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Hijas del paro: femminismo popolare in Argentina

In questa intervista, due attiviste di Ni Una Menos raccontano la genesi della nuova ondata del movimento femminista in Argentina: dalla battaglia per l’aborto legale al lancio dello sciopero, la connessione con i lavoratori dell’economia informale e la lotta contro l’indebitamento. Lucìa Cavallero è parte del Collettivo Ni Una Menos e Maisa Bascuas è attivista de La Dignidad-CTEP, sindacato dei lavoratori e lavoratrici dell’economia popolare.

Iniziamo parlando di come è andato crescendo il movimento dal 2015 ad oggi in termini di accumulazione di forza, di crescita degli strumenti organizzativi e di trasversalità

Lucìa: Nel 2015, il primo Ni Una Menos (il 3 giugno) sembra emergere come fenomeno “comunicativo”, come un hashtag di twitter che si viralizza e dà il via ad una mobilitazione massiva. Di fatto, esisteva da molti anni un lavoro sotterraneo di rete del femminismo, che in Argentina consta di due esperienze chiave in termini di organizzazione autonoma e trasversale: gli Encuentros Nacionales de Mujeres e la Campaña por el Derecho al Aborto legal, seguro y gratuito, un’articolazione trasversale nata nell’ambito degli Encuentros. Il salto del 2015 segna una massificazione del movimento a partire da un fenomeno che all’inizio è prevalentemente comunicativo. Quando si pone però il dilemma di come organizzare la manifestazione successiva, nel 2016, avviene una prima spaccatura all’interno del gruppo, tra chi vuole rimanere nell’ambito comunicativo e chi vuole adottare i metodi storici del femminismo, delle assemblee decisionali e dei cortei. Qui potremmo individuare il primo salto organizzativo. Nel 2015-2016, il Ni Una Menos si convoca tramite assemblee. Successivamente, dopo un caso di femminicidio che commuove particolarmente l’opinione pubblica (quello di Lucìa Perez, una ragazza molto giovane), si rafforza l’idea che bisogna uscire dall’indignazione virtuale. Inizia a circolare l’idea di convocare uno sciopero. In ottobre Ni Una Menos chiama un’assemblea nella sede della CTEP (Confederacion de Trabajadores de la Economia Popular) e lì avviene il secondo salto organizzativo: a quest’assemblea iniziano a sentirsi invitate compagne sindacaliste che inizialmente scindevano la loro militanza femminista da quella sindacale.

Dunque ricapitolando…nel Giugno 2016 c’è il primo Ni Una Menos; poi viene convocato lo sciopero nazionale delle donne, il 19 ottobre 2016, e l’assemblea organizzativa si svolge nella sede di un sindacato di lavoratori e lavoratrici dell’economia popolare. Quindi già c’era l’idea di legare il Ni Una Menos a uno sciopero?

Maisa: No io credo sia stato un pò inconsapevole. L’idea dello sciopero stava già circolando all’interno del movimento femminista, anche perché questo si relaziona con la congiuntura argentina dove a fine del 2015 assume il potere la destra neoliberale di Macri. Società, movimenti sociali e organizzazioni di base – di cui la CTEP stessa è articolazione – iniziano a mettere in tensione le strutture sindacali esortandole a convocare lo sciopero.

Mobilitare da una prospettiva femminista il termine “sciopero” in un paese come l’Argentina, dove il movimento operaio è storicamente molto forte, significava rivendicare la pertinenza della violenza strutturale sulle donne rispetto alla congiuntura politica. Significa dire: «Lo sciopero è necessario. Non lo fate voi? Lo facciamo nosotras (al femminile)».

Questo primo sciopero ha visto molta resistenza da parte delle strutture sindacali, anche da parte della stessa CTEP che non era informata del fatto che le assemblee di organizzazione dello sciopero femminista si stavano facendo nella sua sede. Questo per dire che è stata anche l’occasione per tessere alleanze tra compagne di diverse organizzazioni e portare uno sguardo critico dentro le organizzazioni stesse.

Lucìa: Lì iniziamo a pensare lo sciopero come parola chiave per tradurre il mondo sindacale con il femminismo, proprio a partire dall’idea di disobbedire a coloro che hanno il “monopolio” della convocazione dello sciopero. L’immobilità delle strutture sindacali di fronte all’avanzata del governo è stato il punto di partenza da cui chiederci quali fossero i motivi sufficienti per convocare uno sciopero. Questo si portava dietro tutta una ricerca rispetto a che tipo di organizzazione implica una traduzione comune degli scioperi di comunità eterogenee. A partire dal primo sciopero nazionale delle donne è iniziata una sorta di rivitalizzazione delle strutture sindacali in risposta a ciò che stava proponendo il femminismo.

