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I lunghi anni ’70 dell’autonomia meridionale

Una riflessione su e a partire dai tre volumi della serie sugli autonomi di Derive Approdi dedicati all’autonomia operaia nel sud d’Italia (a cura di Antonio Bove e Francesco Festa). Sottosviluppo, disoccupazione e ciò che resta di questi movimenti in quelli di oggi.

«andare al nord per fare lo sviluppo. Perché a loro sù gli serviva il nostro sottosviluppo per farlo. Chi ha fatto lo sviluppo del nord tutto lo sviluppo dell’Italia e dell’Europa? Noi lo abbiamo fatto, noi braccianti del sud. Come fossero una cosa diversa gli operai del nord e i braccianti del sud. Altro che sottoproletariato. Perché siamo noi che siamo gli operai del nord»

Nanni Balestrini, Vogliamo tutto

Ritornare a Sud, ieri come oggi, significa ripercorrere le strade di un esodo dalle strane ritmiche accomunate tutte dall’esigenza di partire da un luogo assegnato a una storia marginale. Molti sono stati gli sguardi che hanno legittimato questo ruolo di serie B, dalle categorie accademiche del familismo amorale alle categorie giornalistiche degli sfaticati del divano; pochi sono stati gli sforzi ad andare ai resti della storia recuperando fonti, archivi e testimonianze. Nei tre volumi di recente uscita per Derive Approdi (Gli autonomi vol.10 L’autonomia operaia meridionale. Parte primaGli autonomi vol.11 . L’autonomia operaia meridionale. Napoli e la Campania. Parte secondaGli autonomi, vol.12. L’autonomia operaia meridionale. Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia. Terza parte, tutti e tre a cura di Antonio Bove e Francesco Antonio Festa) lo sforzo tende a compiersi riconoscendo l’alterità di un’autonomia con la “a” minuscola perché esistenziale, diffusa e connotata dalla difficoltà di farsi organizzazione, identificabile quasi come una postura maturata nella propria storia di resistenza al comando capitalistico e statuale. Nelle pieghe di queste storie si dànno fenomeni contraddittori con le vicende che hanno attraversato l’Autonomia operaia organizzata – presente tra Roma e il centro-nord –, infatti, non può essere altrimenti per due movimenti di massa che si danno nei due tempi del modo di produzione capitalistico: sviluppo (al centro-nord), sottosviluppo (al Sud e nelle isole); e infine lo Stato come sintesi atta a garantire il dispiegarsi della produzione del massimo valore tramite l’esercizio del governo di sviluppo e sottosviluppo.

I volumi restituiscono l’eterogeneità politica del Sud Italia ricostruendo i processi di ricomposizione politica autonoma del proletariato dentro il governo dello sviluppo attraverso lo strumento del “piano” Cassa per il mezzogiorno e l’emergenza dell’attacco al reddito ed indiretto nell’assenza del welfare. Per questo, all’interno della raccolta gli interventi sulle lotte ai margini della produzione sono prevalenti per qualità politica e centralità del proletariato esterno alla fabbrica – invece centrali nella narrazione del sindacalismo confederale e del PCI – mentre gli interventi legati al lavoro degli autonomi meridionali restituiscono un crescente disaffezionamento alla fabbrica connotato da crescente rifiuto del lavoro e della nocività della produzione, che si legano immediatamente alle lotte proletarie su reddito, casa e welfare. 

Ai curatori della trilogia, Francesco Antonio Festa e Antonio Bove, va il merito della ricostruzione delle storie dell’autonomia meridionale attraverso una minuziosa ricerca delle fonti, l’uso di interventi di quadro storico-politico e la voce degli autonomi. I contributi di questi ultimi interrogano il metodo con cui si è dato antagonismo sociale a Sud dentro le linee del comando capitalista sullo sviluppo e nella formazione dell’operaio sociale; stimolano la ricerca militante sulla costruzione di una narrazione di territori e di un immaginario che non abbisogna di accettare il ricatto salute – lavoro, emigrazione – disoccupazione. 

