa. Il linguaggio politicamente corretto, che scambia parole senza scambiare cose, ha il difetto di occuparsi più del parlante che di ciò di cui parla.

 

Ilya Kabakov (da commons.wikimedia.org)

 

La «sostituzione orwelliana degli eufemismi dell’uguaglianza sociale al posto dell’effettiva uguaglianza sociale» non serve. Una lingua che si limita a «segnalare e congratulare le virtù del parlante» non serve. Il confine è sempre ambiguo, funziona solo se è una pratica, non se accomoda.

 

Le parole che non sono anche pratiche – le parole senza corpo, le parole prive di relazioni, quelle amplificate dai social – fanno sempre in modo che della frase si perda il soggetto. Non rimangono che pose vuote di contenuto, toni – di scontro, polemica, di faida.

 

Da questo linguaggio bisogna stare in guardia. Ora, in questa frase in particolare, che legava in maniera ideologica la poesia al colore della pelle, si è fatto ordine, un ordine che ha rivelato un soggetto reale e una domanda che bisognerà porsi: chi stabilisce l’ordine del discorso? Chi imposta le discussioni – i movimenti o i social? Le lotte o Netflix? Bisogna aprire un ragionamento su questo a sinistra – le destre lo stanno già facendo, con il loro solito piglio reazionario. Senza, si rimarrà impantanati in una terra di mezzo che separa opzioni che sono entrambe sbagliate. Non sempre si potrà contare su traduttrici e traduttori, persone che hanno fatto del linguaggio e delle sue trappole il loro mestiere.

 

Immagine di copertina: “Nowe formy wmalarstwie” di Stanisław Ignacy Witkiewicz da commons.wikimedia.org