Questo per ciò che concerne l’organizzazione dello sciopero del 19 ottobre 2016, processo centrato in Buenos Aires. Già in questo primo sciopero inizia a circolare l’idea di organizzare qualcosa di dimensione internazionale, anche in seguito alla richiesta delle compagne polacche che in quel momento erano impegnate in una lotta per il diritto all’aborto. Bisogna tener presente che in America Latina esistono reti costruite già da molto tempo, reti informali grazie alle quali già dal primo Ni Una Menos stavamo dialogando con diversi altri paesi. L’ idea di allargare lo sciopero cresce fino all’organizzazione il primo sciopero internazionale delle donne, che è stato l’8 marzo 2017. L’anno che seguì fu interamente dedicato alla preparazione dello sciopero del 2018, attraverso gli incontri preparatori ma anche le “assemblee situate”, vale a dire assemblee organizzate all’interno conflitti concreti che imitino la composizione trasversale delle assemblee preparatorie allo sciopero. Nel Maggio 2016, per fare un esempio, abbiamo fatto assemblea con le lavoratrici licenziate dalla multinazionale nordamericana Pepsico. Si organizzò un presidio di tende di fronte al Congresso dove se ne chiedeva la riassunzione, e noialtre proponemmo di fare uno stufato per tutte e tutti, imitando l’idea del calderone delle streghe. A questo partecipavano non solo le licenziate da Pepsico ma anche le compagne dell’economia popolare e organizzazioni di diritti umani. Nelle “assemblee situate” si era resa evidente l’idea di legare la trasversalità del femminismo alla pluralità dei conflitti sociali concreti.

Maisa: L’idea delle assemblee situate viene anche perché a un certo punto ci siamo rese conto di essere una sorta di “megafono sociale”. Avevamo toccato una corda sensibile rispetto a ciò che stava succedendo in Argentina, avevamo generato empatia, e di conseguenza avevamo molta legittimità. Quello che diceva il movimento femminista era ascoltato; e come megafono, intendevamo amplificare le altre lotte. Oltre alle licenziate di Pepsico abbiamo fatto “assemblee situate” nel conflitto Mapuche, questione molto sentita in Argentina, siamo state a Jujuy da Milagro Salas (attivista arrestata nel nord del paese). Ci siamo rese conto di avere una responsabilità politica.

Lucìa: Il fatto di mettere a disposizione, per così dire, una “diagnosi femminista” che potesse ridefinire cosa è lo sfruttamento a partire dalle differenze concrete ci ha permesso di costruire legittimità e autorevolezza nel movimento. A partire dalla nostra stessa forma di organizzazione, è evidente che non c’è un conflitto di lavoratrici dell’economia popolare che si possa risolvere senza altre forze sociali che accompagnino questa lotta.

Dopo i due scioperi internazionali è iniziato un processo di organizzazione che funziona con assemblee prima di ogni azione, però ci sono anche incontri che avvengono durante tutto l’anno per affinità, ci sono reti che esistono e funzionano nell’incontro quotidiano. Questo per dire che in ogni caso sarebbe inutile cercare di misurare il tessuto che si è formato secondo un calcolo, elettorale o di vertenze che sia.

Maisa: Sarebbe ingenuo tralasciare l’importanza strategica dell’accumulazione di forza. Provenendo da organizzazioni diverse, abbiamo chiaro che ci deve essere un’accumulazione del movimento femminista, che dobbiamo far crescere questo movimento per poter rafforzare le nostre posizioni all’interno delle nostre stesse organizzazioni e della società stessa. Mettere al primo posto la propria organizzazione e non il processo collettivo dell’organizzazione femminista, sarebbe un modo di auto-sabotarci. Certamente molte di noi sono organiche alle proprie strutture ma cerchiamo il modo di far crescere gli strumenti del femminismo perché è questa stessa crescita che ci permette di lottare all’interno delle organizzazioni.

Il processo delle assemblee è stato molto potente nella consolidazione di queste reti, e sull’empoderamiento stesso del movimento femminista: nelle assemblee che duravano un mese, verso l’organizzazione degli scioperi, si è prodotto qualcosa di nuovo e potente. Ognuna a partire dalle sue organizzazioni portava punti diversi all’agenda del femminismo, punti sui quali si lavorava e che entravano negli importanti documenti elaborati dall’assemblea. Oltre alla produzione di qualcosa di nuovo, c’è stato un processo di crescita politica molto forte. Immaginate assemblee di ottanta donne, discorsi politici su perché il femminismo deve inserire tale punto nell’agenda del femminismo, un processo non armonico ma formativo e di crescita qualitativa enorme.

Intorno al tema dell’economia popolare capita di sentire discorsi “romanticizzanti”, che vi trovano un comunitarismo autonomo dallo sfruttamento. Lo slogandesendeudas (“non indebitate”) dello sciopero femminista sembra suggerire il contrario. Cosa significa praticamente “scioperare” nell’economia popolare per una organizzazione come la CTEP?