Prima dell’autonomia partenopea. 1969 – 1973

L’autonomia partenopea si muove ai margini delle lotte operaie che hanno connotato il periodo che va dal 1969 al 1973 – con le rivolte di Castellammare di Stabia e di Acerra – o al proprio interno nei Poli di sviluppo – territori all’interno del quale sono concentrati stabilimenti industriali e investimenti della Cassa per il mezzogiorno. Il salto di qualità dell’autonomia meridionale si ha a partire dal 1973, quando il combinato disposto di crisi capitalistica globale, inflazione ed epidemia del colera a Napoli, vanno a colpire in modo significativo la già precaria economia meridionale. Allo stesso tempo il ruolo dei gruppi della sinistra extraparlamentare è marginalea Sud – fatta eccezione per l’intervento di Lotta Continua con Mo’ che il tempo si avvicina, formazioni marxiste-leniniste come i Gruppi Lenin e formazioni di stampo maoista come Servire il popolo – mentre le forme di autorganizzazione e le prassi autonome si dànno spontaneamente. In quest’azione di ristrutturazione capitalistica, produttiva e territoriale si inserisce anche il movimento imprevisto delle migrazioni di ritorno degli ex emigranti partiti con la valigia di cartone durante il periodo dello sviluppo economico – solo nel 1972 circa 28mila operai licenziati dalle industrie tedesche fanno ritorno in Italia – che costituirono uno dei fattori di disgregazione politica più significativi per il proletariato meridionale: «andarsene è si negare la propria forza-lavoro al padrone, ma è anche negare se stessi a una possibile organizzazione politica, è affermare la propria disperazione nella possibilità di costruire una forza politica proletaria efficace. […] Chi emigra sono i possibili quadri politici, i giovani dotati di iniziativa e coraggio. Chi resta sono i vecchi, sono gli sconfitti, i rassegnati o i ruffiani dei padroni» (Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, Stato e sottosviluppo, Feltrinelli, 1972). 

Questi si aggiungono a 140mila disoccupati e circa 40mila operai in cassa integrazione nella provincia di Napoli per mancanza di commesse, oltre 35mila operai della piccola industria sono espulsi dalla fabbrica a causa di ridimensionamenti e delocalizzazioni – Angus, GIE a Giugliano in Campania e Merrel costituiscono tre esempi eclatanti.  Così, viene «smentita la convinzione – diffusa in modo capillare – che un aumento degli investimenti, soprattutto industriali, avrebbe determinato una riduzione della disoccupazione e dell’emigrazione»), data dal reiterato uso della minaccia della smobilitazione industriale per ricevere ulteriore sovvenzionamento statale senza che siano date garanzie da parte delle imprese e allo stesso tempo viene meno la determinazione del sottoproletariato usata dal sindacato per «spiegare avvenimenti, nel mezzogiorno, di un certo peso politico che non fossero riconducibili agli schemi tradizionali dei rapporti tra capitalisti e proletari» (Giovanni Mottura, Mezzogiorno e classe operaia, Coines, 1973, pp. 147-148).

È il soggetto imprevisto del disoccupato a far da catalizzatore alle mobilitazioni a Napoli all’uscita dalla crisi di inizio anni ’70, un soggetto collettivo che nasce «per non pagare i costi della crisi di Napoli, non a caso chiamata la crisi della disoccupazione; sorto ai primi tentativi come un gruppo di 20-30 persone, nella speranza di conquistare un posto di lavoro». Inizialmente le azioni sono diffuse e molto eventuali, talvolta assumono anche la forma di rivolte popolari – come nei casi di Castellammare di Stabia, Acerra e Pomigliano nel 1971, e San Giovanni a Teduccio nel 1972 – e innestano il proprio agire attorno alle campagne contro il caro-fitti e caro-vita. In questo contesto «il tessuto delle lotte [..] è ampio e attraversato da comportamenti conflittuali radicali estesi a un vasto arco sociale e il complesso lavoro di tessitura di un modello organizzativo si confronta con le esperienze che in quel momento segnano la materialità dello scontro di classe in città» (Gli autonomi, vol. X, p. 167).

