EUROPA

Guerra in Ucraina, lungo la frontiera. Chi parte e chi resta

DINAMOpress si trova fra Romania e Moldavia per raccontare l’esodo di persone in fuga dall’aggressione di Vladimir Putin. Tante diverse storie e prospettive personali, che conducono a scelte diverse rispetto al proprio viaggio

Le iconiche immagini delle colonne di profughi che scappano dall’Ucraina, ormai in questi giorni circolate a decine sui media, raccontano il dramma della guerra e al tempo stesso ne nascondono, forse, alcuni particolari, le pieghe più nascoste. Quello che è un esodo di massa (si calcolano oltre tre milioni in fuga dall’inizio del conflitto) è infatti composto da innumerevoli storie singole, problematiche individuali, diversità di provenienze, desideri, obiettivi.

Insomma, sia metaforicamente che dal punto di vista concreto, non tutte le persone vanno nella stessa direzione: fra Romania e Moldavia, c’è chi passa la frontiera per non sostare neanche 24 ore e proseguire subito verso altri paesi, spesso Germania, Spagna, Francia o Italia, perché lì può raggiungere un parente, un amico, un conoscente, o magari perché spera di trovare facilmente un lavoro ben retribuito; c’è chi invece si ferma nelle nazioni confinanti, a volte perché ci ha già vissuto e conosce la lingua (a Chisinau, capitale della Moldavia, i muri degli ampi centri di accoglienza ricavati nell’area delle esposizioni ed ex-centro Covid del Moldexpo o del complesso sportivo Manejul sono peraltro tappezzati da offerte di lavoro) oppure perché nutre la speranza che la guerra possa arrestarsi in fretta e desidera dunque far ritorno il prima possibile alla propria città, alla propria casa, alle proprie amicizie (magari al proprio compagno o marito, sempre che questi sia ancora vivo); c’è chi, semplicemente, non sa proprio dove andare e cosa fare, oppure ha problemi burocratici legati ai documenti; c’è chi, anche, va appunto nella direzione opposta al “grande esodo di massa” e dunque da Romania e Moldavia ritorna verso l’Ucraina.

(Andrea Tedone)

A volte, si tratta di una necessità “logistica”: ci sono persone che hanno dovuto andare e venire dalla frontiera in varie occasioni per aiutare parenti o amici a passare il confine; altre volte, si tratta di un ripensamento sulle proprie intenzioni di fuga: alcune persone sono magari scappate nei primissimi istanti del conflitto, per poi capire che quest’ultimo non si è esteso nella loro città d’origine e che, dunque, è in una certa misura “sicuro” farvi ritorno. Oppure ancora, c’è anche chi sembra non curarsi proprio di bombe e missile: «Ce ne andiamo semplicemente a casa », dicono due signore di passaggio alla frontiera di Palanca (sud della Moldavia) dopo essere state due giorni a Chisinau per far visita alla figlia incinta e ora dirette verso Odessa. «Non abbiamo nessuna paura, ce ne restiamo lì e basta».

La causa per cui si scappa è unica e comune a tutti, ma le prospettive e le modalità sono infinitamente diverse per ciascuna persona e, sotto di esse, si nascondono diversi destini e diverse visioni di ciò che sta accadendo.

Riportiamo di seguito alcune voci ucraine, raccolte soprattutto dai luoghi di frontiera moldavi e rumeni più una “a distanza” dalla capitale Kyiv, non perché debbano essere rappresentative di un “sentire” generale, ma per provare a dar conto di queste sfumature e differenze.

Viktoria

(Renato Ferrantini)

Una delle prime cose che ci chiede, in piedi di fronte a una delle postazioni per vaccini riconvertite in alloggio per rifugiati nel centro Moldexpo di Chisinau (Moldavia), è di «raccontare la verità». Perché, aggiunge decisa, «alla televisione si sentono tante bugie». La sua non è una frase retorica, ma corrisponde alla necessità di dare un senso a quello che sta succedendo, di dar ragione dello scoppio di una guerra che praticamente nessuno si aspettava così come della storia recente del suo paese. «Ma anche nel 2014 nessuno si aspettava che ci sarebbero state le sollevazioni in Donbass e l’annessione della Crimea. Io penso che sia perché non abbiamo consapevolezza, perché non capiamo che cosa sia vero e cosa no di quello che ci raccontano».

Da Mykolaev è scappata il primo marzo, facendo in tempo comunque ad assistere a tanti dei lati più cruenti del conflitto: bombe, missili e «cadaveri dei soldati russi che venivano abbandonati e cominciavano a puzzare».

La tenda alle sue spalle, più che il luogo in cui è ora ospitata, sembra lasciar intravvedere la storia della sua fuga: suo padre, con problemi respiratori, sul letto, la madre seduta che butta un occhio verso il fuori e la sorella che di tanto in tanto entra ed esce; le due nipoti piccole sono in giro per il centro di accoglienza. Viktoria si è, in qualche modo, “sobbarcata” con più viaggi la possibilità per tutti di andarsene, facendo in modo che ciascun membro della famiglia riuscisse a passare la frontiera nonostante le difficoltà.

