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Dopo la guerra. Ma senza aver fatto pace

Dopo la guerra di Annarita Zambrano è un film delicato e intimista sui contraccolpi familiari di un’estradizione, fra due cicli di terrorismo. Molto meglio di altre narrazioni in materia, ma perché in Italia non si può andare oltre una rappresentazione crepuscolare?

Il film di Annarita Zambrano comincia malissimo, con un’assemblea caricaturale in cui gli studenti bolognesi, fin troppo unanimi, contestano nel 2002 un giuslavorista, facilmente identificabile con Marco Biagi, che abbandona l’aula, scende lo scalone ed è freddato da un terrorista. Il gruppo di fuoco rivendica con una sigla che ne ripete una degli anni ’80. Dei due fratelli, che allora erano i leader di quella formazione armata, uno è morto in un conflitto a fuoco con la polizia, l’altro è scampato, ha ucciso il giudice che aveva condannato i compagni rifugiandosi poi in Francia sotto la protezione della dottrina Mitterand. Il sopravvissuto, Marco Lamberti (Giuseppe Battiston), si è rifatto una vita a Parigi, ha sposato una francese e, dopo la morte precoce della moglie, tira su la figlia sedicenne Viola (Charlotte Cétaire, scontrosa e bravissima), che non parla neppure italiano (infatti buona parte del film è sottotitolata).

Quando Sarkozy revoca di fatto la dottrina Mitterand fra il 2002 e il 2003, il protagonista, già sotto i riflettori per la sfortunata omonimia dei gruppi, è messo sotto pressione e a un certo punto viene raggiunto da un ordine di cattura per estradizione. Ripara nel suo primo rifugio francese in riva al mare in attesa di un passaporto farlocco e da adesso il film acquista toni sommessi e convincenti, scindendosi in due serie parallele di eventi e flussi psicologici.

La prima serie è la rottura, assai dolorosa per la figlia, con l’ambiente della scuola: la ragazza sviluppa un crescente rifiuto a seguire il padre nell’esilio in Nicaragua e si aggrappa ai ricordi, alle abitudini e agli amori adolescenziali senza voler condividere il destino del padre, il ritorno di un rimosso che non la riguarda. La seconda serie si compone degli effetti collaterali differiti di questa svolta per gli altri familiari dell’antico combattente Marco Lamberti, quelli rimasti a Bologna: la madre, che ha mantenuto segretamente per venti anni una corrispondenza con il figlio, la sorella (Borbora Bobulova, lunare), che invece ha interrotto ogni rapporto, si è sposata con un giudice e ha sempre taciuto alla figlia l’esistenza di uno zio in esilio e le relative ragioni.

Chi è meno “narrato” è proprio il protagonista, chiuso nel suo passato ora resuscitato e però impermeabile alle ragioni di chi lo circonda, che si rappresenta come soldato di una guerra sconti fra rivoluzionari e stato, una guerra che è finita con una sconfitta dei primi ma che non si vorrebbe più riaprire – di qui la ragionevole richiesta di un’amnistia generale nel colloquio con un’intervistatrice.

Tuttavia l’ingiunzione giurata a non ricordare i torti del passato, che nella Citta divisa di Nicole Loraux era la matrice formale della democrazia ateniese per esorcizzare ogni rigurgito di guerra civile, non funziona nella crisi strisciante della I Repubblica italiana e anzi è stata avvilita nelle formule coscienziali o ipocrite del «pentimento» e dell’«espiazione», con tutto il contorno di associazioni di vittime, speculazioni elettorali, perdonismo e anti-perdonismo. La sanzione giuridica dell’irriconciliabilità danneggia allora la stessa convivenza civile e non meraviglia che la non chiusura degli anni di piombo (a trent’anni di distanza!), insieme ad altre insofferenze represse, sia confluita nel grande alveo della “società del rancore” che oggi gli antichi paladini della non-trattativa lamentano aver soffocato la “politica”.

Il film, che insiste con onestà sui sentimenti offesi e lo sgomento dei co-protagonisti involontari (tutti protesi al non-ricordo, al farsi o rifarsi una vita), risente di questo blocco sociale e culturale: in Italia oggi è difficile parlare collettivamente delle vicende di quegli anni, una coltre di opacità e di vaghezza cala sui meglio intenzionati sforzi, anzi scorre sulle facce dei parenti senza mai mettere a fuoco l’autore del gesto che ha avviato il dramma. E di cui infatti ci si sbarazza con un espediente piuttosto estrinseco, quasi per evitare che lui stesso o altri facciano i conti sino in fondo. Nessun Eschilo potrà mai scrivere le Eumenidi in questo paese, in questi tempi. In Spagna – rispetto a un conflitto ben più epocale – si è fatto di meglio, certo con tempi ancora più lunghi. E, perfino negli Usa, lo spinoso quanto comparativamente marginale episodio dei Weathermen ha avuto un degno riconoscimento in romanzi e film.

Se molti critici hanno denunciato il carattere sfuggente del lavoro di Zambrano, credo che (senza tacerne i limiti) occorra piuttosto avviare un ragionamento sulle condizioni che rendono difficile trattare certi argomenti oppure ne fanno deragliare il racconto sul piano fantastico-metaforico (Bellocchio) o delle discutibili inchieste televisive che ci hanno afflitto nell’anniversario del rapimento e ritrovamento di Moro.