«È fernuta a zizzinella» – i disoccupati si organizzano. 1974 – 1980

La prima significativa iniziativa di organizzazione dei disoccupati a Napoli si ha tra il ’74-‘76 dal comitato di quartiere San Lorenzo che assieme ai sottoccupati della zona vanno a formare il comitato dei disoccupati di Vico Cinquesanti; altri comitati si formano nei rioni attorno ad associazioni mutualistiche, gruppi della sinistra-extraparlamentare e centri di documentazione. 

I comitati vanno a ricomporre una classe lavoratrice dispiegata nel tessuto urbano, connotata da un’ampia eterogeneità soggettiva e lavorativa. In mezzo ai vicoli della metropoli non si riesce a intravedere la centralità dell’operaio massa ma emerge con largo anticipo il soggetto dell’operaio sociale nelle sue varie mansioni lavorative da sottoccupato o da proletario/sottoproletario ai margini della legalità. Nel 1974, anche i lavoratori dell’industria sommersa illegale, di fronte all’instaurarsi di un «modello imprenditoriale mafioso» iniziano ad autorganizzarsi per fronteggiare crisi, repressione e ristrutturazione in senso capitalistico del mestiere del contrabbandiere. Davanti a quest’esigenza nasce il Collettivo autonomo contrabbandieri, che annuncia una delle sue prime uscite pubbliche all’Università Federico II, con un volantino su cui si scrive: «Il contrabbando a Napoli permette a 50.000 famiglie di sopravvivere a stento. Da poco meno di un anno, oltre a chiudere i posti di lavoro, lo Stato e la Finanza hanno dichiarato guerra al contrabbando. Ci sparano addosso quando usciamo con i motoscafi blu. Il contrabbando non si tocca! Fino a quando non ci daranno un altro mezzo per vivere. Dobbiamo organizzarci ed essere uniti per difendere il nostro diritto alla vita. Riunione di tutti i contrabbandieri napoletani. Giovedì 15 alle ore 10 davanti all’Università di Scienze di via Mezzocannone 16 di fronte al Cinema Astra» (Gli autonomi, vol. X, pp. 174-175)

 L’esperienza, seppur di breve durata restituisce pezzi di un mondo entro cui si muovono centinaia di compagne e compagni che cercano di strutturare un lavoro politico dentro e contro la crisi.

Autorganizzare il collocamento. Disoccupati e liste di lotta

Il primo obiettivo del movimento è la costruzione «in autonomia [di] un collocamento alternativo» per combattere quello “ufficiale”, veste legale di ogni illegittimità e compravendita di posti lavorativi, e imporre con la lotta la propria vertenza, scontrandosi con sindacati e istituzioni» (Gli autonomi, vol. X, p. 107). Il criterio con cui si compongono le liste di lotta del collocamento alternativo è la partecipazione attiva alla mobilitazione dei disoccupati organizzati, attraverso la presenza alle assemblee, ai cortei e alle iniziative di lotta: «gli operai firmano il cartellino in fabbrica, noi firmiamo il nostro cartellino in strada» (F. Raimondino, L’irresistibile ascesa di Agostino O’ pazzo, “Inchiesta”, 22Dedalo edizioni pp. 15-24). Insieme ai comitati popolari e organizzati da militanti afferenti all’ormai disgregata area della sinistra extra-parlamentare, spuntano comitati creati ad hoc da DC e CISNAL – come la «lista 19» – per minare l’efficacia dell’azione dei disoccupati organizzati, per reindirizzare la funzione del collocamento su direttrici clientelari. Questi tentativi vengono stroncati alla base sul nascere grazie all’azione popolare, antifascista e antidemocristiana del movimento dei disoccupati, tanto che le sedi della CISL saranno spesso occupate dal movimento nel corso degli anni e quelle del MSI ripetutamente assaltate. 

L’attacco istituzionale alle richieste del movimento arriva puntuale con la riforma del collocamento – legge l285/1977 – voluta dai sindacati e dal PCI. In questo modo, le richieste dei disoccupati vengono di nuovo immesse in uno schema di parcellizzazione, accelerando l’impasse entro cui si ritrova il movimento spaccato tra fazioni vicine al PCI ­ e di conseguenza alla nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco Valenti ­­– e ancorate a una dinamica di sindacalizzazione dell’occupazione; e componenti contraddistintesi per crescenti comportamenti autonomi, raccolte attorno al comitato banchi nuovi animato dagli autonomi partenopei, d’opposizione al Governo locale e centrale, e non di meno alla politica dei sacrifici o dell’austerità operaia.