(Andrea Tedone)

Quelle stesse difficoltà che ora la “inchiodano” a Chisinau, visto che nella loro situazione non è semplice trasferirsi a breve. Il suo compagno intanto è in Italia, dove si trovava prima dello scoppio della guerra e dove anche Viktoria. si recava sempre “per fare le stagioni” in riviera.

Solo il figlio, scappato assieme al resto della famiglia, è riuscito a proseguire e raggiungere il padre. In questo presente caotico e complesso, dunque, il futuro di Viktoria non sembra essere in Ucraina.

Ma sul futuro del suo paese un’idea, per quanto lo dica con titubanza, ce l’ha: «Oramai dobbiamo andare fino in fondo», dice sottolineando come si tratti di una sua “opinione personale”. «Il nostro paese oramai è distrutto, a cosa ci serve riaverlo in queste condizioni? Nei negoziati si parla di Donbass e Crimea, per me possono pure diventare indipendenti, ma il problema è che Putin praticamente già ce li aveva e mica si è fermato lì. Insomma, penso che dobbiamo riprenderci in mano il nostro territorio. Vogliamo giustizia».

Natalia

(Renato Ferrantini)

Direzione Italia, in Liguria dove abita da anni la sorella, senza troppi ripensamenti. Anche perché per Natalia la guerra si è presentata fin da subito in tutta la sua violenza: viveva non troppo distante dall’aeroporto di Kyiv in cui si sono verificati i primi pesanti attacchi dell’esercito russo. Tempo qualche giorno e ha deciso di prendere l’auto per guidare verso il confine, approdando alla frontiera di Mohyliv-Podil’s’kvj (che divide Moldavia e Ucraina).

«Non credevo che iniziasse tutto questo, fino a che mi ha chiamato di notte una mia amica per dirmi di aver sentito le prime bombe», ci racconta nel grande salone dell’hotel Mandachi di Suceava (Romania, a circa 50 chilometri dalla frontiera di Siret): un contesto che potrebbe sembrare quasi “surreale”, visto il forte contrasto fra l’arredamento in stile “kitsch di lusso” dell’albergo e la confusione di materassi, coperte, valigie in cui si muovono gli sfollati.

Poco dopo lo scoppio del conflitto, il proprietario della struttura ha deciso di mettere a disposizione un’ala dell’hotel per l’accoglienza dei profughi e delle profughe.

«Pensavo di non farcela, non avevo idea di come agire», prosegue nel suo racconto A. che insegna canto lirico all’Accademia di Cultura della capitale ucraina.

(Andrea Tedone)

«Già quando sono partita era difficile trovare benzina. Mi hanno aiutato alcune persone incontrate sulla strada, così come altre mi hanno dato una mano quando ho avuto problemi con la macchina nei pressi della frontiera. Tremavo mentre ero al volante. Per molto tempo c’era solo l’idea confusa di andarmene senza sapere bene cosa fare e dove andare. Prima di arrivare in Romania mi hanno ospitata in un monastero».

Ora le idee – pur nello strascico del trauma – sono più chiare e si aprono altre possibilità di viaggio: alcune realtà, come il Progetto Arca di Milano, stanno organizzando diverse corse gratuite per il nostro paese che partono proprio dal piazzale antistante l’hotel Mandachi Natalia ha dunque già un piede in Italia (anzi, nel momento in cui scriviamo ci è probabilmente già arrivata), ma tanto la lega ancora all’Ucraina in maniera concreta: molti dei suoi alunni e delle sue alunne – ci spiega – si trovano nei rifugi sotterranei della capitale sotto attacco. «Preparo quasi ogni giorno le lezioni e le spedisco affinché possano continuare a studiare», conclude. «Abbiamo anche fatto dei collegamenti ma, certo, insegnare la tecnica di canto via Internet è praticamente impossibile».

Alla

(Renato Ferrantini)

Per Alla non c’è altra meta possibile che il ritorno in Ucraina, nella sua città d’origine Vinnicya da cui è scappata nella notte fra il 6 e il 7 marzo e dove lavorava come amministratrice finanziaria di un’azienda. «Ho preso la decisione quando ho visto che le mie bambine non potevano più sopportare il suono delle sirene e l’ansia generata dalla guerra», racconta mentre le due figlie – di 8 anni l’una e di un anno e sei mesi l’altra – schiamazzano e si muovono vivaci nella piccola stanza di un appartamento di Soroca (nord-est della Moldavia, lungo le rive del fiume Nistru che qui segna il confine con l’Ucraina) dove l’anziana proprietaria di casa si è offerta di ospitarle.

Il flusso di profughi in questa cittadina, conosciuta soprattutto per una fortezza ben conservata e per una nutrita comunità rom che vive sulle alture della zona, è certamente contenuto rispetto ad altre parti del paese (al momento dovrebbero essere presenti non più di 350 persone sfollate, ci informano dal consiglio regionale che si occupa dell’accoglienza).