Maisa: La CTEP è una struttura molto ampia, forte sul piano contrattuale ma anche eterogenea al suo interno. Alcuni suoi segmenti provengono dal peronismo, altri dalla sinistra clericale vicina a papa Francesco, altri ancora dalla tradizione della sinistra popolare. Questo per descrivere un campo di alleanze e scontri all’interno delle lotte dell’economia popolare stessa. Nel 2015 c’è stata la prima grande mobilitazione contro il Macrìsmo e per il riconoscimento dell’emergenza sociale, a partire dal dato che in Argentina il 40% della popolazione attiva è fuori dal mercato del lavoro formale. Facemmo pressioni per chiedere una “paritaria social”: cioè un tavolo di contrattazione con il governo (paritaria, tipicamente associata al lavoro formale) che si facesse carico di tutto il lavoro sociale, non riconosciuto e invisibilizzato. In seguito a questa lotta, dal 2016 i circa 400mila lavoratori informali in Argentina ricevono dallo Stato un sussidio che corrisponde alla metà del loro salario stimato, che noi rivendichiamo come “salario sociale complementare”.

Stiamo parlando di organizzazioni sociali che non sono “femministe” in sé, ma sono attraversate da diverse compagne che facendo rete tra loro sono riuscite a problematizzare le lotte da un “punto di vista femminista”. In particolare si è parlato di quei lavori riproduttivi che sono l’ultimo anello della catena della produzione e che tuttavia lo Stato e la società non riconoscono come “lavoro”. Se pensiamo ad esempio ai cartoneros e le cartoneras, che raccolgono la spazzatura dalle città per rivenderla al chilo, questi svolgono un servizio che lo Stato non sta pagando loro, salvo poi appaltarlo al settore privato muovendo capitali enormi. Con la crisi del 2001, la gente comune aveva iniziato a raccogliere e rivendere spazzatura spinta dalla fame, prima di darsi nel tempo una struttura organizzativa per le rivendicazioni. Successivamente si cominciò a lottare perché lo Stato pagasse i “trenes blancos” che portavano la maggior parte dei cartoneros dalla periferia (conurbano) al centro della città dove lavoravano. Questo è un esempio tra tanti, ma rende abbastanza bene il modo in cui il femminismo ha permesso di ri-mappare il mondo del lavoro che permette la vita di tutti i giorni. Per portare un altro esempio, i comedores populares (mense popolari nate dalla lotta piquetera) sono attività che noi donne stesse non consideravamo “lavoro”, ma che di fatto permettono a tantissima gente di mangiare ogni giorno. Nel “salario sociale complementare” bisognava quindi includere anche tutto il “lavoro di cura” che, almeno in Argentina, va molto al di là del “lavoro domestico” e coinvolge dal commercio alla feira, al rapporto con la tossicodipendenza nei quartieri, al semplice tenere i bambini delle donne che lavorano altrove. E non c’è nulla di romantico in questo lavoro comunitario: in ultima istanza sono queste lavoratrici che si confrontano con la microcriminalità e con la violenza. Il punto è che oggi tutte loro si riconoscono non più come “disoccupate” ma come “lavoratrici”: hanno come specchio il “lavoro formale” nel senso che chiedono diritti a partire dalla constatazione che producono valore.

Lucìa: Il tema del debito è ben lontano dall’astrazione che propone tipicamente la finanza, è piuttosto una lotta corpo a corpo. Tenete conto che i piani di aggiustamento strutturale oggi portano a un indebitamento che non riguarda solo beni come la televisione; ora la gente si indebita per poter mangiare. Inoltre, a differenza del governo precedente, si tratta di crediti elargiti a tasso variabile per cui puoi arrivare a pagare fino al 135% di interesse sul prestito. Ora nel caso di un lavoro formale, la banca ha come assicurazione l’acquistare lavoro futuro: sa che hai un impiego fisso che nel tempo le farà riavere i soldi. Nel caso del lavoro informale, non essendoci questa certezza, l’unica garanzia è poter comprare la tua disponibilità assoluta a fare qualunque cosa.

Maisa: Molte compagne per arrivare a fine del mese si prostituiscono. E non del tipo «il mio corpo è mio, scelgo i miei clienti». Parliamo di corpi esposti alla violenza. Alcune volte si chiede allo Stato di dare all’organizzazione micro-credito senza interesse e ciascun gruppo ha strategie concretamente diverse per ottenere credito dallo Stato e redistribuirlo. Chiaramente questo limita il problema dell’interesse ma non risolve il problema di fondo.

Lucìa: “Desendeudadas” è innanzi tutto un tentativo di ridefinire i termini del conflitto, capire cosa si intende per lavoro produttivo di valore e lavorare dall’interno della realtà che abbiamo materialmente di fronte.

* Intervista realizzata e pubblicata sul sito l’americalatina
Foto di Gaia Di Gioacchino