Salario garantito, salario integrale

Nel movimento c’è un filo continuo che lega le storie dei disoccupati, esemplificato nello slogan «lavoro o non lavoro vogliamo campare, salario garantito salario integrale». La questione unisce il movimento e dà ad esso una propria capacità ricompositiva nel proletariato marginale-illegale e sottoproletariato metropolitano, ed anche sulla classe operaia impiegata nell’industria. L’esigenza di intervenire sul salario indiretto è trasversale. Lo scoppio dell’epidemia di colera ha l’effetto diretto l’implementazione della stretta repressiva sui “lavoratori non dichiarati, cioè proletari che lavorano a sotto salario e senza alcuna previdenza” (Centro di coordinamento campano, Contro l’uso capitalistico del colera, 1973), l’economia del vicolo e il proletariato illegale, e l’accelerazione del tentativo di ristrutturazione territoriale del centro storico di Napoli, ovvero, il territorio in cui ha luogo la produzione di questi settori disgregati di classe. L’effetto indiretto di tale operazione è quello di implementare l’autorganizzazione popolare: partono le mobilitazioni dei disoccupati verso gli uffici del collocamento, aumenta la conflittualità diffusa contro le forze dell’ordine e soprattutto iniziano le campagne di autodifesa con «campagne popolari per le autoriduzioni di tariffe e bollette, riappropriazione di servizi e spazi sociali, requisizioni e occupazioni di case, espropri proletari e pratiche di illegalità diffusa» (Gli autonomi, vol. XI, p. 104) – tra il 1974 e il 1975 circa 70mila famiglie su 310mila si autoriducono le bollette. La richiesta quindi di un salario garantito fa da filo conduttore tra settori del proletariato e sottoproletariato napoletano, data la sua capacità di intervenire sul salario indiretto nel momento della crisi; di agganciare il discorso prodotto nelle fabbriche sul salario sganciato dalla produttività a quello prodotto nella fabbrica metropolitana, poiché «in una città nella quale il reddito ufficialmente distribuito è solo un quarto della quantità di massa monetaria realmente coinvolta nella circolazione sociale, il confine fra marginalità e sua negazione si perde» (G. Lovanco, Una città fra marginalità e integrazione, “Metropoli”, 5Cooperativa Linea di Condotta, 1981, p. 20). 

La rivendicazione del salario garantito, seppur continua nel movimento, arriva ad affrontare un salto di qualità con il mutamento della composizione sociale del movimento. Nella prima fase la prevalenza di ex-artigiani e le migrazioni di ritorno di ex-operai spesso sindacalizzati, ha portato il movimento ad avere rivendicazioni legate all’occupazione e di conseguenza il salario garantito era trattato come una rivendicazione destinata a essere provvisori. Quando invece, a partire dal 1976, muta la composizione sociale prevalente nel movimento, il discorso sul salario garantito assume una sua centralità insieme alla generalizzazione di un discorso sul rifiuto del lavoro: il nuovo disoccupato, giovane e scolarizzato, rifiuta il lavoro in quanto forma di costrizione e inizia a rivendicare salario, non cede alla frammentazione imposta con le categorie dei cantieristi e corsisti: «due anni di formazione professionale, quando nella situazione attuale bastano tre mesi di corso, altro che manodopera specializzata, è che non ci vogliono inserire nel ciclo produttivo, vogliono metterci solo chi ci pare a loro, chi sanno che è ubbidiente e non gli rompe le palle. Comunque, quello che ci devono dare è chiaro, o lavoro o salario» (L. Castellano e P. Virno, Parlano i Banchi Nuovi, “Metropoli”, 4, 1981, p. 17) L’unità del movimento viene messa alla prova dalle manovre di governo. Nel settembre 1978 vengono messi a bando prima 4mila posti con finalità essenzialmente assistenziali e successivamente vengono messi a bando circa 6mila posti da corsista davanti ad una platea complessiva di 31mila disoccupati iscritti alle liste del collocamento. Il Comitato Banchi Nuovi prende l’iniziativa politica vedendo nell’alleanza con gli operai una via d’uscita all’impasse entro cui sono costretti. La prassi entro cui si innesta quest’alleanza è quella del blocco della città attraverso blocchi continui della circolazione fino a tarda notte ed intervento attivo al fianco degli operai all’AlfaSud, sia con l’intervento all’assemblea sindacale del 6 ottobre in cui interviene anche Ingrao sia con il blocco reiterato delle merci fino al 12 ottobre. Nelle assemblee tra disoccupati e operai si registra l’ultimo grande sussulto del movimento prima di una fase di bassa che durerà fino al terremoto del novembre 1980.

