EUROPA

Gran finale

Il racconto della finale dell’Europeo 2016, Francia-Portogallo. Vista a migliaia di km di distanza

Francia-Portogallo. Finale dell’europeo 2016.

Mentre la polizia francese carica la moltitudine che tenta di raggiungere il maxi-schermo piazzato sotto la Tour Eiffel, mi trovo a migliaia di chilometri di distanza. In un tranquillo paesino della provincia di Salonicco, tra la prima lingua della penisola Calcidica e la città “porto dei balcani”.

Davanti allo schermo ci sono i miei amici greci, la coppia che vive nella casa, io e… una famiglia di curdi siriani. Mamma, papà, bambino e bambina. Vengono da Azfrin, il cantone del Rojava che non ha (ancora) la continuità territoriale con quelli di Kobane e Qamishlo. Hanno attraversato la Turchia, si sono imbarcati verso Lesvos, hanno superato il mare, sono andati ad Atene, hanno preso un autobus diretto verso nord, sono arrivati a Idomeni. Lì hanno sbattuto il muso contro il muro di filo spinato con cui il governo macedone, su pressioni europee, ha ricalcato il confine con la penisola ellenica.

Per poco. Non ce l’hanno fatta per poco. Soltanto poche settimane prima avrebbero potuto superare Idomeni, villaggio divenuto città, anonimo agglomerato di case finito sulle televisioni e i giornali di mezzo mondo. Sulla frontiera greco-macedone, però, questa famiglia di rifugiati trova qualcos’altro. Un giorno degli attivisti presenti nel campo da lungo tempo, ragazzi e ragazze in cui hanno fiducia, chiedono alla mamma e al papà se vogliono andare via. Andare a vivere in una casa vera e propria. L’offerta deve sembrare davvero strana a chi da mesi si trascina attraverso i campi profughi della Turchia prima e della Grecia poi. In quel momento, ad aprile, aleggia su Idomeni la minaccia di sgombero, le speranze che il filo spinato si apra sono crollate, ma non del tutto scomparse. Ci pensano, ne parlano. Accettano.

Mentre guardiamo la partita, il bambino e la bambina sono sorridenti e felici. In poco più di tre mesi hanno imparato a esprimersi in inglese, grazie alle lezioni quotidiane della ragazza che li ospita, e a dire alcune frasi in greco. «Non è una lingua difficile», mi risponde la piccoletta obiettando a un’affermazione che credevo scontata. Il papà è stanco, ha trovato lavoro nei campi della zona, con un vecchietto simpatico ma testardo. Ha lavorato anche oggi. Ci spiega con le mani i problemi del trattore e di alcune richieste che lui non condivide. «But the land is very good», dice. La mamma prepara il chai e guarda contenta i figli seduti in braccio alla coppia di greci. Anche lei sta studiando l’inglese e ha raggiunto velocemente un livello discreto. Chiacchieriamo a lungo, ci racconta le vessazioni subite durante il regime di Assad da parte di una donna, una donna curda che voleva andare all’università. Le mostro le foto del Newroz organizzato a Roma da Ararat (il centro socio-culturale curdo), delle manifestazioni a sostegno della resistenza di Kobane, degli striscioni contro il governo turco. Quasi si commuove. Dice che in Siria chi partecipava al capodanno curdo, festeggiato danzando intorno a un grande fuoco, veniva schedato e minacciato.

Davanti allo schermo, nell’aria fresca di una sera di luglio, sotto viti cariche di uva bianca, il passato recente di queste persone sembra lontano. Hanno avuto fortuna. Regna la tranquillità. Hanno chiesto il ricollocamento in Germania, dove vivono dei parenti, ma non sono più così sicuri di voler lasciare un paese che ha offerto loro il suo volto migliore. «Ospitateli a casa vostra se proprio volete gli immigrati», sbraitavano i razzisti mentre decine di migliaia di rifugiati rimanevano bloccati in Grecia, dopo la chiusura della frontiera. Così hanno deciso di fare Nikos, Ioanna e tanti altri. Alcuni avevano una casa a due piani, altri un appartamento vuoto o una stanza in più: hanno scelto di mettere questi spazi a disposizione di chi fugge dalla guerra. Hanno scelto di offrire un sostegno concreto ad alcune persone, ma anche di prendere una posizione politica chiara: non abbiamo paura, possiamo vivere insieme, vogliamo dividere quel poco che abbiamo.

Poco meno di un secolo fa, in questa stessa zona come in altre della Grecia, arrivarono in pochi anni oltre un milione e 200mila profughi: erano i greci espulsi dall’Asia Minore. Parlavano un greco strano, diverso. Alcuni erano ricchi, altri molto poveri. Tutti si trovarono a vivere in condizioni particolarmente difficili. Circa la metà di queste persone si stabilirono nella Macedonia (non lo Stato, che ancora non esisteva, ma la regione intorno a Salonicco). Il governo greco del tempo offrì loro le terre vicino al mare. Nacquero così i villaggi sparsi sulla costa che conservano nel nome la recente fondazione: Nea Moudania, Neos Marmaras, Nea Skioni. In un paese che viveva di agricoltura, i terreni vicini all’acqua salata valevano poco. Era difficile farci crescere il cibo necessario. Poi è arrivato il turismo ed è cambiato tutto. Il valore delle terre si è capovolto in alcuni decenni. Lo scorso anno, quando il flusso massiccio dei rifugiati è cominciato, i vecchi della zona andavano incontro ai siriani e agli altri piangendo. Portavano aiuti e si commuovevano. Rivivevano la tragica storia subita sulla propria pelle o, più spesso, ascoltata tante volte nei racconti dei genitori.

Mentre penso tutte queste cose, anche Cristiano Ronaldo piange. Continua a versare lacrime in diretta mondiale. Per l’infortunio, per la tensione. Piangerà anche a fine partita. Per la felicità probabilmente. Il goal della vittoria, però, non lo ha segnato lui. Il pallone che regala l’europeo al Portogallo viene insaccato da Eder. Éderzito António Macedo Lopes, calciatore nato in Guinea Bissau e “naturalizzato” portoghese. Un Negro regala l’europeo al paese che chiude a ovest il continente. E non c’è da stupirsi: metà dei giocatori scesi in campo non sono bianchi. Un’immagine potente per la finale del torneo in cui si sono affrontate le nazionali d’Europa.

Insomma, è stata una gran bella serata. Di quelle che ti fanno pensare che in mezzo a bestie che lanciano noccioline, a personaggi che dedicano la vita a fomentare l’odio, a governi che uccidono in mare e a terra… forse, c’è ancora speranza.