In prevalenza, chi arriva qui dall’Ucraina cerca di proseguire almeno verso la capitale Chisinau oppure di passare la frontiera con la Romania. Ma per alcuni, come Alla, questa non è un’opzione. Come potrebbe? «Mio marito è a Vinnicya e le bambine non fanno che chiedere di lui», ci spiega Alla. «E anche io non voglio far altro che tornare, appena la guerra finisce. Forse pure prima. Sono in contatto con chi sta ancora lì e scrivo tutti i giorni per capire com’è la situazione. Sembra che alcuni negozi stiano riaprendo, ci si abitua a quello che succede e si ritorna a vivere. Non lo so». Ma, certo, la sua condizione è “di stallo”, vista la giovane età delle figlie e l’incertezza sull’andamento del conflitto, del quale ci parla soprattutto da un punto di vista personale e umano, con grande compassione per quanto sta avvenendo alle persone che conosce e al suo popolo.

Eppure, nel momento di salutare, si alza e si “irrigidisce” in una posa quasi “marziale”. «E voi?», ci chiede. «Sostenete l’Ucraina? Non è giusto quello che ci stanno facendo».

(Renato Ferrantini)

Violeta – una testimonianza da Kyiv

«Gli eventi a cui stiamo assistendo a partire dal 24 febbraio non mi sorprendono particolarmente. Tutto questo rappresenta semplicemente una nuova fase criminale di Putin. Per quanto alcuni l’abbiano dimenticato, la guerra in Ucraina va avanti dal 2014. Fino all’ultimo ho creduto nella diplomazia, ma forse avremmo dovuto dar retta all’intelligence americana. Sembra che l’Europa abbia dimenticato sia l’esperienza di due guerre mondiali, sia il fatto che la strategia di assecondare i regimi criminali non funzioni, ma al contrario rischia di offrirgli nuove opportunità.

Ho studiato storia, ma ora lavoro in un’agenzia pubblicitaria. Quasi tutte le persone del mio ambiente si sono impegnate fin dal primo momento nella difesa nazionale o nel volontariato. Il piano principale di Putin era quello di dividere gli ucraini e l’Europa, ma il risultato è stato l’opposto. Ora, la società ucraina è più unita che mai. La resistenza sta avvenendo su tutti i livelli: ci sono lunghe code di volontari che vogliono andare a combattere o impegnarsi nella difesa locale delle loro città. Medici, giornalisti, poliziotti, postini, pompieri, lavoratori dei servizi pubblici, ferrovieri, tutti cooperano, rischiando anche la vita, per garantire la sopravvivenza del paese in questi tempi oscuri. È stato anche creato online un fronte di lotta contro la propaganda russa.

Un’immensa rete di volontari dentro e fuori i confini dell’Ucraina, forniscono tutti il necessario per sostenere l’esercito e aiutare lo stato. Contemporaneamente la fiducia degli ucraini verso lo stato è notevolmente aumentata. Dal 24 febbraio tutto viene condiviso: abbiamo ospitato le persone delle città bombardate; caffè e ristoranti stanno offrendo cibo ai militari e agli sfollati; ognuno cerca di dare aiuto in ogni modo possibile.

(da commons.wikimedia.org)

Apprezzo il coraggio civico dei russi che scendono in piazza e manifestano la loro condanna. Tuttavia, non credo che in questo momento il popolo russo sia in grado di fare la differenza, perché la propaganda di Putin, la rassegnazione e la paura hanno incatenato la maggioranza della popolazione. E penso anche che negoziare con i terroristi non può mai avere successo, e Putin è ora il terrorista numero uno sullo scenario globale. La comunità mondiale deve finalmente riconoscere che Putin e il suo entourage sono dei terroristi e deve punirli in maniera rigorosa secondo il diritto internazionale. Per anni questo regime è riuscito a nascondere i suoi crimini sotto la maschera delle operazioni di pace, ma ora non c’è dubbio che le guerre in Cecenia, Transnistria, Karabakh, Abkhazia, Ossezia, Siria e Ucraina sono crimini contro l’umanità. Se l’Unione Europea decide di ignorarlo, mostrerà di avere la stessa impotenza della Società delle Nazioni.

Ho fiducia nella forza della diplomazia ucraina e penso che saranno in grado di trasmettere questo messaggio. L’unica condizione accettabile sarebbe il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina e il risarcimento dei danni di guerra. Noi siamo qui a combattere per le nostre vite, per la nostra libertà e per i valori democratici. Gli ucraini sono ora uno scudo umano che sta difendendo l’Europa dall’assalto dei barbari. La mia paura principale in questo momento è la guerra prolungata, come sta accadendo in Siria. Chiedo ai cittadini che vogliono attivarsi di continuare a scendere in piazza per evitare un simile scenario nel centro dell’Europa del XXI secolo. Sarà un’atrocità.

Qui in Ucraina sentiamo molto questo sostegno e vi chiediamo di non permettere ai politici di ignorare una guerra spropositata al centro dell’Europa».

Immagine di copertina di Andrea Tedone