O’ terremoto, 1981

Il movimento dei disoccupati napoletani, lacerato da una sostanziale diminuzione delle liste dei disoccupati a circa mille unità e da una congiuntura economica sfavorevole, avrà un ruolo politico di primo piano nell’organizzazione delle lotte sociali all’indomani del terremoto. Le spaccature all’interno della neonata UDN – Unione dei disoccupati napoletani, in cui il PCI aveva un ruolo egemone – portano alla formazione del Comitato disoccupati organizzati – 25 giugno, che assieme al Comitato banchi nuovi e ai comitati dei disoccupati in cui gli autonomi napoletani hanno un ruolo organizzativo di primo piano – Vomero, Rione Traiano, e nell’area flegrea e della cintura vesuviana – avrà uns funzione cruciale nella produzione di conflittualità dentro e oltre l’emergenza del terremoto. Nella notte del 23 novembre 1980 i danni più ingenti si contano nell’entroterra irpino, potentino e salernitano, mentre invece a Napoli le case dei quartieri bene – Posillipo e Vomero – resistono senza troppi danni, quelle dei quartieri popolari invece crollano come castelli di carta; l’80% dei danni sono ad abitazioni a uso civile, mentre per l’apparato industriale i danni sono residuali: dopo 15 giorni dal terremoto il 90% degli stabilimenti funziona a pieno regime  (P. Basso, Disoccupati e Stato: il movimento dei disoccupati organizzati a Napoli:(1975-1981), Franco Angeli, 1981). 

Davanti al terremoto la sinistra extra-parlamentare e larga parte del movimento autonomo, in particolare i comitati autonomi de I Volsci e di Radio Onda Rossa, strutturano il proprio lavoro politico in Irpinia dove le istituzioni hanno mostrato la propria criminale inefficacia. Nella prima riunione delle aree antagoniste della città, invece, Pietro Basso del Centro d’iniziativa marxista propone ai compagni di «restare nella metropoli perché dopo il terremoto naturale si sarebbe verificato un altro terremoto, quello sociale» e «rivendicò al nascente nuovo movimento dei disoccupati organizzati una possibile funzione di traino organizzativo verso il resto del proletariato urbano e chiese a tutti i militanti di unirsi in una mobilitazione che avrebbe dovuto investire la città» (Gli autonomi, vol. XI, p. 39). L’intuizione è lungimirante, poiché c’è l’esigenza di tenere insieme una eterogenea composizione del lavoro, che muovendosi tra sottoccupazione, illegalità, informalità e lavoro a domicilio riesce a tenere assieme un piano complessivo di attacco alle istituzioni locali e nazionali. Le rivendicazioni del movimento si riversano su di una piattaforma politica con parole d’ordine riguardanti ristrutturazione a carico dello Stato delle case inagibili, lavoro stabile e sicuro, salario garantito ed esenzione dalle bollette per i proletari. La piattaforma si fa immediatamente mobilitazione permanente: nei mesi successivi non si riescono a contare i cortei spontanei nel capoluogo campano e all’interno di questi non tardano a emergere comportamenti autonomi e antagonisti – come nel primo corteo post-sisma in cui una parte dei manifestanti si dirige verso autonomamente verso Piazza Garibaldi per attuare blocchi stradali dando alle fiamme dei pullman. 

L’ambizione del Comitato Banchi Nuovi e dei disoccupati del “25 giugno” di unificare il movimento inizia a darsi nelle prassi, nei cortei che nel mese di gennaio 1981 mettono a ferro e fuoco i palazzi delle istituzioni, nello iato col sindacato che perde contatto con il movimento e nelle trasferte romane contro la nuova riforma del collocamento «che non dà lavoro a chi non ce l’ha» a cui partecipano oltre 10mila disoccupati napoletani. In quest’ultimo evento, il movimento decide di occupare la sede di “Repubblica” per lanciare la propria piattaforma che verte sui punti del riconoscimento delle liste di lotta dei disoccupati organizzati, uso dei disoccupati organizzati nel lavoro di ricostruzione, riconoscimento del diritto all’abitare nel centro storico per i proletari napoletani, riduzione drastica dell’orario di lavoro e varo entro il 15 marzo dei corsi di formazione-lavoro. I disoccupati fanno una “guerra quotidiana” al governo locale e nazionale con la propria mobilitazione permanente  e per l’opposizione alla ristrutturazione territoriale, politica ed economica attuata a mezzo commissariamento cittadino e ricostruzione attraverso la legge speciale l291/1981 che servì solo a «elargire una montagna di finanziamenti a una classe imprenditrice (in maggioranza del nord Italia tra cui una consistente parte afferente al circuito della lega delle cooperative, all’epoca legata a doppio filo con il PCI) la quale appena si esaurirono i flussi finanziari dismise immediatamente la gran parte degli insediamenti produttivi disseminando il territorio di capannoni abbandonati, riversando sui conti dello stato decine di migliaia di lavoratori che reclamavano cassa integrazione e ammortizzatori sociali». Davanti a questa determinazione del movimento «il ministro del lavoro franco Foschi fu costretto [..] a precipitarsi a Napoli dove, in un Palazzo Santa Lucia assediato da migliaia e migliaia di senza lavoro sottoscrisse un accordo per l’avvio di 10mila nuovi posti di lavoro con i rappresentanti delle liste di lotta» (Gli autonomi, vol. XI, p. 46), l’ennesima promessa fatta per sedare la mobilitazione dei disoccupati organizzati. 

I conti col presente

L’esperienza di lotta prodotta dai disoccupati organizzati si è generalizzata, contaminando i collettivi autonomi meridionali con metodi e pratiche di lotta, e concentrata in un lavoro capillare e continuativo a Napoli. L’esempio di organizzazione e modalità d’intervento politico contamina i disoccupati di città come Foggia, Bari, Taranto, Palermo e Salerno; la prassi delle occupazioni e della contestazione del governo della forza-lavoro è l’elemento di uscita dallo stato di invisibilità a cui si è destinati; la contestazione della gestione capitalistica dell’intervento sociale e welfaristico pubblico come esigenza di chi a salario o non salario deve campare. A oggi la lotta dei disoccupati continua a segnare il tempo della lotta proletaria al ricatto del comando capitalistico della forza-lavoro, rivendicando salario garantito e agibilità politica; l’attacco alle misure di attenuamento della povertà come il reddito di cittadinanza nell’incedere della crisi prima pandemica e poi inflazionistica, ha prodotto l’organizzazione politica dei disoccupati organizzati in città come Palermo – dove il tasso di disoccupazione raggiunge il 15,6%.

Il lavoro dei disoccupati organizzati a Napoli continua attorno a vertenze sull’avviamento al lavoro e dei corsi professionalizzanti con la Regione Campania sotto la direzione del movimento disoccupati 7 novembre«Da più di 9 anni questo movimento, unitamente dall’estate scorsa al “Cantiere 167 Scampia”, si batte per la conquista di un lavoro stabile e sicuro. Una lotta, condotta da centinaia di “ultimi”» e si allarga alle rivendicazioni contro l’attacco al salario indiretto con il movimento contro il carovita noi non paghiamo, facendo dell’esperienza politica autonoma una cassetta degli attrezzi a cui attingere per ribaltare il piano dell’attacco capitalistico in offensiva proletaria per il miglioramento delle condizioni di vita per tutti/e. 

La foto di copertina è di Riccardo Siano, manifestazione del Coordinamento Disoccupati organizzati a Napoli (1975-1977), da Wikimedia commons. Le fotografie all’interno dell’articolo sono di Luca Mangiacotti, scattate durante il corteo del movimento dei disoccupati 7 novembre a Napoli.